Spaak, Paul-Henri

Paul- Henri Spaak è considerato uno dei padri fondatori dell’Europa unita. La sua attività europeista e atlantica ha permesso al Belgio, sin dall’indomani del secondo conflitto mondiale,  di giocare un ruolo nelle relazioni internazionali superiori alle aspettative di un  paese di quelle dimensioni.
Nasce in Belgio  a Shaerbeek  il 25 gennaio del 1899 e muore a Bruxelles  il 31 luglio  1972. Il padre insegna letteratura all’università, la madre, membro del partito liberale,  è  la prima donna a entrare nel senato belga nel 1921.
Sin da giovanissimo Paul- Henri entra in contatto  con l’ambiente culturale bruxellese.
Nel 1916 non ancora maggiorenne, cerca di unirsi all’esercito belga, ma viene arrestato al momento di attraversare il canale della Campine e imprigionato a Turnhout. In autunno è trasferito nel campo di prigionia di  Senne in Vestfalia, vicino a Paderborn. Nel novembre del 1918 in seguito alla liberazione fa ritorno in patria, dove frequenta la Facoltà di Giurisprudenza e si laurea presso la Libera  Università di Bruxelles nel maggio del 1921. Inizia subito la pratica forense  e allo stesso tempo muove i primi passi in  politica. Aderisce ai principi del socialismo umanista di Jean Jaurès, e pur avvicinandosi in un primo momento ai circoli liberali  si iscrive al Parti Ouvrier Belge.  La sua prima breve esperienza governativa risale al  1925 quando diventa vice  capo di gabinetto del ministro dell’ Industria Joseph Wauters nel governo democratico- cristiano e socialista guidato da Poullet.
L’esperienza dura quasi un anno. E’ soprattutto  l’intensità della crisi economica, il forte deprezzamento del franco  a porre fine alla tenuta di quell’esecutivo che si dimette il 19 maggio 1926.
Fino al 1932 quando è eletto deputato nelle fila del partito socialista non ricopre incarichi legislativi né governativi e si dedica all’attività di avvocato. In seguito alla crisi del 1929 si distacca progressivamente dalla linea ufficiale del partito, matura  delle riflessioni sulla differenza tra le potenzialità del pensiero socialista e la sua realizzazione pratica e anticipa una linea anticomunista e antisovietica  che dopo la seconda Guerra Mondiale nutrirà il suo euroatlantismo nonché la sua difesa del concetto di civiltà occidentale.
Ricorrenti nei suoi scritti di questa stagione  appelli al   pacifismo e alla solidarietà come “armi” contro l’ascesa del nazionalismo e dei movimenti totalitari.
Il primo avvicinamento alle tematiche europeiste avviene grazie alla partecipazione alle riunioni promosse da Eduard Didier,  editore del giornale la Jeune Europe, la cui riflessione prende le mosse dal dibattito sulla realizzazione dei progetti europeisti previsti  dal Piano di Unione Federale presentato  da Aristide Briand all’Assemblea della Società delle Nazioni nel 1930.
Nel corso di questi incontri  conosce il cattolico Paul Van Zeeland, altro europeista belga,  la cui attività è riconosciuta, come nel caso di Spaak, fuori dai confini nazionali. Nel 1935 Van Zeeland  forma un governo  a cui prendono parte rappresentanti cattolici, liberali e socialisti e  chiama  Spaak ad occupare il dicastero dell’industria.
Nonostante  la crisi  dei partiti  tradizionali  e l’avanzata anche parlamentare del rexismo, movimento di orientamento fascista capeggiato da Leon Degrelle, dopo le elezioni del 1936 sarà nuovamente Van Zeeland a dare vita ad nuovo esecutivo. Alla luce dell’aumento del peso parlamentare dei socialisti,  Spaak questa volta ricopre la carica di ministro degli Esteri.
Con l’obiettivo di preservare il  Belgio dal convertirsi in un terreno di scontro tra francesi e tedeschi  Spaak  tiene il suo paese fuori dal gioco delle alleanze  e si  fa promotore di una politica neutralista.
Le tensioni sociali e il malcontento della popolazione non  vengono però riassorbiti  e il secondo governo van Zeeland rassegna le dimissioni nell’ottobre del 1937.
Dopo un nuovo esperimento governativo, sempre tripartito, guidato dal liberale Jonson, nel maggio 1938 per la prima volta  lo stesso Spaak  assumerà le redini dell’esecutivo.
Nel settembre del 1939 in seguito alla dichiarazione franco-britannica di guerra alla Germania in Belgio sarà il cattolico Hubert Pierlot a guidare un governo di unità nazionale composto da cattolici, socialisti e liberali, in cui Spaak   viene richiamato alla guida degli Esteri. A poco vale la politica di neutralità propugnata sin dalla metà degli anni Trenta.
Dopo l’invasione del Belgio da parte dei nazisti nel maggio del 1940, nonostante il rifiuto della monarchia a lasciare il paese dopo la resa dell’esercito, il governo di Bruxelles decide di non seguire le scelte di Leopoldo III e di   trasferirsi in esilio a Londra.
Spaak vive nella capitale britannica  dal 1940 al 1944. Questi anni sono importanti per lo sviluppo del suo europeismo e  servono anche a rinsaldare le relazioni  con il suo omologo inglese Antony Eden.
Grazie a quest’ultimo entra in contatto con gli altri otto rappresentanti di governo in esilio residenti a Londra e si confronta con loro circa il  contributo allo sforzo alleato e le prospettive  soprattutto economiche  dell’Europa postbellica.
In questo torno di tempo matura  l’idea dell’unione doganale con i Paesi Bassi e il Lussemburgo che avrebbe portato poi nel 1948  alla nascita del Benelux, che lo stesso  Spaak avrebbe in seguito  definito “un bene  per il nostro paese e un esempio per il mondo”.
Subito dopo la liberazione del Belgio nel settembre 1944 fa rientro in patria.
Né lui né gli altri membri del governo dell’esilio sono accolti come  leader della resistenza. Non sente di godere pienamente della legittimità derivante  dal non essersi  piegato all’occupazione tedesca, ma al contrario avverte uno scollamento  tra la popolazione e il governo dell’esilio.
Abbandonate definitivamente le velleità neutraliste si convince della necessità del mantenimento  della collaborazione  internazionale  per risolvere  i problemi del dopoguerra, sia per superare l’eredità delle contrapposizioni  tra i vincitori e gli sconfitti  del conflitto, sia in chiave interna per promuovere una piena riabilitazione  dell’operato del movimento resistenziale. Da subito ricopre incarichi con una prestigiosa proiezione internazionale.
Nel 1946 è il  primo presidente  dell’Assemblea  generale dell’ONU, dal 1948 al 1949  guida l’OECE.
In linea con le posizioni britanniche è un sostenitore dell’ampliamento  del Trattato di Dunquerke anche al Belgio, Olanda e Lussemburgo in quanto  considera centrale rafforzare la coesione atlantica in funzione antisovietica.
Nel suo famoso “discorso della paura”, tenuto presso l’Assemblea  Generale delle Nazioni Unite   il 28 agosto del 1948  nega la funzione aggressiva del Patto di Bruxelles, sottolinea invece  la funzione offensiva della politica estera sovietica e più specificamente mette in luce come l’unione  dei piccoli paesi come il Belgio, con potenze europee come la Francia e la Gran Bretagna sia  frutto più del timore del riproporsi di condizioni di debolezza e di occupazione nel caso di un nuovo conflitto che non di una  presunta volontà aggressiva.
Nel 1949 viene eletto presidente dell’Assemblea Consultiva del Consiglio d’Europa.
All’indomani della Dichiarazione  Schuman esprime una grande soddisfazione sia per i contenuti del piano sia  per il valore simbolico di riconciliazione franco tedesca che esso sottintendeva.
In concomitanza della  ratifica della CECA  Spaak lascia il Consiglio d’Europa.
Questo passaggio simboleggia l’evoluzione dalla difesa del modello confederale a quello  funzionalista.
Abbraccia da allora in poi  la causa federalista di Altiero Spinelli e si schiera a favore della creazione di un esercito europeo.
D’accordo con Monnet e Pleven Spaak  condivide  la scelta  del riamo tedesco all’interno  di un contesto europeo  e sostiene con vigore  il progetto del leader della  Democrazia   Cristiana italiana  De Gasperi di affiancare alla CED la creazione di una comunità politica europea attraverso la convocazione di  una costituente europea.
È  proprio Spaak a suggerire che  le funzioni di organo costituente vengano assegnate all’Assemblea della CECA per iniziare i lavori ancor prima della ratifica della CED.
Tale proposta viene accolta favorevolmente dai governi dei  sei stati membri  e l’Assemblea della CECA, presieduta dal 1952 al 1954  dallo stesso Spaak, elabora lo statuto della Comunità politica europea.
Il fallimento della CED affossa il tentativo  di creare una struttura sovranazionale di difesa e sicurezza comune e  trascina con se anche l’ipotesi della creazione di una comunità politica.  Tuttavia questo tragico epilogo  rende agli occhi del leader belga ancor più necessario  il rilancio di un progetto integrazionista. Si tratta infatti  “di difendere  non più solo un territorio  sacro, ma delle grandi idee, una civiltà comune,  regoli morali  e politiche comuni e una concezione  onorevole dell’uomo”.
Dopo una breve fase di stallo, e la messa da parte di ambiziosi progetti federali, Spaak sarà uno dei protagonisti  e degli animatori del cosiddetto rilancio europeo.
Da questo momento in avanti si fa promotore di una integrazione economica e sottolinea come questo percorso- alternativo al precedente-  avrebbe comunque  portato allo sviluppo di  un’unione anche politica, eliminando  molte delle controversie suscitate dall’adozione diretta di un modello federale. Egli condivide inoltre  con Adenauer, Hallstein, Beyen, Monnet e De Gasperi  il principio secondo cui il confine dello stato nazione all’indomani della guerra non è più  una garanzia dello sviluppo economico e politico dei paesi dell’Europa occidentale.
Sostiene  il progetto già presentato nel 1952  dall’allora  ministro degli esteri olandese Beyen  a favore  di un mercato comune europeo. Mentre Monnet  sin dall’inizio del 1955 punta più su una integrazione settoriale sul modello della CECA e in particolare  sullo sfruttamento dell’energia nucleare.
Questi due modelli  vengono presentati  nel corso della Conferenza di Messina che si svolge l’1 e il 2 giugno del 1955.
In quell’occasione i sei concordano sullo sviluppo di una organizzazione per l’energia atomica civile  e la creazione di un mercato comune, comprendente anche  il libero trasferimento della manodopera, misure   di armonizzazione economica e sociale e istituzioni comuni. Un comitato di esperti presieduto da Spaak viene incaricato di redigere uno  studio dettagliato su questi aspetti.
Nel 1955 l’idea del rilancio passava attraverso un duplice binario: da un lato Benelux e Germania  si dimostravano  a favore di una integrazione orizzontale volta all’eliminazione delle barriere doganali e alla creazione di un Mercato Comune, dall’altro la Francia puntava di più su un integrazione settoriale, in concreto sull’energia atomica.
Le divergenze iniziali sui tempi e i modi di lavoro  dividono Spaak dai ministri degli esteri francese e tedesco, rispettivamente  Antoine Pinay e  Walter Hallstein.
Il comitato Spaak tiene le sue riunioni a Bruxelles e nel Castello di Val Duchesse dal   9 luglio del 1955 e fino  al 20 aprile del 1956. Esso è composto  da cinque commissioni e 4 sottocommissioni  di tecnici. Vi è poi  una direzione, in cui confluiscono  i capi delegazione il cui  obiettivo  è  sia di  “stimolare, dirigere, coordinare ed osservare” il lavoro dei comitati di esperti,  sia, successivamente,   di valutare i report settoriali  redatti da questi ultimi.
Possiamo dividere il lavoro del Comitato  in due i tempi: il primo va  dal luglio  all’ottobre  del 1955 e il secondo da novembre del 1955 ad aprile 1956.
Gli esperti nel corso dei loro incontri svolti durante i primi quattro mesi  fanno una mappatura  dei problemi tecnici  relativi  all’integrazione economica. Tuttavia gli approcci registrati si rivelano  troppo divergenti   ed è  impossibile raggiungere un accordo concreto da utilizzare  come base  dei successivi negoziati intergovernativi.
Lo stesso Spaak   non si dichiara soddisfatto  e  a partire dal novembre 1955 assegna ad un ulteriore gruppo  di  saggi, tra cui spiccano   Pierre Uri,   Hans von der Groeben e  Albert Hupperts,  il compito  di armonizzare i lavori precedenti e di presentare un nuovo rapporto.
Solo dopo l’investitutra di Guy Mollet  all’inizio di febbraio  del 1956 la congiuntura  politica ed economica appare più favorevole e i  lavori riprendono con l’obiettivo di giungere a un documento finale propositivo nel più breve tempo possibile.
Si lavora  a favore di una integrazione orizzontale con la sola eccezione del settore dell’energia atomica per cui è invece prevista una integrazione settoriale.
In questa seconda fase   il rapporto stilato  stabilisce  una struttura di obiettivi  puntuali e mezzi per raggiungerli.
Non vi è  ancora una uniformità di vedute né sul mercato comune né sull’energia atomica ma  Spaak influenza  in modo decisivo questa seconda fase  più “politica” del negoziato. Svela una importante dose di pragmatismo che, dal secondo dopo guerra in poi, informa le sue decisioni politiche,  riuscendo  a collegare le richieste  di Monnet a  quelle di  Beyen,  facendole convergere alla fine in un unico documento.
Spaak  capisce  che per non arenare i lavori del comitato  e  ancorare i francesi al tavolo negoziale del mercato unico è  necessario  includere nel “pacchetto” il progetto dell’Euratom.
Utilizza molto le sue capacità di mediazione su quest’ultimo aspetto, soprattutto  poiché lo interpreta come lo strumento che  avrebbe permesso di  ammorbidire  il punto di vista francese anche sugli aspetti del Mercato comune.
L’obiettivo di Spaak  è quello di presentare i principi che avrebbero animato il mercato comune  superando i diffusi  istinti protezionisti limitando al massimo il riconoscimento di clausole di eccezionalità.
Una volta accettati entrambi i modelli di integrazione per il futuro dell’unificazione, il gruppo dei saggi redige un testo di 135 pagine che viene  firmato da tutti i capi delegazione. Il rapporto Spaak viene  presentato   alla conferenza dei ministri degli Esteri dei Sei   svoltasi  a Venezia  il 29 e 30 maggio 1956.
Si decise di procedere  verso due Trattati, uno per l’Euratom  e uno  per una Comunità economica europea e si convoca  una conferenza intergovernativa per elaborarli, sempre presieduta da Spaak. I negoziati    si aprono  ufficialmente il 26 giugno a Bruxelles.
Il comitato dei capi delegazione  approva  sotto la guida dei ministri degli esteri     le bozze dei trattati.
I veri e propri negoziati iniziano  solo all’inizio di settembre. Come è noto il governo francese avrebbe continuato a spingere per  una rapida approvazione dell’Euratom  lasciando per un secondo momento l’approvazione del Mercato Comune,  mentre la Germania  e il Benelux avrebbero seguito l’ordine inverso.
Ancora una volta la Francia non sembra volere cedere. Essa  pone le sue condizioni  puntando sulla armonizzazione  dei costi sociali  prima del lancio del mercato unico, sulla  possibilità di reintrodurre misure protezioniste, nel caso in cui le difficoltà economiche  nella bilancia dei pagamenti lo avessero richiesto, chiedendo  delle dilazioni aggiuntive nei tempi di  realizzazione  della unione doganale a causa della sua particolare situazione interna  caratterizzata dalla  crisi algerina.
Solo dopo l’escalation della crisi di Suez  il governo Mollet decide di non rischiare l’approvazione dei trattati sul fronte europeo e  abbandona la sua tecnica di protezionismo difensivo.
Il 25 marzo del 1957 a Roma  in Campidoglio presso la sala degli Orazi e Curiazi    vengono firmati i trattati istitutivi della CEE e dell’Euratom   elaborati a partire dai lavori  del Rapporto Spaak.
Spaak definisce il risultato raggiunto a Roma “il trionfo dello spirito di cooperazione  e la sconfitta  del nazionalismo egoista”.
In linea con il suo progetto in difesa della civiltà occidentale  due mesi dopo la firma dei trattati Spaak, nel maggio,  assume la carica di segretario generale della Nato. Incarico che ricopre fino al 1961.
Dopo le elezioni belghe del 26 marzo di quell’anno ritorna a svolgere la funzione di ministro degli esteri nel governo Lefèvre formato da socialcristiani e socialisti  e  affronta da un lato la decolonizzazione del Congo e dall’altro esercita un rinnovato vigore a difesa del  metodo funzionalista europeo opponendosi all’approvazione del Piano Fouchet, di matrice gollista,   volto al rafforzamento di una Europa  basata su un modello confederale. In linea con la sua concezione euroatlantica  vede nella richiesta  della Gran Bretagna sia un rafforzamento del progetto d’integrazione, sia un modo di arrestare il rinsaldarsi dell’asse franco-tedesco. Per tali ragioni  si schiera contro i due veti gollisti.
Si ritira dall’attività politica nel 1966 e muore nel luglio 1972.

Maria Elena Cavallaro (2013)




Spadolini, Giovanni

S. (Firenze 1925-Roma 1994), storico, giornalista, uomo politico, segretario nazionale del Partito repubblicano italiano (PRI), ministro dei Beni culturali, della Pubblica istruzione e della Difesa, due volte presidente del Consiglio, senatore, senatore a vita, presidente del Senato è stato, nell’ultimo trentennio del XX secolo, il principale rappresentante italiano dell’europeismo atlantista liberaldemocratico.

La formazione giovanile, avvenuta nell’ambiente della borghesia colta e artistica fiorentina fortemente intrisa di nazionalismo e di vocianesimo, porta S. a collaborare, nei primi mesi del 1944, su posizioni di revisionismo antisabaudista, ma accesamente nazionaliste e antieuropeiste, alla rivista “Italia e civiltà”, animata da Barna Occhini e Ardengo Soffici.

Già nel primissimo dopoguerra S., a contatto con il mondo dell’antifascismo democratico fiorentino, abbandona queste posizioni e matura la convinzione che la stabilità della democrazia italiana sia intimamente connessa alla scelta europeista.

L’europeismo culturale di S. trova il proprio punto di riferimento politico nella lettura atlantista e occidentalista dell’europeismo sostenuta da Carlo Sforza e da “Il Mondo” di Mario Pannunzio, cui S. collabora sin dal primo numero.

La scelta euroatlantica, come S. sottolinea in un articolo pubblicato nel 1957 sulla “Nuova antologia” – in occasione della ratifica dei Trattati di Roma – e dal titolo emblematico I partiti e l’Europa, non è solo imprescindibile in politica estera, contro le suggestioni neutraliste e autonomiste, ma costituisce un punto di riferimento obbligato in politica interna per tracciare una linea di demarcazione tra i diversi schieramenti, delimitando un’area di centro riformatrice, liberale e democratica, distinta e opposta sia alla sinistra socialcomunista sia alle forze conservatrici e reazionarie.

Europeismo e occidentalismo costituiscono uno degli elementi caratterizzanti la lunga direzione (1955-1968) del “Resto del Carlino”, contribuendo alla definizione di una chiara linea di riformismo laico nella complessa situazione bolognese ed emiliana degli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, ampiamente egemonizzata dal Partito comunista italiano e dalla Democrazia cristiana.

Contestualmente S. approfondisce la propria riflessione più propriamente storico-culturale sul valore dell’integrazione europea, approdando, con lo scritto Europa e libertà pubblicato nel 1966 nella “Nuova antologia”, a una lettura che identifica nell’unità politica europea la condizione necessaria per il consolidamento delle istituzioni democratiche in Italia (v. anche Integrazione, teorie della).

L’abbandono forzato della direzione del “Corriere della Sera” nel 1972, dopo solo quattro anni, segna l’ingresso di S. nella politica attiva, con l’elezione a senatore del PRI. L’europeismo spadoliniano ha così modo di sostanziarsi, nel teso scenario internazionale degli anni Settanta, in una azione politica effettiva i cui tre capisaldi sono costituiti dalla riaffermazione dei vincoli atlantici, dal rafforzamento delle Istituzioni comunitarie europee e dalla vicinanza politica e anche personale nei confronti dello Stato di Israele.

Succeduto nel 1979 a Ugo La Malfa, in seguito alla morte di questi, alla guida del PRI, S. lancia al 34° Congresso del PRI (Roma, aprile 1981) la parola d’ordine della “piena occidentalizzazione dell’Italia”, ribadendo lo stretto nesso tra politica estera e politica interna che è al cuore del suo europeismo.

Nel giugno 1981 diventa il primo presidente del Consiglio non democristiano della storia repubblicana. S. assume l’incarico in un momento particolarmente delicato sul piano internazionale, caratterizzato dallo sviluppo del terrorismo legato alle vicende palestinesi, dallo scontro tra gli Stati Uniti di Ronald Reagan e l’Unione Sovietica guidata da Leonid Brèžnev, e da una progressiva marginalità diplomatica dell’Italia.

S. rilancia l’attivismo diplomatico dell’Italia abbandonando, parzialmente, il multilateralismo caratteristico dei governi precedenti, in favore di un più stretto ancoraggio alle istituzioni comunitarie europee e all’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), con il duplice obiettivo di impedire da una parte la degenerazione dell’attivismo in un autonomismo velleitario, e dall’altra la realizzazione di “direttori informali” che escludessero l’Italia.

In questo contesto si colloca la cosiddetta crisi degli “euromissili” – la decisione cioè di collocare nei paesi dell’Europa occidentale missili nucleari di media gittata, in risposa a un’analoga decisione presa dall’Unione Sovietica e dal Patto di Varsavia – che costituirà il primo banco di prova dell’euroatlantismo spadoliniano. Seguendo una linea inaugurata già dai precedenti governi, S. agisce contemporaneamente su due fronti, assicurando la disponibilità italiana a ospitare le testate nucleari e impegnandosi per l’apertura di negoziati tra le due superpotenze, basati sull’“opzione zero”, cioè sullo smantellamento dei missili da parte di ambedue i contendenti. In questo modo S., agendo in stretta collaborazione con il cancelliere tedesco Helmut Schimdt riesce a rilanciare il ruolo dell’Europa come soggetto attivo del processo di distensione, indicando una soluzione che sarà poi effettivamente attuata.

Tuttavia proprio S. si trova ad affrontare uno dei più gravi momenti di tensione tra l’Italia e i partner e le istituzioni comunitarie, in occasione della guerra delle Falkland. Di fronte alla pressione dell’opinione pubblica, dei partiti e dello stesso parlamento, il governo S., pur esprimendo la propria vicinanza nei confronti del Regno Unito, si trova obbligato a rompere la solidarietà comunitaria e a invocare il Compromesso di Lussemburgo, rifiutandosi di votare l’embargo economico nei confronti dell’Argentina. Peraltro, proprio la posizione assunta in occasione della crisi consente all’Italia di svolgere un ruolo da protagonista, a conflitto concluso, nel riavvicinamento tra i paesi dell’America Latina e la Comunità europea.

Obbligato alle dimissioni nel novembre 1982, S. ritorna a responsabilità di governo dopo le elezioni del 1983, che segnano per il PRI il massimo risultato elettorale della sua storia, come ministro della Difesa nel governo presieduto da Bettino Craxi.

S. presenta, nel novembre di quello stesso anno, gli indirizzi della sua politica ministeriale, che ribadiscono la centralità della scelta atlantica e il rifiuto di una linea politica autonoma al di fuori del quadro strategico generale della NATO, in particolare per quando riguarda il Mediterraneo. Questa linea verrà ulteriormente chiarita e approfondita nel Libro bianco (v. Libri bianchi) del 1985, che ribadisce il rifiuto costituzionale del ricorso alla forza come strumento di risoluzione delle controversie internazionali, la lealtà all’Alleanza atlantica, il quadro europeo delle decisioni politiche e strategiche e infine la specificità del ruolo mediterraneo dell’Italia.

Coerentemente con le proprie linee programmatiche, l’impegno internazionale di S. fu rivolto principalmente alla rivitalizzazione organizzativa e politica dell’Unione dell’Europa occidentale (UEO), con l’obiettivo di riequilibrare i rapporti tra le due sponde dell’Atlantico in ambito militare, all’interno di una concezione paritaria dell’Alleanza, e di impedire allo stesso tempo spinte centrifughe dei singoli paesi.

L’iniziativa di S. sfocia nel primo Consiglio dei ministri della Difesa e degli Esteri degli Stati membri e nella Dichiarazione di Roma del 27 ottobre 1984, che esplicita la volontà di aumentare la collaborazione tra gli Stati nell’ambito della politica militare, costituendo una sorta di abbozzo di Politica estera e di sicurezza comune (PESC).

Il 1984 è anche l’anno delle Elezioni dirette del Parlamento europeo, in un clima caratterizzato dal dibattito suscitato dal Progetto Spinelli (v. Spinelli, Altiero). S. sostiene la proposta e lancia le liste di “iniziativa federalista” promosse dal PRI e dal Partito liberale italiano (PLI) (v. Federalismo). L’esperienza ha un successo moderato, superando di poco il 6% e consentendo l’elezione di cinque eurodeputati, tra cui lo storico liberale Rosario Romeo.

Al di là dei risultati elettorali S. si afferma come uno dei punti di riferimento dell’opinione pubblica europeista e delle forze politiche impegnate nello sforzo di riforma delle istituzioni comunitarie, che sfocerà nell’adozione dell’Atto unico europeo. Il ruolo di S. viene consacrato dalla sua partecipazione come oratore ufficiale alla manifestazione europeista e federalista a Milano in occasione del Consiglio europeo del 28 e 29 giugno 1985.

Anche dal punto di vista culturale il 1984 è per S. estremamente significativo: la ricorrenza del 150° anniversario della fondazione della Giovine Europa da parte di Giuseppe Mazzini è l’occasione per sviluppare una articolata riflessione sulla continuità della tradizione europeista italiana da Mazzini al Manifesto di Ventotene. Sempre nel 1984 S. pubblica L’idea d’Europa fra illuminismo e romanticismo, la sua opera più completa sulla civiltà europea, concepita come frutto dell’incontro tra l’umanesimo cristiano e la filosofia illuministica.

Nell’ottobre del 1985 l’euroatlantismo di S. è messo a dura prova a causa della vicenda dell’Achille Lauro, che vede fronteggiarsi governo italiano e statunitense sui modi di gestione della crisi. Dopo aver sostenuto il governo di fronte alla decisione di favorire la fuga dei terroristi palestinesi S. si dissocia, ritirando la delegazione repubblicana dal governo e provocando la crisi, poi rientrata, del governo Craxi.

Dopo le elezioni del 1987, S. è designato, a larghissima maggioranza, presidente del Senato, carica che mantiene fino a pochi mesi prima della morte, nel 1994, quando dopo un tesissimo duello con il candidato di Forza Italia, Carlo Scognamiglio, viene sconfitto per un solo voto di scarto.

Gli anni della presidenza del Senato sono caratterizzati da un minore attivismo politico; ma la politica internazionale rimane tra gli ambiti di azione prediletti di S. che, di fronte alla crisi del mondo bipolare, si avvicina a una visione multilateralista delle relazioni internazionali, riconoscendo alle Nazioni Unite un ruolo di moderatore assai più ampio che in passato.

Non cessa neanche la riflessione politico-culturale, che ha due dei suoi momenti più significativi nella Jean Monnet Lecture (v. Monnet, Jean) tenuta all’Istituto Universitario europeo nel 1990 e nella celebrazione, come oratore ufficiale, a Ventotene, l’anno dopo del cinquantenario del Manifesto.

La centralità della scelta euroatlantica come imprescindibile punto di riferimento per la democrazia italiana viene ribadita, in una sorta di estremo atto di fedeltà, proprio nell’ultimo discorso pubblico di S., tenuto in Senato il 17 maggio 1994 in occasione del voto di fiducia al primo governo di Silvio Berlusconi:

«L’Italia è una democrazia che ha riconquistato a duro prezzo un posto nel consesso delle nazioni civili, una democrazia che, attraverso il superamento dei confini ha saputo guardare all’Europa, spingersi anche al di là dell’Oceano atlantico».

Pietro Finelli  (2012)




Spagna

L’ingresso della Spagna nelle Comunità europee, avvenuto ufficialmente il 1° gennaio 1986, da un lato ha rappresentato il punto d’arrivo di un lungo e tortuoso processo di avvicinamento iniziato a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, cioè in pieno regime franchista, e dall’altro ha costituito l’agognato traguardo di un europeismo democratico le cui radici affondano nel cuore del XIX secolo.

Sin dai primi decenni dell’Ottocento, infatti, non solo i liberali spagnoli avevano guardato all’Europa, intesa come l’insieme degli Stati più avanzati del continente, come a un modello di riferimento per modernizzare il paese, ma anche tanti repubblicani e socialisti utopisti avevano addirittura indicato negli Stati uniti d’Europa un obiettivo programmatico di politica estera, a completamento dei progetti di Unione iberica con il Portogallo e di Unione latina con Francia e Italia.

Questo, ad esempio, era il caso di intellettuali quali il saint-simoniano Francisco Díaz de Morales Bernuy (1792-1850), e del socialista Fernando Garrido y Tortosa (1821-1883), autore nel 1855 del celebre saggio intitolato La República democrática, federal universal. Nociones elementales de los principios democráticos, nel quale si auspicava una rivoluzione che avrebbe rovesciato il sistema monarchico in Europa e dato vita a una federazione continentale. Ma anche il fourieriano Sixto Sáenz de la Cámara (1825-1859), o il democratico José María Orense Milá de Aragón (1803-1880), e lo stesso Emilio Castelar y Ripoll (1832-1899), almeno negli anni compresi tra la caduta di Isabella II e la Prima repubblica, o perfino Francisco Pi y Margall (1824-1901), il massimo pensatore federalista spagnolo della seconda metà dell’Ottocento, con particolare riferimento al volume su Las nacionalidades del 1876, fecero propri i valori dell’unità europea, anche se con toni e accenti spesso differenti.

Trattandosi poi non soltanto di intellettuali, ma anche di personaggi di primo piano della vita politica spagnola, le loro idee europeiste finirono per segnare profondamente la sinistra repubblicana spagnola del XIX secolo, sino a trasformarsi in programma d’azione nell’ambito di quel Partido republicano federal español che avrebbe svolto un ruolo da protagonista durante il Sessennio rivoluzionario (1868-1874). Poco importa se il loro europeismo fosse in gran parte di derivazione mazziniana, anche perché nelle loro riflessioni non mancò mai un significativo apporto teorico originale, così come non vale la pena soffermarsi troppo sul carattere utopistico di una proposta politica destinata necessariamente a essere troppo in anticipo sui tempi della storia; il dato sorprendente, l’elemento che merita invece di essere sottolineato, consiste nel fatto che la Spagna di quegli anni fu l’unico paese europeo in cui il Federalismo infranazionale e sopranazionale arrivò ad avere un seguito realmente popolare, quasi da ideologia di massa.

L’europeismo spagnolo del XIX secolo ebbe però vita breve, dato che la guerra franco-prussiana del 1870 e, più in generale, la degenerazione dei nazionalismi nella cosiddetta età dell’imperialismo misero presto la parola fine su qualsiasi progetto di unificazione continentale. Solo al momento della proclamazione della Repubblica nel 1873 venne rispolverata la prospettiva dell’unità europea, ma si trattava ormai soltanto di discorsi di rito, pronunciati senza più alcuna convinzione.

Di conseguenza, nell’ultimo quarto dell’Ottocento furono semmai l’internazionalismo marxista e quello anarchico a contrapporsi alla nuova ondata nazionalista. Solo il disastro del 1898, cioè l’umiliante sconfitta nella guerra contro gli Stati Uniti e la conseguente perdita della ricca colonia cubana, fecero sì che in Spagna si tornasse in qualche modo a parlare d’Europa, almeno nei termini indicati dal rigenerazionista Joaquín Costa y Martínez (1846-1911), il quale aveva indicato nell’europeizzazione del paese l’unica possibile via d’uscita da una crisi e da un declino altrimenti irreversibili.

Non fu pertanto casuale il fatto che molti intellettuali della cosiddetta generazione del 1898 abbiano sviluppato un notevole interesse per l’Europa, anche se è vero che forse solo José Ortega y Gasset (1883-1955), pur tra qualche incertezza e contraddizione, arrivò a parlare esplicitamente di unificazione europea. Questi orientamenti non furono però fatti propri dai governanti, che tuttavia nei primi due decenni del Novecento ebbero il merito di aver fatto uscire la Spagna dall’isolamento internazionale e di non averla trascinata nella tragedia della Prima guerra mondiale. Forte di questo risultato la Spagna negli anni successivi avrebbe addirittura rivendicato un seggio permanente nel Consiglio della Società delle Nazioni.

Con la dittatura di Primo de Rivera si accentuò ulteriormente l’impostazione nazionalista della politica estera spagnola, che subì una svolta solo durante la Seconda repubblica. Nei pochi anni che precedettero la guerra civile, il paese infatti si distinse nel sostegno attivo alle politiche della Società delle Nazioni, oltre che per una nuova impostazione internazionale rigorosamente neutralista e pacifista. Ma l’instabilità politica che caratterizzò la storia della Seconda repubblica e la conseguente successione di governi impedì di fatto al paese di svolgere sotto questo aspetto un’azione realmente incisiva.

Con la guerra civile la situazione tuttavia mutò radicalmente, dato che il conflitto superò subito i confini della dimensione nazionale per internazionalizzarsi in un confronto più generale tra fascismo e antifascismo, dittatura versus democrazia. A questo proposito sono noti gli aiuti forniti ai militari franchisti da Germania, Italia e Portogallo, così come l’inerzia di Francia e Regno Unito, cioè dell’Europa democratica, nei confronti del governo legittimo, che pur ricevette un concreto sostegno dall’URSS e dal Messico, oltre che dalle migliaia di combattenti per la libertà inquadrati nelle Brigate internazionali.

Francia e Gran Bretagna, insomma, tradirono le aspettative di Azaña e dei repubblicani spagnoli, che si sentivano europei e che nell’Europa democratica avevano al contrario riposto fiducia. Da parte sua il franchismo pretendeva invece di incarnare l’identità nazionale, e pur avendo osservato la neutralità durante la Seconda guerra mondiale – con l’eccezione della partecipazione della divisione Azul all’operazione Barbarossa –, non smise mai di simpatizzare per i paesi dell’Asse, con i quali aveva del resto firmato il patto anti Comintern il 6 aprile 1939, né di condividere il progetto hitleriano per l’instaurazione di un nuovo ordine europeo e mondiale.

Queste scelte di politica estera, motivate indubbiamente anche da affinità ideologiche con i fascismi, avrebbero condotto il paese nel dopoguerra all’isolamento internazionale. Nel dicembre 1946 l’Assemblea generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), infatti, dichiarò di non riconoscere il governo di Franco come rappresentante della nazione spagnola, e invitò i suoi membri a rompere le relazioni diplomatiche con Madrid (gli unici a non adeguarsi furono il Portogallo, la Svizzera e il Vaticano, anche se molti paesi continuarono ad avere rapporti commerciali con la Spagna, a cominciare proprio dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna). A parte il Portogallo di António de Oliveira Salazar, solo l’Argentina del generale Juan Perón si schierò apertamente al suo fianco, tanto da concludere nel 1947 un importante accordo economico che di fatto salvò il paese dalla carestia.

In generale, l’Europa si mostrò poi particolarmente ostile verso la Spagna, e anche per questa ragione la bandiera dell’europeismo entrò a far parte ancor più chiaramente del bagaglio culturale degli esuli politici. Non deve perciò stupire che al Congresso dell’Aia del 1948 avessero partecipato illustri personalità dell’esilio spagnolo come il saggista Salvador de Madariaga, il socialista Indalecio Prieto, il chirurgo Josep Trueba e il leader nazionalista basco José Antonio Aguirre. Così come rientra nella logica delle condanne espresse verso ogni tipo di dittatura la ferma presa di posizione del Consiglio d’Europa – uno dei primi organismi europei – nei confronti del regime franchista, approvata dall’Assemblea consultiva il 10 agosto 1950.

Nell’immediato dopoguerra, e per tutta la seconda metà degli anni Quaranta, la Spagna franchista percepì l’Europa come una minaccia, essendo stata completamente emarginata dalla vita politica del continente e dall’avvio del processo d’integrazione (v. Integrazione, metodo della). Particolarmente ostile nei suoi confronti risultava poi la Francia, che nel 1947 chiese esplicitamente agli Usa di escludere la Spagna dai finanziamenti del Piano Marshall. Era comunque evidente che i valori di fondo che ispiravano il processo d’integrazione europea erano proprio quei valori liberali, democratici e forse perfino socialdemocratici contro cui Franco e gli altri generali insorti nel 1936 avevano combattuto durante la guerra civile (v. Integrazione, teorie della).

In quel nuovo contesto internazionale la Spagna si mosse respingendo da un lato le accuse che le erano state rivolte, ma dall’altro mostrando qualche timido segnale di apertura, sopprimendo ad esempio il saluto fascista, assegnando incarichi di governo a esponenti della Asociación católica nacional de propagandistas (ACNP) e mitigando attraverso riforme costituzionali di facciata il carattere totalitario del regime. Non furono però certo questi piccoli cambiamenti a modificare l’immagine internazionale della Spagna, bensì il clima più favorevole che si venne instaurando grazie all’avvio della Guerra fredda.

In questa logica l’anticomunismo di Franco diventava paradossalmente un titolo di merito, tanto da far passare in secondo piano i suoi crimini. Così nell’autunno del 1947 gli USA decisero di normalizzare i rapporti con la Spagna, considerandola un possibile interlocutore nel confronto planetario con l’URSS, e nel febbraio 1948 anche la Francia lanciò un segnale in questa direzione riaprendo le frontiere con il paese iberico. Il primo successo della diplomazia spagnola si verificò tuttavia solo nel febbraio dell’anno successivo, con la concessione di un prestito di 25 milioni di dollari dalle banche americane, cui fece seguito nel novembre 1950 il voto favorevole dell’Onu al ritorno degli ambasciatori a Madrid e all’ammissione del paese nella Food and agricolture organization (FAO).

Nei primi anni Cinquanta vennero compiuti altri passi decisivi per l’accettazione della Spagna nel consesso internazionale: nel 1952 essa diventò infatti membro dell’United Nations educational, scientific and cultural organization (UNESCO), nel 1953 siglò in agosto un concordato con il Vaticano e in settembre stipulò un accordo di mutua assistenza con gli USA che gli avrebbe fruttato nuovi crediti, mentre nel 1955 venne ammessa come membro a pieno titolo nell’ONU. In quel periodo praticamente solo i paesi del blocco sovietico sostennero la linea dell’intransigenza nei confronti di Franco, mentre aperture nei suoi confronti provenivano oltre che dagli Stati Uniti da quasi tutti i paesi latino-americani, a eccezione del Messico, e dai paesi arabi. I paesi europei, viceversa, continuano a mostrarsi ostili verso il dittatore, dato che l’opinione pubblica non aveva certamente dimenticato i recenti crimini del fascismo.

Tuttavia, sin dal 1953, furono avviati contatti con l’Organizzazione europea di cooperazione economica (OECE), che alla fine la accettò tra i suoi membri nel 1955. Di conseguenza la Spagna venne inserita in alcuni progetti di cooperazione sopranazionale che, per la loro natura strettamente economica, non implicavano alcuna pregiudiziale di tipo politico. Questi primi risultati costituirono un importante successo per Franco che, antieuropeista per ragioni ideologiche, si era però via via convinto che nel caso in cui si fosse realizzata in Europa un’area di libero scambio, la Spagna non avrebbe potuto restarne fuori.

L’interesse per l’Europa, intesa nel suo significato storico-politico, nella Spagna franchista risaliva almeno alla fine degli anni Quaranta, quando venne realizzata una serie di iniziative tese a conoscere meglio la realtà europea promosse dall’Ateneo di Madrid, da varie università, da enti culturali come ad esempio la reale Accademia di scienze morali e politiche o l’Istituto di studi politici. Se tuttavia per Franco l’Europa rappresentava soprattutto un’occasione, o tutt’al più una sgradevole necessità, in Spagna si svilupparono invece in quegli anni convincimenti più sinceramente europeisti, come nel caso dei cattolici della ACNP, o anche di alcuni gruppi dell’opposizione interna. Resta però fuori dubbio che l’autentico europeismo era per lo più appannaggio della Spagna dell’esilio, dove operavano il già menzionato Salvador de Madariaga, che nel 1952 pubblicò a Londra il volume Europe, a unit of human culture ed Enrique Adroher “Gironella”, allora dirigente del Movimento europeo e del Movimento socialista per gli Stati uniti d’Europa; inoltre, dopo qualche anno sarebbe stato costretto all’esilio anche Enrique Tierno Galván, già docente all’Università di Salamanca ed eminente studioso delle tematiche europee.

Del resto, per tutti i primi anni Cinquanta, la politica estera spagnola guardava più agli USA e all’atlantismo che non all’Europa. Franco tuttavia riteneva che la Spagna avrebbe dovuto svolgere una sorta di missione in Europa, recuperando quei valori tradizionali e quelle radici cristiane che la cultura laica, materialista e financo marxista aveva a suo avviso rimosso. Ma egli era al contempo consapevole dell’impossibilità oggettiva della sua proposta, lontana anni-luce dai progetti di Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi, Jean Monnet, Robert Schuman e Paul-Henri Spaak.

Ma a fine anni Cinquanta, di fronte al rilancio comunitario rappresentato dalla Comunità economica europea (CEE) e dalla Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom), anche la Spagna accrebbe il suo interesse per l’Europa. Nonostante il fatto che nel biennio 1956-1957 fossero usciti di scena sia il ministro della Pubblica istruzione Joaquín Ruíz-Giménez, sia il ministro degli Esteri Alberto Martín Artajo, due cattolici ritenuti troppo liberali, la prospettiva europea non venne però messa in discussione. Anzi, con il rimpasto governativo del 25 febbraio 1957, e l’arrivo al governo di un gruppo di tecnocrati vicini all’Opus Dei come il ministro del Commercio Alberto Ullastres e quello delle Finanze Mariano Navarro Rubio, tale prospettiva finì addirittura per rafforzarsi.

Così, a fronte della firma dei Trattati di Roma, venne istituita in Spagna, nel luglio del 1957, la Commissione interministeriale per lo studio delle Comunità economica e atomica europee (CICE), con il compito di studiare il loro funzionamento e valutare se esse avessero condotto alla creazione di un’area di libero scambio. Ma soprattutto è importante ricordare che nel 1959, proprio i nuovi ministri economici Ullastres e Navarro Rubio lanciarono quel Piano di stabilizzazione economica che introduceva in Spagna cospicui elementi di liberalismo e avvicinava di fatto il paese al resto dell’Europa.

Di conseguenza, crebbero considerevolmente i vincoli economici con i paesi della CEE, mentre anche sul piano politico vennero compiuti passi in questa direzione dal nuovo ministro degli Esteri Fernando María Castiella. Tuttavia, non tutti gli economisti spagnoli, e ancora meno gli uomini politici, erano convinti che questa fosse l’unica strada possibile per rilanciare l’economia del paese, una sorta di percorso obbligato. Non era infatti così scontato il buon funzionamento della CEE, e un’alternativa appetibile era offerta dall’Associazione europea di libero scambio (EFTA), che era stata creata proprio nel 1959 dalla Gran Bretagna in concorrenza con le Comunità europee.

Anche nel nuovo contesto gli europeisti più convinti continuarono però a essere gli antifranchisti, poiché a nessuno sfuggivano le implicazioni politiche, in termini di democrazia, dell’ingresso della Spagna in Europa. Nel frattempo, anche sul piano delle relazioni internazionali, si registrarono netti miglioramenti nei rapporti con la Francia e con la Germania, così come si verificò l’ammissione dell’ambasciatore spagnolo a Bruxelles, cioè presso la CEE, alla fine del 1960. Ma un ruolo decisivo giocò soprattutto la constatazione nei primi anni Sessanta dei buoni risultati conseguiti dalla CEE, che costituivano una delle ragioni principali del boom economico dei suoi Stati membri.

Di conseguenza anche la Spagna, sulla scia di altri paesi, si apprestava a chiedere l’apertura di un negoziato di Associazione alla CEE. Una complicazione non di poco conto derivava però dal fatto che il 31 dicembre 1961 il Parlamento europeo avesse approvato un decreto, presentato dal socialdemocratico tedesco Willy Bilkerbach, che stabiliva la pregiudiziale democratica come presupposto a ogni richiesta di adesione.

In ogni caso, l’istanza spagnola venne ufficialmente inoltrata il 9 febbraio 1962 da Castiella a Maurice Couve de Murville, ministro francese e presidente della CEE. Nel paese questa richiesta incontrò larghi consensi, anche se l’opposizione interna non perse l’occasione per ribadire la necessità di accelerare parallelamente il processo di democratizzazione; viceversa, l’opposizione in esilio invitava la CEE a rifiutare senza indugio la proposta di Franco.

Adesso spettava alla Comunità europea dare una risposta. Era evidente che vi erano sia dei pro che dei contro, e si trattava pertanto di valutare nei vari aspetti l’intera faccenda. Walter Hallstein, il primo Presidente della Commissione europea, non era in realtà mal disposto, ma di tutt’altro avviso era la componente socialista nel Parlamento europeo. Intanto, il 6 marzo, arrivò a Castiella una lettera interlocutoria da parte di Couve de Mourville, nella quale il mittente dichiarava di aver ricevuto l’istanza spagnola e di averla quindi girata al Consiglio dei ministri competente.

Mentre il governo era in attesa di una risposta ufficiale, nel mese di giugno si svolse a Monaco di Baviera un congresso del Movimento europeo che avrebbe segnato profondamente la storia dell’europeismo spagnolo. Per il paese iberico parteciparono al Congresso tutte le componenti dell’opposizione sia interna che in esilio, a eccezione dei comunisti, che tuttavia inviarono due osservatori. In questa occasione il Congresso approvò un ordine del giorno teso a sottolineare l’inderogabilità della pregiudiziale democratica nell’integrazione europea, facendo peraltro esplicito riferimento alla situazione spagnola e suscitando di conseguenza le ire del regime, che dapprima denigrò il congresso definendolo “contubernio di Monaco” e poi fece addirittura arrestare gli spagnoli che vi avevano partecipato al momento del ritorno in patria.

Naturalmente questo comportamento di Franco non passò inosservato, procurando un’ondata di indignazione nell’opinione pubblica europea e giocando di conseguenza a sfavore della Spagna nella vicenda dell’associazione alla CEE. Tra i sei paesi membri, quello che esprimeva le più forti riserve in proposito era sicuramente l’Italia, mentre Francia e Germania erano sostanzialmente favorevoli e i paesi del Benelux apparivano indecisi. L’Italia chiarì però la sua posizione solo più avanti, quando cioè il 4 maggio 1964 presentò al Consiglio dei ministri il memorandum di Giuseppe Saragat, con il quale veniva esclusa ogni ipotesi di adesione per paesi il cui regime politico interno non risultasse conforme a quello dei sei paesi fondatori.

In generale però possiamo dire che un po’ in tutto l’ambiente comunitario la richiesta spagnola venne accolta con freddezza. In realtà nel dicembre del 1962 e poi ancora nel gennaio del 1963 il Consiglio dei ministri della CEE affrontò la questione, ma non venne presa nessuna iniziativa, dato che prevalse la tesi di quei paesi che sostenevano la necessità di un’ulteriore riflessione. Contro la Spagna giocò indirettamente pure il veto di Charles de Gaulle alla Gran Bretagna, che dimostrava come anche il veto di un solo paese potesse bloccare le procedure di adesione alle Comunità europee. In quel contesto la Spagna, che sino a quel momento non aveva ricevuto alcuna risposta ufficiale da Bruxelles, il 14 febbraio 1964 decise di presentare una nuova richiesta, questa volta non sollecitando però l’associazione alla CEE, ma soltanto l’apertura di un processo negoziale.

Questa volta Bruxelles non poteva ignorare la nuova istanza, e pertanto già il successivo 25 marzo riunì il Consiglio dei ministri per dare una risposta. Anche in questa occasione l’Italia espresse un parere negativo, ma questa volta il gruppo dei paesi favorevoli prevalse. Così il 6 giugno 1964 il Consiglio, tramite Spaak, rispose finalmente a Madrid autorizzando la Commissione europea ad avviare incontri esplorativi; il primo incontro tra la delegazione spagnola e quella della Commissione si svolse a Bruxelles il 9 dicembre successivo.

Le prime riunioni non diedero grandi risultati, ma nel corso di esse le parti esposero i punti base del negoziato. Un ruolo importante in questa fase giocò in particolare Ullastres, che dall’estate del 1965 era l’ambasciatore spagnolo presso la Comunità europea. Nel luglio del 1966 si concluse questa prima fase del negoziato, e a questo proposito in novembre la Commissione presentò al Consiglio dei ministri una relazione riassuntiva contenente anche alcune ipotesi di lavoro per il prosieguo delle trattative. Il 7 luglio 1967 il Consiglio pertanto diede il via libera all’apertura del negoziato vero e proprio, sulla base della formula dell’Accordo preferenziale, regolato dall’articolo 113 del Trattato CEE, anziché dell’associazione.

Di conseguenza ebbe presto inizio una nuova fase negoziale, che risultò più complessa del previsto anche per la crescente avversione dell’opinione pubblica internazionale verso Franco. Negli anni Sessanta infatti il regime utilizzò in più di un’occasione sistemi repressivi contro i suoi oppositori, come nel già citato caso dell’arresto dei partecipanti al Congresso di Monaco o nella proclamazione dello stato di emergenza durante le manifestazioni studentesche del 1968. In ogni caso, nonostante tali critiche, il 17 ottobre 1969 il Consiglio CEE approvò un secondo mandato negoziale con la Spagna, che prevedeva una riduzione delle tariffe doganali in due fasi successive. Si aprì pertanto la strada a quell’Accordo preferenziale, che venne siglato a Lussemburgo il 29 giugno 1970 dal ministro degli Esteri spagnolo Gregorio Lopez-Bravo, dal presidente del Consiglio della CEE Pierre Harmel e dal presidente della Commissione Jean Rey. Tale accordo entrò in vigore a partire dal 1° ottobre 1970, e tale sarebbe rimasto sino al 31 dicembre 1985.

La firma dell’Accordo preferenziale rappresentò senz’altro un successo per il regime, che a dispetto di quanto riteneva l’opposizione aveva così dimostrato che per la Spagna era possibile integrarsi in Europa, almeno parzialmente, senza dover fare alcuna concessione di natura politica. Tuttavia, l’Accordo preferenziale dovette quasi subito essere rivisto e integrato per via dell’imminente ingresso di Danimarca, Gran Bretagna e Irlanda nella Comunità europea. Alla luce di questo fatto, il 21 ottobre 1971 Lopez-Bravo inviò pertanto una lettera a tutti i ministri degli Esteri dei paesi CEE e al presidente della Commissione europea per chiedere la riapertura del negoziato al fine di adattare i precedenti accordi alla nuova situazione.

Più precisamente, la Spagna lamentava i danni economici derivanti dall’Allargamento e di conseguenza rivendicava concessioni agricole unilaterali da parte della CEE a titolo di compensazione. Tuttavia, il Consiglio europeo del 29 giugno 1972 non solo oppose un netto rifiuto a tali richieste, ma addirittura negò alla Spagna le agevolazioni di cui beneficiavano i paesi meno sviluppati, dato che negli anni Sessanta il paese iberico si era sviluppato economicamente sino a diventare la nona potenza industriale del mondo. La controproposta della Comunità si riduceva alla ridiscussione della situazione nel quadro di un discorso complessivo sulla politica mediterranea, ma questa ipotesi non poteva certo soddisfare Madrid. Era del resto evidente il fatto che sulla vicenda avevano pesato i timori dell’Italia, ma soprattutto della Francia, nei confronti di prodotti agricoli che in un’ottica di concorrenza avrebbero potuto danneggiare economicamente gli interessi nazionali.

Come già accennato le decisioni assunte dal Consiglio suscitarono reazioni negative in Spagna, tanto che negli ambienti di governo vi fu perfino chi suggerì di abbandonare i negoziati. Prevalse però una linea improntata a una maggiore prudenza, anche se risulta che proprio nell’estate del 1972 la Spagna avesse ripreso i contatti con l’EFTA e che essi furono interrotti solo quando la Norvegia e la Svezia chiesero di nuovo a Madrid adeguate garanzie democratiche. Nel frattempo erano però continuati pure i negoziati con la CEE, che culminarono in una serie di incontri tenutisi tra il novembre e il dicembre del 1972.

Questi incontri non furono comunque infruttuosi, dato che un compromesso venne raggiunto sul Protocollo aggiuntivo che avrebbe dovuto integrare l’Accordo preferenziale. Il Protocollo venne pertanto firmato dalle parti il 29 gennaio 1973, anche se la vicenda era tutt’altro che chiusa, in quanto si trattava di un documento interlocutorio che si limitava a invitare le parti a negoziare un nuovo accordo, che sarebbe entrato in vigore a partire dal 1° gennaio 1974, e a non modificare sino a quel momento le relazioni commerciali tra la Spagna e i tre nuovi partner comunitari.

Il 26 giugno 1973 il Consiglio dei ministri diede pertanto mandato alla Commissione di negoziare con i paesi mediterranei il progetto di dar vita a una zona di libero commercio per i prodotti industriali. I dazi doganali sarebbero stati soppressi completamente a partire dal 1° luglio 1977, ma alla Spagna venivano concesse eccezioni per alcuni prodotti sino al 1° gennaio 1980. Per quanto concerne l’agricoltura si rimandava invece la questione a nuovi negoziati.

Ai negoziati, svoltisi a Bruxelles, prese parte anche il nuovo ministro degli Esteri, il tecnocrate Laureano López-Rodó, personalità estremamente gradita agli ambienti comunitari. In quell’occasione la Spagna presentò una controproposta, che consisteva nell’inclusione nell’area di libero commercio anche dei prodotti agricoli. Seguirono quindi parecchi incontri dei gruppi di lavoro, che si svolsero in un clima collaborativo, tanto da indurre a credere di poter arrivare a un accordo entro la fine dell’anno.

Ma in ottobre le cose si complicarono terribilmente a causa dell’improvviso scoppio della IV guerra arabo-israeliana, la cosiddetta guerra del Kippur. Le conseguenze di questa crisi internazionale furono infatti gravissime sul piano economico, poiché comportarono il rialzo del prezzo del petrolio, l’impennata dell’inflazione e una tempesta valutaria. Di conseguenza problemi gravi e urgenti si imposero all’attenzione delle Istituzioni comunitarie, relegando in secondo piano la questione dei rapporti tra la Spagna e la CEE. Visti tali sviluppi l’ambasciatore Ullastres cercò invano di forzare la situazione inviando una nuova lettera ai rappresentanti dei Nove per indurli ad accelerare i tempi in merito alla riduzione delle tariffe doganali.

Si entrò pertanto in una fase di impasse, causata certo dal particolare contesto internazionale, ma alla quale non furono completamente estranei i comportamenti repressivi contro gli oppositori dell’ultimo franchismo, a cominciare dal processo contro i leader sindacali delle Comisiones obreras (CCOO). Nell’estate del 1974 ripresero comunque i negoziati, ma essi vennero tuttavia nuovamente interrotti il 1° ottobre 1975 a seguito dell’esecuzione da parte del regime di alcuni militanti dell’Euskadi ta askatasuna (ETA) e del Frente revolucionario antifascista y patriota (FRAP). Di lì a poche settimane la situazione sarebbe però nuovamente cambiata, dato che la morte di Franco, avvenuta il 20 novembre 1975, e la successiva transizione democratica avrebbero inaugurato una nuova stagione nei rapporti tra la Spagna e la Comunità europea.

Il percorso che nell’arco di un decennio avrebbe portato alla piena integrazione della Spagna in Europa fu tuttavia più complesso del previsto, dato che una volta risolte le questioni politiche rimanevano però ancora in piedi le controversie economiche. I segnali di questi possibili sviluppi potevano essere colti già nell’estate del 1974, quando si verificò la cosiddetta guerra delle pesche con la Francia, con tanto di assalti da parte degli agricoltori francesi ai camion spagnoli.

In ogni caso la Spagna della transizione democratica guardò subito all’Europa con nuove speranze, peraltro incoraggiate dal Consiglio dei ministri della CEE, che il 20 gennaio 1976 prese ufficialmente atto della nuova situazione politica spagnola e dichiarò decaduti i principali ostacoli per l’avvio del negoziato. In realtà all’inizio del 1976 i problemi politici non erano ancora stati superati, poiché la Spagna non risultava ancora un paese democratico, bensì un paese in via di democratizzazione.

Il capo del governo Arias Navarro era infatti un personaggio troppo compromesso con il passato regime franchista per godere di un’adeguata credibilità. E così, nel tentativo di rassicurare l’Europa, nella primavera del 1976 il ministro degli Esteri José María de Areilza si recò in visita in tutti i nove paesi della Comunità europea (CE) per illustrare la situazione politica spagnola. Questo viaggio rappresentò sicuramente un successo, ma da più parti Areilza si sentì suggerire che per la Spagna sarebbe stato meglio completare la transizione alla democrazia prima di presentare una nuova domanda di adesione.

In realtà su questo punto vi era una sostanziale differenza di vedute all’interno delle istituzioni comunitarie, dato che il Parlamento europeo era più intransigente rispetto al Consiglio e alla Commissione nell’esigere adeguate garanzie. Era questa, del resto, anche la linea dell’opposizione spagnola, che invitava l’Europa alla prudenza nei confronti di Madrid e le chiedeva di esercitare una costante opera di pressione sulla sua classe dirigente. In quest’ottica crebbero notevolmente nel corso del 1976 i contatti tra la Spagna e l’Europa, a dimostrazione dell’interesse con cui Bruxelles e Strasburgo seguivano gli avvenimenti del paese iberico.

La svolta si ebbe nel luglio del 1976 con la formazione di un nuovo governo guidato da Adolfo Suárez. In realtà anche quella di Suárez era una figura alquanto compromessa con Franco, e inoltre sino a quel momento il nuovo premier non aveva mostrato particolare interesse per l’Europa, tuttavia egli seppe smentire con fatti concreti tali perplessità. In pochi mesi Suárez riuscì infatti a far approvare quella legge di riforma politica che poneva fine alla dittatura, a legittimare partiti e sindacati, comunisti compresi, a ristabilire le libertà fondamentali e a indire elezioni democratiche per il giugno 1977.

Per quanto concerne la politica estera egli ebbe inoltre l’intuizione di affidarne la guida a Marcelino Oreja, il quale, forte dell’esperienza maturata a fianco di Areilza, giocò un ruolo importante nell’avvicinamento della Spagna all’Europa. Parimenti si mosse in quella direzione pure Juan Carlos, che sfruttò i suoi contatti personali e, più in generale i contatti con l’aristocrazia europea, per cercare di migliorare l’immagine internazionale del paese. E in effetti gli sforzi di Suárez, Oreja e Juan Carlos servirono non poco a vincere la diffidenza degli ambienti comunitari.

Di conseguenza il 28 luglio 1977 Marcelino Oreja, a nome di Suárez e del governo, presentò a Henry Simonet, presidente del Consiglio dei ministri delle Comunità europee (v. anche Presidenza dell’Unione europea), la richiesta ufficiale di adesione della Spagna. Questa volta le istituzioni comunitarie espressero all’unisono la loro soddisfazione essendo stati superati i problemi politici del passato, tuttavia sulla strada del nuovo allargamento esistevano ancora non pochi problemi di natura tecnica ed economica.

Intanto alcuni mesi dopo, per l’esattezza il 24 novembre 1977, la Spagna diventava il 20° membro del Consiglio d’Europa, nonché il primo paese a essere ammesso in assenza di una costituzione democratica. E nel frattempo la Spagna avviò anche i negoziati con i paesi dell’EFTA, che sarebbero poi sfociati negli accordi del 26 giugno 1979 sul commercio dei prodotti industriali e di alcuni prodotti agricoli, e che entrarono in vigore il 1° luglio 1980. Viceversa la Spagna non sembrava allora interessata all’ingresso nell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), anche per evitare pericolose tensioni con i partiti di sinistra.

Il primo ostacolo nei negoziati con le CE era rappresentato dal fatto che la Grecia aveva rinnovato la domanda di adesione già nel 1975, quindi con due anni d’anticipo sulla Spagna, e di conseguenza stava davanti al paese iberico nelle trattative. Poi vi erano i già accennati problemi economici, anche se il Consiglio dei ministri del 20 e 21 settembre 1977, nell’esprimere il proprio assenso all’avvio dei negoziati con la Spagna secondo quanto previsto dagli articoli 98 del Trattato della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), 237 del Trattato CEE e 205 del Trattato CEEA, non vi aveva fatto alcun riferimento. A questo punto il Consiglio incaricò la Commissione di stendere un Parere sull’argomento.

Di conseguenza la Commissione elaborò un documento intitolato Considerazioni generali relative ai problemi dell’allargamento, noto come el fresco, che venne reso pubblico nell’aprile del 1978. Esso recepiva tutte le riserve francesi nei confronti dell’allargamento, dato che da un lato riconosceva gli effetti positivi dell’ampliamento dei mercati e delle nuove possibilità che offrivano verso l’America Latina, ma dall’altro non nascondeva le difficoltà e la necessità di misure precauzionali tese a preparare i paesi candidati all’ingresso al fine di rendere più agevole l’integrazione. Questo documento, che faceva riferimento a un periodo transitorio che avrebbe dovuto essere compreso tra un minimo di 5 anni e un massimo di 10, venne trasmesso a fine novembre al Consiglio dei ministri.

Il 5 febbraio 1979 ebbe pertanto luogo a Bruxelles l’apertura ufficiale dei negoziati. In tale occasione Jean François Poncet, presidente di turno del Consiglio dei ministri, precisò che la Spagna per entrare in Europa avrebbe dovuto accettare il contenuto dei Trattati comunitari e di tutte le delibere successivamente approvate, nonché condividere le loro finalità politiche. Per la Spagna prese invece la parola Leopoldo Calvo Sotelo, ministro per le relazioni con le Comunità europee, sostenendo che il suo paese era assolutamente pronto a recepire tali disposizioni.

Questa era però soltanto la cerimonia ufficiale, mentre i negoziati veri e propri sarebbero iniziati nel mese di giugno, non a caso alla fine della presidenza francese e dopo lo svolgimento delle prime Elezioni dirette del Parlamento europeo. Tuttavia, il 10 maggio 1979, il Parlamento uscente era riuscito ad approvare ancora una Risoluzione nella quale esso esprimeva la sua preoccupazione per le serie difficoltà economiche che sarebbero potute derivare dall’allargamento e chiedeva che fossero prese misure adeguate in proposito.

Alla ripresa dei negoziati arrivò anche il rapporto che nel frattempo era stato elaborato dal Comitato economico e sociale (CES) in merito alle domande di adesione di Grecia, Portogallo e Spagna. Questo documento si distingueva dai precedenti in quanto sottolineava soprattutto le conseguenze positive dell’allargamento, considerato come momento di fondamentale importanza nel rafforzamento della democrazia nel Sud del continente. Per quanto concerne le questioni economiche e sociali il Comitato invitava a risolverle in modo equo e in tempi brevi, mentre, su di un piano più generale, esso indicava la necessità di adattare le strutture istituzionali alle nuove dimensioni della Comunità.

I negoziati intanto procedevano con estrema lentezza, anche perché si palesavano via via le riserve espresse dalla Francia di Valéry Giscard d’Estaing. Nonostante la posizione francese non fosse condivisa dai partner comunitari, Parigi continuò a sollevare problemi sino ad assumere posizioni quasi ostruzionistiche. Intanto, nel settembre del 1980, un rimpasto governativo aveva cambiato gli interlocutori spagnoli nelle trattative con Bruxelles: Marcelino Oreja era stato sostituito agli Esteri da José Pedro Peréz Llorca, mentre come nuovo ministro per la Comunità europea era stato scelto Eduardo Punset al posto di Calvo Sotelo.

Nel tentativo di sbloccare la situazione, a partire dal mese di novembre Punset intraprese un viaggio nelle capitali europee. Di grande importanza risultò soprattutto la tappa di Parigi, nella quale egli raccolse dai francesi alcune rassicurazioni, cui però non seguirono fatti concreti. Nei mesi successivi l’attenzione dell’Europa nei confronti della Spagna si spostò tuttavia dai negoziati alle vicende interne del paese. Nel gennaio 1981 Suárez presentò le dimissioni da primo ministro, il 12 febbraio si formò un nuovo governo presieduto da Calvo Sutero e il 23 febbraio alcuni uomini della Guardia civil di Madrid, guidati dal tenente-colonnello Tejero, assaltarono il Parlamento con l’obiettivo di reintrodurre nel paese la dittatura militare. La minaccia fu sventata anche grazie al tempestivo intervento di re Juan Carlos a sostegno delle legittime istituzioni, ma l’episodio mostrava drammaticamente la fragilità della giovane democrazia spagnola.

Questa vicenda ebbe naturalmente alcune ripercussioni sullo stesso andamento del negoziato, perché agli occhi di tutti diventava più che mai urgente inserire la Spagna in Europa per evitare possibili derive autoritarie. Di conseguenza, nei giorni immediatamente successivi al fallito golpe, la Commissione, il Parlamento europeo e il Consiglio dei ministri si espressero tutti in favore di un’accelerazione delle trattative. Ma ancora una volta la Francia finì per svolgere un ruolo frenante, nonostante il recente passaggio di poteri da Giscard d’Estaing a François Mitterrand.

Viceversa le trattative per l’ingresso del paese nell’Alleanza atlantica, prospettiva questa sostenuta con forza dal premier Calvo Sotelo, procedettero senza intoppi, e così, il 16 febbraio 1982, si registrò l’adesione formale della Spagna all’organizzazione, come suo 16° membro. Tuttavia l’opinione pubblica spagnola risultava estremamente divisa su questo punto, tanto da indurre i socialisti a chiedere un referendum popolare in merito a questo controverso tema.

Frattanto, il 28 dicembre 1982, si svolsero le elezioni politiche e il Partido socialista obrero español (PSOE) ottenne una sonante vittoria. Felipe González fu nominato primo ministro e quindi spettò a lui e al suo governo gestire le tappe finali del negoziato di adesione. Il PSOE vantava una solida tradizione europeista e di conseguenza i ministri economici del nuovo esecutivo, Miguel Boyer e Carlos Solchaga in particolare, presero subito le misure necessarie per adattare la struttura economica della Spagna ai parametri richiesti dalla CEE.

Parimenti, un chiaro orientamento europeista mostrò Fernando Morán, il nuovo titolare del dicastero degli Esteri. Egli intuì che l’unico modo per sbloccare la situazione era quello di intraprendere negoziati diretti con la Francia, scavalcando per certi aspetti le stesse sedi comunitarie. Questa strada non sortì tuttavia gli effetti sperati, dato che alla fine del 1983 erano ancora molti i settori su cui non era stato raggiunto alcun accordo, tanto che nei corridoi cominciò a circolare l’ipotesi del 1° gennaio 1986 come data d’ingresso per Spagna e Portogallo. Nell’estate del 1984 risultò però di grande importanza l’approvazione di un Programma comunitario (v. Programmi comunitari) di aiuti ai settori agricoli più arretrati di Francia, Grecia e Italia: grazie a esso furono vinte le ultime resistenze.

In dicembre fu trovato un accordo sulla produzione vinicola – altro tema delicato – ma all’inizio del 1985, dopo 57 sessioni negoziali, restavano aperti ancora sei capitoli (agricoltura, pesca, affari sociali, risorse proprie, Canarie, relazione Spagna-Portogallo). Ma in quel momento anche da parte comunitaria si avvertiva l’esigenza di chiudere questa estenuante trattativa: e così, con un’improvvisa accelerazione finale, il 29-30 marzo 1985, in concomitanza con il Consiglio europeo di Bruxelles, si arrivò all’accordo definitivo. In questo ultimo sforzo giocò un qualche ruolo positivo anche l’Italia con Giulio Andreotti, allora presidente di turno del Consiglio dei ministri.

L’opinione pubblica spagnola seguì con grande attenzione tutta questa vicenda, essendo in massima parte favorevole all’ingresso del proprio paese in Europa. Le Cortes ratificarono questi accordi all’unanimità e così, il 12 giugno 1985, il Trattato di adesione venne solennemente firmato nel Palazzo reale di Madrid. Nel pomeriggio di quello stesso giorno veniva siglato a Lisbona anche il Trattato di adesione del Portogallo: dal 1° gennaio 1986, data dell’entrata in vigore dei due Trattati, Spagna e Portogallo diventavano così l’undicesimo e il dodicesimo membro delle Comunità europee.

Le prime ripercussioni dell’evento si ebbero sul piano economico. In nome della politica agricola comune furono infatti chiesti alcuni sacrifici ai produttori di latte e vino, agli allevatori di bovini e ai pescatori, mentre a livello industriale l’ingresso in Europa comportò la ristrutturazione, e in certi casi anche la dismissione, delle aziende meno competitive (v. anche Politica agricola comune). I benefici non tardarono però a farsi sentire e furono piuttosto rilevanti, se è vero che grazie al mercato comune e ai fondi di coesione nel giro di pochi anni il paese registrò un forte incremento del PIL, riuscì a richiamare notevoli investimenti stranieri, a stabilizzare la peseta e a migliorare perfino il suo welfare.

Contemporaneamente, sul piano politico, si avviava alla conclusione una stagione caratterizzata dal largo consenso tra i partiti sulle tematiche europee. Se infatti i socialisti continuarono a guardare con fiducia a Bruxelles e Strasburgo, l’opposizione di destra, per voce del suo leader Manuel Fraga, passò invece a criticare il governo per il modo in cui aveva condotto i negoziati di adesione. Le rivelazioni dell’Eurobarometro mostravano inoltre l’incremento del livello di Euroscetticismo nel paese, che pur restava in maggioranza europeista.

L’ingresso in Europa favorì poi una più stretta integrazione della Spagna con il mondo occidentale. Così i socialisti abbandonarono il loro tradizionale neutralismo in favore di posizioni filoatlantiche, tanto da arrivare a sostenere la permanenza del paese nella NATO nel referendum del marzo 1986, a dispetto del voto contrario espresso da altri settori della sinistra spagnola. Questo processo si sarebbe completato nel novembre 1988 quando il paese entrò a far parte anche dell’Unione dell’Europa occidentale (UEO).

All’interno delle Comunità la Spagna si distinse per il suo impegno europeista, trovando in quegli anni una particolare consonanza con la Germania di Helmut Kohl. I suoi rappresentanti nelle istituzioni europee nel 1986 sostennero infatti l’Atto unico europeo, nel 1988 il raddoppio dei fondi strutturali, nel 1989, anno della prima presidenza spagnola della Comunità, l’approfondimento dell’integrazione e l’avvio di una politica estera unitaria. Il Consiglio europeo di Madrid del giugno 1989, anche per merito della presidenza di turno, prese inoltre importanti decisioni in merito all’unione monetaria (v. anche Unione economica e monetaria).

La presidenza spagnola fu molto apprezzata, tanto che l’abolizione con tre anni e mezzo di anticipo dei dazi sulle esportazioni spagnole verso la Comunità, venne unanimemente interpretata come una sorta di premio per aver svolto fino a quel momento un buon lavoro. Un ulteriore riconoscimento per il paese venne rappresentato dall’elezione del socialista Enrique Barón Crespo alla presidenza dell’europarlamento nel luglio 1989, a poco più di un mese di distanza dall’entrata della peseta nel Sistema monetario europeo (SME).

L’avversione del premier britannico Margaret Thatcher impedì tuttavia il progresso di quell’Europa sociale che costituiva uno dei principali obiettivi di González. Nel frattempo, mentre le divisioni interne e vecchi retaggi culturali rallentavano ancora il processo d’integrazione europea, il mondo intorno stava cambiando rapidamente la sua fisionomia: il crollo del Muro di Berlino diventò l’avvenimento emblematico di tale trasformazione. La Spagna osservò con molta attenzione gli eventi che allora interessavano l’Europa orientale, mostrando un atteggiamento aperto nei confronti della Riunificazione tedesca, ma nel contempo non nascondendo qualche preoccupazione nei confronti di un allargamento a Est della Comunità per il timore di veder ridimensionati i finanziamenti di Bruxelles e perdere gran parte degli investimenti privati stranieri.

Nel 1991 la guerra in Iraq costringeva poi il paese a onorare i suoi impegni internazionali nel quadro dell’Alleanza atlantica, consentendo agli USA di utilizzare le basi aeree spagnole e quindi inviando esso stesso nel Golfo persico una fregata e due corvette. Fu però soprattutto con la guerra in Iugoslavia che la Spagna assunse un significativo ruolo internazionale grazie all’invio di un cospicuo contingente di pace.

Per González, tuttavia, risultava assai più importante la partita che si stava allora giocando nella Comunità. Il 7 febbraio 1992 venne infatti compiuto un importante passo nella costruzione dell’Europa grazie alla firma del Trattato di Maastricht. Il leader spagnolo capì che si trattava di una grande occasione per il suo paese, e non ebbe alcun indugio nell’aderire all’Unione economica e monetaria, nonostante i sacrifici che sarebbero stati richiesti ai cittadini per entrare nell’area dell’Euro. Di qui la fama di leader europeista, tanto che negli ambienti comunitari circolava la voce di una sua possibile successione a Jacques Delors alla guida della Commissione.

Nel giro di pochi mesi tuttavia la situazione cambiò radicalmente. Nell’autunno del 1992 la peseta fu infatti vittima della speculazione finanziaria e rischiò addirittura di dover uscire dallo SME, mentre gli ultimi dati economici non sembravano particolarmente buoni, a cominciare dal tasso di disoccupazione che raggiungeva la quota record del 24%. Di conseguenza l’atteggiamento della Spagna nei confronti dei partner comunitari mutò sensibilmente, rivelando una minore spinta ideale e una crescente attenzione alla difesa degli interessi nazionali. Di fatto tra il 1992 e il 1993 la Spagna puntò più volte i piedi in vari Consigli europei, arrivando a barattare il suo consenso all’allargamento a Nord ed Est col raddoppio dei fondi strutturali e la creazione di un Fondo di coesione, del quale avrebbe ampiamente beneficiato.

Anche l’atteggiamento dell’opinione pubblica spagnola era nel frattempo mutato e si registrava nel paese un’ulteriore crescita dell’euroscetticismo. Non deve perciò trarre in inganno il voto quasi plebiscitario con cui il Parlamento aveva ratificato il Trattato di Maastricht: 314 voti a favore, 3 contrari e 8 astensioni, queste ultime tutte provenienti dai banchi di Izquierda unida. Anche in quell’occasione infatti i distinguo e le precisazioni furono molti, mentre risultarono rari gli interventi ispirati da un sincero spirito europeista.

Nel frattempo scandali e corruzione interessarono sempre più da vicino la classe dirigente al potere. Furono coinvolti in questo tipo di vicende personaggi di spicco del Partito socialista come Alfonso Guerra e Carlos Solchaga, mentre lo stesso presidente González risultò implicato nei fatti del Grupo antiterrorista de liberación (GAL), reo di aver utilizzato metodi gravemente illegali nella lotta contro l’ETA. A dispetto di ciò il PSOE vinse ancora le elezioni politiche del giugno 1993, pur perdendo la maggioranza assoluta in Parlamento ed essendo perciò costretto a formare un governo di coalizione con i nazionalisti baschi e catalani.

Anche l’immagine internazionale della Spagna uscì naturalmente danneggiata da queste vicende politico-giudiziarie, ma ciò non impedì al paese di ospitare alla fine del 1995 due eventi di grande rilevanza. In novembre, infatti, si svolse a Barcellona la Conferenza euromediterranea (v. Processo di Barcellona), nella quale si riunirono i rappresentanti di tutti i paesi europei, africani e asiatici che si affacciavano su questo mare. Vi fu un serrato dibattito tra le delegazioni presenti, furono raggiunte alcune significative intese in materia di sicurezza, immigrazione, droga, democrazia e Università, e prese inoltre corpo un progetto di grande importanza relativo alla formazione di un’area di libero commercio, comprensiva di 800 milioni di abitanti, da realizzarsi entro il 2000. In dicembre si tenne invece a Madrid una riunione del Consiglio d’Europa, nel corso della quale si discussero i problemi relativi al passaggio alla terza fase dell’unione monetaria, la nascita dell’euro e il patto di stabilità. Quasi contemporaneamente la Spagna raccoglieva i frutti dei suoi recenti impegni internazionali grazie alla nomina di Javier Solana, leader storico del PSOE e ministro del governo González, a segretario generale della NATO.

Questi successi di politica estera non furono però sufficienti ai socialisti per risalire la china. Così alle elezioni del marzo 1996 il Partido popular di José María Aznar uscì vincitore, sebbene con un risultato inferiore alle aspettative. Il nuovo governo, presieduto dallo stesso Aznar, da un lato continuò quella politica di risanamento economico e finanziario tesa a riportare il paese entro i parametri di Maastricht, dall’altro portò avanti una diversa idea di Europa fondata sugli Stati nazionali, sul consolidamento dell’Alleanza atlantica e della NATO, sulla cooperazione nella Lotta contro il terrorismo. Quest’ultimo punto diventò uno dei cavalli di battaglia di Aznar, tanto che sin dall’avvio della discussione sulla riforma del Trattato di Maastricht, egli chiese espressamente il divieto di asilo tra i partner comunitari, il rafforzamento dell’Ufficio europeo di polizia (Europol) e il potenziamento dello spazio giudiziario europeo.

Ai popolari spettò quindi il compito di varare un piano economico rigoroso per entrare nell’unione monetaria, evitando peraltro di raccogliere i suggerimenti di coloro che, in patria e all’estero, ventilavano la possibilità di una proroga. Questo impegno diede i suoi frutti, dato che nel gennaio 1997 José María Gil-Robles venne eletto presidente del Parlamento europeo, mentre nel maggio successivo l’ECOFIN approvava il piano di risanamento spagnolo.

La grande sfida europea di quell’anno era soprattutto rappresentata dalla riforma dei Trattati di Maastricht, che si concretizzò in giugno nella firma del nuovo Trattato di Amsterdam. Nella fase finale delle trattative Aznar intervenne più volte sia per scongiurare una riforma istituzionale che reputava dannosa per il suo paese sia per garantire i pieni diritti comunitari alle isole Canarie. Alla fine egli ottenne quanto desiderato in nome dell’interesse nazionale spagnolo, ma la sua linea politica rivelava una carenza di respiro europeo.

Non era casuale che la Spagna avesse trovato in quel frangente un alleato nella Gran Bretagna di Tony Blair, tuttavia in altre occasioni Aznar si trovò praticamente isolato, come quando, nel dicembre 1997, durante il Consiglio europeo di Lussemburgo, si oppose strenuamente alle misure contro la disoccupazione sostenute dal premier francese Lionel Jospin. Ma in quegli anni la questione cruciale per la Spagna era quella dei costi dell’allargamento a Est della Unione europea (UE), dato che a Bruxelles circolava l’ipotesi di reperire parte delle risorse riducendo i fondi di coesione. La Spagna fece allora sapere di non essere disposta a cedere su questo punto, avviando così una lunga fase negoziale che si sarebbe conclusa solo nel marzo 1999 col Consiglio europeo straordinario di Berlino, quando fu raggiunto un accordo che per Madrid risultava migliore del previsto e venne approvato, dopo molte dilazioni, il programma “Agenda 2000”.

In quello stesso anno anche la Spagna fu indirettamente coinvolta negli scandali che interessarono la Commissione guidata da Jacques Santer, poiché il suo commissario González Manuel Marín risultava tra i maggiori indiziati insieme alla francese Édith Cresson. Ciò non impedì però al paese di conseguire due nuovi riconoscimenti a livello comunitario con la nomina di Solana a rappresentante della Politica estera e di sicurezza comune (PESC) della UE e poi anche a segretario generale della UEO, e con il conferimento a Barón Crespo della presidenza del gruppo socialista nel Parlamento europeo (v. anche Gruppi politici al Parlamento europeo).

Intanto il paese cresceva a un ritmo sostenuto e nella popolazione si era diffuso un certo ottimismo. Alle elezioni politiche del marzo 2000 i votanti premiarono allora il Partido popular (PP), che ottenne la maggioranza assoluta dei seggi alle Cortes. Questo successo venne interpretato da Aznar anche come un apprezzamento per la linea di politica estera, invero alquanto nazionalista, portata avanti dal suo governo a livello comunitario, e di conseguenza, al Consiglio europeo di Nizza, egli si scontrò nuovamente con gli altri partner sulla delicata questione del numero dei voti in Consiglio. L’altro punto fondamentale della sua visione internazionale consisteva nel suo dichiarato atlantismo, che portò la Spagna a un crescente allineamento con gli USA sia in occasione della guerra del Kosovo sia nell’impostazione delle relazioni con la Cuba di Fidel Castro: la tragedia dell’11 settembre 2001 a suo avviso costituiva un’indiretta conferma della necessità di stringere un rapporto più solidale con l’alleato americano.

Nel primo semestre del 2002 la Spagna tornò a essere protagonista in Europa grazie alla terza presidenza della UE. Per Aznar il periodo non poteva essere più favorevole, poiché l’entrata in vigore dell’euro aveva suscitato notevole entusiasmo nel vecchio continente. Inoltre la Spagna aveva un ulteriore motivo di soddisfazione, dato che Pedro Solbes era allora il commissario europeo agli affari economici e monetari.

Il governo si presentò quindi all’appuntamento con un programma significativamente intitolato Más Europa, che toccava sia i temi dell’approfondimento del processo di integrazione, a partire dalla necessità di dotarsi di una Costituzione, sia l’irrisolta questione del ruolo internazionale della UE, a cominciare da quella prospettiva euromediterranea che sin dagli anni Novanta era stata portata avanti dalla Spagna (v. Partenariato euromediterraneo). Non potevano inoltre mancare i tradizionali riferimenti alla sicurezza: dalla lotta al terrorismo alla prevenzione dell’immigrazione clandestina, sino alla proposta di una Politica europea di sicurezza e difesa (PESD) da sviluppare, naturalmente, nell’ambito dell’alleanza atlantica.

Al di là di questi buoni propositi, il 2003 segnò invece un momento di grande difficoltà per la UE proprio in relazione alla politica estera. Il conflitto tra Stati uniti e Iraq rese infatti evidente non solo la mancanza di una politica comune, ma un’autentica spaccatura tra gli Stati membri, con Danimarca, Gran Bretagna, Italia, Portogallo e Spagna, insieme a tre paesi candidati a entrare in Europa come Repubblica Ceca, Polonia e Ungheria, che firmarono un documento di sostegno a George W. Bush a fronte di un atteggiamento assai più prudente mostrato nell’occasione da Francia, Germania e dagli altri paesi dell’Unione. In quest’ambito si distinsero in particolare sia Blair che Aznar, fautori della linea dell’appoggio incondizionato alla Casa Bianca.

Questa spaccatura non poteva naturalmente non avere riflessi sulle altre questioni allora sul tappeto in Europa, a cominciare dalla Costituzione europea. Riguardo alla nuova ripartizione dei voti nel Consiglio dell’Unione, si creò infatti un’inedita alleanza tra Spagna e Polonia – quest’ultimo, paese di prossima adesione – al fine di scongiurare un tipo di rappresentanza rigorosamente proporzionale al numero degli abitanti degli Stati membri. Tale alleanza, rafforzata dal sostegno offerto dalla Gran Bretagna, riuscì a far naufragare il primo tentativo di dotare l’Europa di una Costituzione, nonostante si fosse contrapposta a essa un’ampia maggioranza di paesi che gravitavano intorno all’asse franco-tedesco.

Questa volta Parigi e Berlino non erano però disposte a cedere, tanto da minacciare la Spagna di ritorsioni in campo economico e finanziario. Tuttavia, mentre questa delicata partita era in corso, la situazione cambiò improvvisamente a causa degli attentati terroristici che l’11 marzo 2004, a Madrid, causarono 191 morti e oltre 1500 feriti. Alle elezioni politiche, svoltesi a soli tre giorni di distanza da quella tragedia, i socialisti vinsero infatti inaspettatamente, e il nuovo premier, José Luis Rodríguez Zapatero, impostò subito in modo diverso i rapporti con i partner europei, mostrando un atteggiamento più collaborativo che favorì, nel giugno successivo, la firma del Trattato costituzionale della nuova Europa a Venticinque. Il suo dichiarato europeismo non gli impedì comunque, anche in quella occasione, di portare a casa risultati positivi per il suo paese, che ottenne allora un aumento del numero dei deputati, il riconoscimento dello spagnolo come lingua coufficiale e la conferma di una serie di diritti e garanzie anche per le isole Canarie.

In Europa tutto sembrava procedere allora per il meglio, verso una più stretta integrazione. La Spagna contribuì a questo risultato grazie al dinamismo impresso alla UE in politica estera da Solana, al lavoro svolto dal nuovo presidente del Parlamento europeo José Borell e soprattutto grazie a una celere approvazione, per via referendaria, del Trattato costituzionale. In tale occasione si recarono infatti alle urne il 57,7% degli elettori e il 76,6% dei votanti si espresse favorevolmente. Nulla, insomma, lasciava in quel momento intravvedere all’orizzonte quella crisi che avrebbe di lì a poco sconvolto il panorama europeo con il doppio voto negativo espresso in analoghe consultazioni dai cittadini francesi e olandesi.

Nella seconda metà del 2005 la UE accusò il colpo e la sua attività politica rimase di fatto paralizzata. Tutto sarebbe diventato più difficile: dall’approvazione del bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) per il periodo 2007-2013 alle trattative in corso con la Turchia e altri paesi aspiranti a entrare nella UE. Nel 2006 il cancelliere tedesco Angela Merkel e il primo ministro belga Guy Verhofstadt, ai quali si associarono poi i rappresentanti di altri paesi a cominciare dall’Italia di Romano Prodi e Giorgio Napolitano, in realtà provarono a rilanciare il processo d’integrazione europea proprio attraverso la ratifica di un Trattato costituzionale, eventualmente emendato nei punti più controversi, ma la strada apparve subito estremamente tortuosa.

Il pericolo era naturalmente quello di un accordo al ribasso, che snaturasse il testo iniziale. In questa vicenda giocò un ruolo importante la Spagna di Zapatero, che nel gennaio 2007 ospitò a Madrid i rappresentanti dei paesi che avevano già ratificato il Trattato costituzionale, proprio per scongiurare una soluzione minimalista. In tal senso si espresse chiaramente il ministro degli esteri spagnolo, Miguel Angel Moratinos, che invitò i convenuti a respingere l’ipotesi di approvare solo la parte del testo relativa alle riforme istituzionali, perché a suo avviso «essa non rappresentava da sola la sostanza del Trattato». Questa posizione era del resto condivisa da quasi tutti i paesi europei, tuttavia quando la questione costituzionale venne nuovamente affrontata nel Consiglio europeo di Bruxelles, svoltosi nella capitale belga nel giugno 2007, bastò l’opposizione di soli due Stati membri, cioè la Gran Bretagna di Blair e la Polonia dei gemelli Lech e Jarosław Kaczynski, per affossare ancora una volta il progetto.

Ma si trattava solo di un rinvio. Infatti, com’è noto, il nuovo Trattato venne dapprima approvato in un vertice informale a Lisbona il 18 ottobre 2007, e poi fu firmato dai capi di Stato e di governo, sempre nella capitale portoghese, il 13 dicembre 2007. La Camera e il Senato spagnolo ratificarono quindi il Trattato nell’estate del 2008, quasi all’unanimità, (favorevoli il PSOE, il PP, i catalanisti Convergència i Unió, i baschi del PP e alcune formazioni minori; contrari IU e piccoli partiti regionalisti).

Questo successo rafforzò ulteriormente la leadership di Zapatero, che nel marzo 2008 aveva vinto per la seconda volta consecutiva le elezioni politiche. Ma con la crisi economica, che anche in Spagna mostrava i primi segni proprio in quei mesi, il clima mutò rapidamente. Zapatero fu infatti costretto a una politica dei tagli della spesa pubblica e del walfare che in breve tempo gli alienò il sostegno dei sindacati e della maggioranza dei suoi concittadini: il PSOE fu pertanto sconfitto alle elezioni europee del giugno 2009, vinte dal PP di Jaime Mayor Oreja. La scarsa partecipazione al voto, scesa al minimo storico del 44,9%, evidenziava tuttavia anche una minor sintonia tra gli spagnoli e l’Unione europea.

Le difficoltà economiche indebolirono inoltre l’immagine del Paese a livello internazionale. Così, quando nel primo semestre del 2010 spettò alla Spagna la presidenza di turno dell’UE – seppure in coabitazione con il belga Herman Van Rompuy, presidente permanente del Consiglio europeo – Zapatero non fu sostanzialmente in grado di imporre agli altri Stati membri, e alla Germania in primis, un ambizioso programma d’azione che spaziava dalla piena attuazione delle riforme previste dal Trattato di Lisbona all’adozione di misure straordinarie in risposta alla crisi economica, dall’approvazione della “Strategia 2020” per un nuovo modello di sviluppo a un maggiore dinamismo nella politica estera, da un piano comune contro la violenza alle donne e per l’uguaglianza dei sessi al sostegno all’ingresso della Turchia.

Il peggio doveva tuttavia ancora arrivare. A causa del rischio default, la Spagna venne infatti praticamente commissariata dall’Eurogruppo (i ministri delle Finanze della zona euro). Le misure di austerity adottate non sortirono però gli effetti sperati, e di conseguenze, a fronte dell’aggravarsi della crisi, nell’estate 2011 Zapatero fu costretto a presentare le sue dimissioni da capo del governo e a indire nuove elezioni per l’autunno. Come era facile immaginare dalle urne uscì vincitore il Partido popular di Mariano Rajoy, che ha poi affidato il delicato ministero del Tesoro a Luis de Guindos, ex presidente in Spagna di Lehman Brothers.

In questo contesto − come rilevano alcuni sondaggi − a fronte di una scarsa solidarietà verso Madrid da parte degli altri Paesi dell’Unione, anche in Spagna l’euroscetticismo ha finito per guadagnare terreno.

Guido Levi (2012)




Spazio di libertà, sicurezza e giustizia

Il concetto di “spazio di libertà, sicurezza e giustizia” (SLSG) fa il suo ingresso nel vocabolario politico-giuridico europeo nel 1997, quando il Trattato di Amsterdam inserisce tra gli obiettivi fondamentali della Unione europea (UE) quello di «conservare e sviluppare l’Unione quale spazio di libertà, sicurezza e giustizia in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone insieme a misure appropriate per quanto concerne i controlli alle frontiere esterne, l’asilo, l’immigrazione, la prevenzione della criminalità e la lotta contro quest’ultima» (art. 2, TUE) (v. anche Lotta alla criminalità internazionale e contro la droga). La finalità strategica originaria di questa importante modifica dei Trattati era quella di conferire maggior rilievo, dignità e unitarietà a un insieme eterogeneo di materie, fino ad allora stipate con scarsa chiarezza politica negli informi contenitori del “terzo pilastro” (v. Pilastri dell’Unione europea) e del settore Giustizia e affari interni.

Proprio mentre lo stesso Trattato di Amsterdam scindeva il “terzo pilastro” originario, eretto a Maastricht (v. Trattato di Maastricht), in due tronconi fondamentali – quello della politica migratoria e della Cooperazione giudiziaria in materia civile, entrambe in via di comunitarizzazione, da un lato, e quello della Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, la cui natura intergovernativa (v. Cooperazione intergovernativa) veniva contestualmente temperata, dall’altro – lo “spazio di libertà, sicurezza e giustizia” subentrava come un concetto-ombrello, idealmente teso a garantire la coerenza complessiva di un policy field sempre più vasto, dinamico e conflittuale.

Questa grandiosa operazione di architettura concettuale trovava compimento con il Consiglio straordinario di Tampere, svoltosi nell’ottobre 1999 sotto presidenza finlandese, le cui Conclusioni contengono un importante tentativo di sistematizzazione dei principi (definiti “capisaldi”) che dovrebbero guidare lo sviluppo futuro dello SLSG. Questo documento, che a distanza di alcuni anni mantiene notevole rilevanza storico-politica, traccia la fisionomia essenziale dello spazio europeo di libertà, sicurezza e giustizia, insistendo fortemente sulla stretta interdipendenza tra questi tre valori irrinunciabili e fondanti. In particolare, a partire dalla centralità assoluta della libertà (di circolazione e non solo), nel progetto europeo, le Conclusioni di Tampere si soffermano sul fatto che per «godere della libertà è necessario uno spazio autentico di giustizia, in cui i cittadini possano rivolgersi ai tribunali e alle autorità di qualsiasi Stato membro con la stessa facilità che nel loro» e in cui i «criminali non devono poter sfruttare le differenze esistenti tra i sistemi giudiziari degli Stati membri» (punto 5). Poche righe dopo, si afferma solennemente che «le persone hanno il diritto di esigere che l’Unione affronti la minaccia alla loro libertà e ai loro diritti giuridici costituita dalle forme più gravi di criminalità. Per opporsi a queste minacce occorre uno sforzo comune per prevenire e combattere il crimine e la criminalità organizzata nell’intera Unione» (punto 6).

In sintesi, non c’è libertà – si afferma – senza giustizia e sicurezza. Su questa equazione a tre variabili – da cui sono assenti altri valori fondanti la tradizione politica europea (in primis l’uguaglianza) – si basa il vasto e impegnativo progetto politico dello SLSG.

Proprio la complessità strutturale dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, e l’esigenza programmatica di un equilibrio rigoroso tra le sue diverse componenti richiedono una regia forte ai fini della sua realizzazione concreta. Nel corso dell’ultimo quinquennio, la Commissione europea si è adoperata attivamente per svolgere tale compito, con l’obiettivo di assicurare continuità e organicità al processo di policy-making in questo campo. Lo strumento principe di tale sforzo è il “Quadro di controllo per l’esame dei progressi compiuti nella creazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia nell’Unione europea”. Si tratta di un ampio documento di programmazione interistituzionale soft (che cioè non vincola l’azione delle Istituzioni comunitarie e, in particolare, l’attività normativa del Consiglio dei ministri), aggiornato semestralmente dalla Direzione generale Giustizia e affari interni della Commissione europea.

Malgrado l’impegno dell’esecutivo di Bruxelles, lo SLSG rimane però, a oggi, una costruzione politica con una prevalente connotazione intergovernativa, anche nei settori attualmente in corso di “comunitarizzazione”. Questa impostazione di fondo spiega perché, in realtà, il grado di avanzamento del processo di integrazione nei diversi ambiti che compongono lo SLSG sia molto diseguale (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Soprattutto nell’ambito delle Politiche dell’immigrazione e dell’asilo e alla Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, la viva e costante attenzione politica dedicata alla “sicurezza” e, più recentemente, alla “giustizia”, ha eclissato gli sviluppi, assai più sporadici e meno organici, in tema di “libertà” e diritti fondamentali. Ai fini di un riequilibrio e della costruzione di uno SLSG armonioso, una profonda riforma istituzionale – quale solo in parte era stata proposta dalla Convenzione per il futuro dell’Europa nel 2003 (v. Convenzione europea) – appare come una necessità improcrastinabile.

Ferruccio Pastore (2007)




Spazio economico europeo

La cronistoria e i protagonisti

L’art. 310 (ex articolo 238) del Trattato istitutivo della Comunità europea (CE) (v. Trattati di Roma) prevede che l’Unione europea (UE) possa «concludere con uno o più Stati od organizzazioni internazionali accordi che istituiscono un’associazione caratterizzata da diritti ed obblighi reciproci, da azioni comuni e da procedure particolari».

In tale quadro, uno degli ambiti d’azione che in maniera ricorrente ha visto impegnati gli Stati della UE è risultato quello dei rapporti e delle forme di collaborazione con l’altra area di libero scambio europea, ovvero la European free trade area (EFTA) (v. Associazione europea di libero scambio). L’EFTA era stata fondata, con la firma della Convenzione (v. anche Convenzioni) di Stoccolma nel 1960, da 7 paesi – Austria, Danimarca, Norvegia, Portogallo, Svezia, Svizzera e Regno Unito, cui si è aggiunta nel 1961 la Finlandia – che non avevano condiviso il progetto di costituzione della Comunità economica europea (CEE), perché caratterizzato da un’eccessiva spinta verso l’integrazione e da una connotazione di carattere maggiormente sopranazionale (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).

Nel corso del primo decennio di vita parallela delle due aree commerciali, le iniziative reciproche non ebbero un carattere sistemico e organico: nel 1973, infatti, con l’adesione di due Stati membri dell’EFTA (Regno Unito e Danimarca) all’allora Comunità economica europea, furono negoziati solamente accordi bilaterali di libero scambio tra quest’ultima e ogni singolo membro dell’EFTA. Tale approccio si andò modificando nel corso del decennio successivo, quando, con la Dichiarazione comune di Lussemburgo (1984), i ministri degli Stati membri della CEE, dell’EFTA e la Commissione europea approfondirono i rapporti di collaborazione tra le due organizzazioni, sottolineando, per la prima volta, la necessità di istituire tra le due entità uno Spazio economico europeo (SEE), finalizzato alla creazione di un mercato unico di circa 380 milioni di abitanti e alla progressiva estensione di diverse politiche comunitarie ai paesi dell’EFTA.

Le negoziazioni ufficiali per la creazione del SEE ebbero inizio, su iniziativa di Jacques Delors, nel 1989 e l’Accordo fu firmato a Porto nel maggio 1992 tra i 12 Stati membri della Comunità europea (CE) e gli allora 6 Stati membri dell’EFTA: Austria, Finlandia, Islanda, Norvegia, Svizzera e Svezia (il Portogallo nel 1985 aveva lasciato l’EFTA per aderire alla CEE). A seguito dell’esito negativo di un referendum tenutosi nel dicembre 1992, la Svizzera non ratificò l’Accordo. Quest’ultimo entrava pertanto in vigore, all’inizio del 1994, in 17 paesi.

Nel 1995 tre paesi facenti parte dell’EFTA e del SEE (Austria, Finlandia e Svezia) diventavano Stati membri dell’Unione europea, mentre nel maggio 1995 il Liechtenstein entrava a far parte del SEE. In tale data l’Accordo risultava quindi applicabile ai 15 Stati membri dell’UE e a tre Stati EFTA, ma non alla Svizzera, che continuava tuttavia a far parte dell’EFTA.

Dal 1° maggio 2004, con l’Allargamento dell’Unione europea, il SEE è stato esteso ai dieci nuovi membri dell’Europa centro orientale, mentre i rapporti tra Svizzera e UE sono disciplinati da un accordo bilaterale. Il SEE comprende quindi 28 Stati e una popolazione di circa 455 milioni di consumatori, che lo rendono il mercato più esteso del mondo (v. EFTA, 2005).

I tre Stati EFTA-SEE (Liechtenstein, Islanda e Norvegia) hanno una popolazione complessiva di meno di 5 milioni di abitanti e una forte integrazione commerciale con i paesi UE, visto che circa tre quarti del valore dei loro scambi avviene con la UE.

Le istituzioni

Il quadro delle istituzioni responsabili della gestione del SEE è rappresentato in figura 1.

Il Consiglio SEE ha la funzione primaria di definire le linee politiche dell’Accordo e di guidarne l’attuazione e lo sviluppo. Il Consiglio si riunisce due volte all’anno ed è composto dai ministri degli Esteri dei paesi EFTA-SEE, dalla presidenza di turno e da quella entrante della UE (v. Presidenza dell’Unione europea) e dall’Alto rappresentante per la Politica estera e di sicurezza comune della UE.

Figura 1. I pilastri della struttura istituzionale del SEE

Islanda

Liechtenstein

Norvegia

Consiglio SEE

Ministri dell’UE e

degli Stati EFTA-SEE

Consiglio UE

 

Commissione permanente EFTA

 

Segretariato EFTA

Corte EFTA
Commissione europea

 

Servizi della Commissione

Commissione mista SEE

Funzionari Commissione europea e paesi EFTA-SEE

Comitato consultivo SEE
Comitato economico e sociale
Comitato consultivo SEE
Commissione membri dei parlamenti paesi EFTA

 

Segretariato EFTA

Parlamento europeo
Commissione parlamentare mista SEE
Corte di giustizia europea
Autorità di vigilanza EFTA

Fonte: Elaborazioni da EFTA, 2005.

La responsabilità formale di integrare la legislazione UE all’interno del protocollo dell’Accordo SEE spetta alla Commissione mista SEE, di cui fanno parte funzionari della UE e dell’EFTA. Una Commissione permanente EFTA si riunisce alla vigilia delle riunioni della Commissione mista per discuterne i contenuti. Della Commissione permanente fanno parte gli ambasciatori di Liechtenstein, Norvegia e Islanda presso l’Unione europea e gli osservatori della Svizzera e dell’Autorità di vigilanza EFTA. Dalla nascita del SEE circa 5000 atti legali sono stati integrati da parte della Commissione mista nell’Accordo SEE.

Il lavoro dettagliato di preparazione delle decisioni e delle proposte da sottoporre alla Commissione è svolto da cinque sottocommissioni (Libera circolazione delle merci; Libera circolazione dei servizi e libera circolazione delle merci; Libera circolazione delle persone; politiche orizzontali e di accompagnamento; affari istituzionali) che si riuniscono all’incirca una volta al mese.

Il controllo pratico dell’attuazione dell’accordo compete alla Commissione europea, da un lato, e all’Autorità di vigilanza EFTA, dall’altro. Il controllo giurisdizionale compete alla Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) e alla Corte EFTA.

Il controllo democratico avviene mediante una Commissione parlamentare mista, formata da 12 membri del Parlamento europeo e da 12 membri dei parlamenti dei paesi EFTA, che dialoga con il Consiglio SEE e la Commissione mista e può redigere relazioni e presentare risoluzioni formali su questioni relative al SEE.

È, inoltre, presente un Comitato consultivo in rappresentanza dei lavoratori e delle altre forze sociali dei 28 paesi del SEE. Il Comitato consultivo è finalizzato a rafforzare le relazioni tra le rappresentanze sociali di entrambi i versanti del SEE, ad accrescere la consapevolezza riguardo agli aspetti sociali ed economici dell’Accordo e a contribuire alle decisioni degli altri organi del SEE.

Un altro aspetto importante del quadro decisionale è rappresentato dalla possibilità per esperti e rappresentanti dei paesi EFTA-SEE di partecipare ai lavori preparatori dei servizi della Commissione europea, al fine di poter influenzare la formazione del quadro normativo sin dai suoi primi passi.

Obiettivi e contenuti: le quattro libertà fondamentali

Lo scopo principale del SEE è l’allargamento del mercato unico comunitario ai paesi dell’EFTA. Principio guida di tale approccio è quello dell’“omogeneità”, ovvero la necessità che lo spazio economico possa garantire le stesse regole e lo stesso ambiente competitivo a tutti gli operatori. Il nucleo dell’Accordo consiste nell’estensione delle quattro libertà del mercato unico a tutta l’area SEE: libera circolazione delle merci, dei servizi, dei capitali e delle persone, e nella regolamentazione comune della Politica europea di concorrenza, degli Aiuti di Stato e degli Appalti pubblici. Significative forme di collaborazione sono state inoltre intraprese in numerose politiche quali la Politica della ricerca scientifica e tecnologica, la Politica dell’istruzione, la Politica culturale europea, la politica dei consumatori, la Politica ambientale, la Politica industriale e la Politica del turismo, la Politica della salute pubblica e la Politica sociale.

Rispetto al mercato unico UE (v. Mercato unico europeo), tuttavia, il SEE esclude in via di principio i prodotti agricoli e quelli ittici; non comprende l’imposizione indiretta (IVA e accise) e non prevede alcuna politica economica esterna (Tariffa esterna comune, misure antidumping, ecc.). Ne risulta che il SEE non costituisce un mercato completamente senza frontiere, né un’autentica Unione doganale. La portata dell’Accordo è comunque estesa, visto che più dell’80% della normativa UE risulta applicabile nell’intera area SEE, come lo sarà la maggior parte della futura normativa relativa al mercato unico.

Dal punto di vista della libera circolazione delle merci, l’abolizione dei dazi doganali sui prodotti industriali all’interno dell’attuale area SEE risale già al 1972. L’Accordo SEE ha perseguito quindi l’estensione della libertà di movimento rispetto agli ostacoli posti dalle restrizioni quantitative e dalle cosiddette misure di effetto equivalente. La sottocommissione sulla libera circolazione delle merci, in particolare, lavora al progressivo smantellamento delle barriere tecniche e non tariffarie (v. Tariffa doganale) e all’Armonizzazione dei requisiti dei prodotti (standard, controlli veterinari, questioni fito-sanitarie) non solo all’interno del SEE, ma anche in relazione a paesi terzi. In questo ambito sono stati raggiunti accordi per favorire lo scambio anche di taluni prodotti agricoli e ittici.

Dal punto di vista della circolazione dei servizi, in tutto il SEE vige la Libertà di stabilimento sia per i servizi commerciali, sia per i servizi professionali. Ad esempio, all’interno del SEE, come all’interno dell’UE, vige la libertà di svolgere attività bancarie, di assicurazione, di investimento e altri servizi finanziari, sulla base di una licenza unica e di un controllo nel paese d’origine. Importanti sono inoltre risultati i processi di progressiva apertura alla concorrenza di alcuni servizi di interesse economico generale (telecomunicazioni, energia, servizi postali, ferrovie, ecc.), che hanno proceduto parallelamente nell’UE e nel SEE, attraverso l’incorporazione nell’Accordo delle misure adottate a livello UE.

In termini di libera circolazione delle persone, l’Accordo originario ha previsto che i cittadini degli Stati SEE abbiano il diritto di cercare e prendere un lavoro in ognuno degli altri Stati membri. La sottocommissione III sulla libera circolazione delle persone si occupa inoltre costantemente di altri aspetti inerenti l’abbattimento delle barriere interne al mercato del lavoro, quali il mutuo riconoscimento dei diplomi e delle qualifiche professionali, l’integrazione della normativa UE sulla sicurezza sociale, la diffusione delle informazioni sulla legislazione sociale e la tassazione, l’educazione e la sanità, le opportunità di formazione e il costo della vita. Tutti è tre gli Stati EFTA-SEE hanno inoltre liberalizzato l’accesso dei lavoratori dei nuovi 10 paesi membri sin dal 2004, senza l’adozione di periodi transitori.

 Le politiche orizzontali e d’accompagnamento

Accanto al nucleo centrale rappresentato dalle quattro libertà fondamentali, gli ambiti di collaborazione all’interno del SEE si sono progressivamente estesi ad altre importanti azioni orizzontali di supporto e sostegno al progetto centrale del mercato unico.

In primo luogo, come previsto nell’accordo sulla creazione dello Spazio economico europeo, gli Stati dell’EFTA (a eccezione della Svizzera) partecipano a un’ampia gamma di politiche comunitarie delle rubriche 3, 4 e 5 delle prospettive finanziarie, in cambio di un contributo finanziario agli stanziamenti operativi, calcolato mediante applicazione di un “fattore di proporzionalità” commisurato al prodotto interno lordo dello Stato dell’EFTA interessato. I contributi finanziari in oggetto sono formalmente iscritti in bilancio; ogni linea di bilancio relativa ad attività alle quali parteciperanno gli Stati EFTA comporta infatti la menzione “per informazione” della partecipazione EFTA, mentre la tabella riepilogativa contenente l’elenco delle linee di bilancio interessate e l’importo della partecipazione EFTA per ciascuna di esse è pubblicata come allegato al bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea). La politica di ricerca e sviluppo finanziata all’interno del sesto programma quadro rappresenta di gran lunga il principale programma UE (v. Programmi comunitari) a cui partecipano i paesi EFTA-SEE: nel 2004, ad esempio, a essa è stato destinato circa il 73,5% dei contributi degli Stati EFTA-SEE al bilancio europeo (per un ammontare di circa 110 milioni di euro); altre quote importanti vanno al settore educazione, formazione e gioventù (12,9%), attraverso la partecipazione a programmi come “Socrates” (v. Programma Socrates), “Leonardo da Vinci” ed “ERASMUS-Mundus” (v. Programma europeo per la mobilità degli studenti universitari); al settore imprese e turismo (2%), attraverso principalmente il programma pluriennale per le imprese e l’imprenditorialità; a quello dell’audiovisivo (1,6%).

Una seconda rilevante modalità di cooperazione è costituita dalla partecipazione dei paesi EFTA-SEE alle agenzie e agli organismi di controllo e indirizzo settoriale istituiti all’interno della UE, come già avvenuto per l’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro o per quella sulla sicurezza aerea o per il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie. In altri settori, la forma di interazione tra i due versanti del SEE è rappresentata principalmente dallo scambio di informazioni, dalla individuazione di buone pratiche, e dallo sviluppo di iniziative comuni in termini di progetti pilota e di formazione di esperti. Importanti esperienze di questo tipo si sono avute, ad esempio, nel settore della protezione civile.

Infine, sin dal 1994 uno specifico “meccanismo di finanziamento” alimentato dai paesi EFTA-SEE destina risorse a favore dello sviluppo economico e sociale dei paesi più poveri della UE, a testimonianza della natura non esclusivamente commerciale dell’Accordo. Nel periodo 1999-2003 il meccanismo ha destinato circa 120 milioni di euro a progetti in Grecia, Irlanda, Irlanda del Nord, Portogallo e Spagna nel campo dell’ambiente, dei trasporti e dell’educazione e formazione. Questi fondi sono stati notevolmente ampliati con l’Allargamento del SEE: nel periodo 2004-2009, infatti, il totale dei fondi messi a disposizione dei 10 nuovi Stati membri e di Grecia, Portogallo e Spagna ammontava a circa 1170 milioni di euro, con un incremento di dieci volte rispetto al periodo precedente. I meccanismi di finanziamento prevedono che gli Stati beneficiari siano i responsabili della definizione, dello sviluppo e dell’attuazione dei progetti, nell’ambito di un quadro di programmazione e di gestione amministrativa concordato con gli Stati finanziatori.

Andrea Zatti (2009)




Spazio europeo dell’istruzione superiore

L’avvio intergovernativo del Processo di Bologna: scopi e sviluppi

Lo Spazio europeo dell’istruzione superiore (European higher education area, EHEA) costituisce un obiettivo concordato da numerosi governi europei al fine di promuovere la cooperazione e la ristrutturazione delle istituzioni universitarie e di alta formazione all’interno di un unico sistema, integrato a uno Spazio europeo della ricerca (European research area, ERA), entro il 2010. Il 25 maggio 1998 i ministri dell’Educazione di Francia, Germania, Italia e Regno Unito firmarono a Parigi, presso l’Università della Sorbona, una dichiarazione sull’Armonizzazione dell’architettura del sistema educativo superiore in Europa (Dichiarazione di Sorbona) che intendeva perseguire una progressiva convergenza dei diversi sistemi di titoli e cicli di insegnamento, la strutturazione uniforme in due cicli della formazione universitaria e la promozione della mobilità studentesca. A essa fece seguito la Dichiarazione di Bologna del 18 e 19 giugno 1999 che inaugurò il Processo di Bologna, ossia il percorso di Cooperazione intergovernativa e di coordinamento di politiche, basata su procedure di soft law, allargate ad attori istituzionali o non istituzionali a carattere sopranazionale, che 29 ministri dell’Istruzione superiore di paesi europei (Austria, Belgio, Bulgaria, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Ungheria, Irlanda, Islanda, Italia, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Malta, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica ceca, Repubblica slovacca, Romania, Slovenia, Spagna, Svezia, Svizzera), decisero di intraprendere per realizzare lo Spazio europeo dell’istruzione superiore.

La Dichiarazione di Bologna faceva anche riferimento alla Magna charta universitatum siglata dai Rettori delle Università europee nel capoluogo emiliano nel settembre 1988 in occasione della ricorrenza dei 900 anni dalla nascita dell’Ateneo felsineo. Questo solenne documento aveva indicato i principi fondamentali che dovevano essere salvaguardati e promossi per il futuro delle università (indipendenza morale e scientifica nei confronti di ogni potere politico ed economico, attività didattica indissociabile da ogni attività di ricerca, rifiuto dell’intolleranza e dialogo permanente, necessità della conoscenza reciproca e dell’interazione tra le culture) e le modalità per raggiungerli (reclutamento dei professori tenendo conto della vocazione alla didattica e alla ricerca, condizioni degli studenti adatte a garantire libertà e formazione umana e scientifica adeguata, promozione di una mobilità sempre crescente dei docenti e degli studenti universitari). La Dichiarazione di Bologna del 1999 non prevedeva l’armonizzazione proposta dalla Dichiarazione di Sorbona, richiamandosi al Principio di sussidiarietà e non scalfendo le competenze nazionali riguardanti l’istruzione superiore, ma indicava sei obiettivi da realizzare per creare l’EHEA e rendere l’educazione europea più competitiva rispetto alle altre aree del mondo: la strutturazione degli studi universitari in due cicli (il primo di tre anni al fine di garantire l’ingresso nel mondo del lavoro, e il secondo, accessibile solo al completamento del primo, per consentire l’accesso a un master o un dottorato di ricerca); il rafforzamento della mobilità degli studenti, dei ricercatori, dei docenti e degli staff amministrativi con rimozione degli ostacoli alla libera circolazione e al riconoscimento dei periodi lavorativi trascorsi all’estero; la creazione di un sistema europeo di crediti didattici trasferibili come quello adottato nell’Unione europea (UE), il Sistema di trasferimento e accumulo dei crediti europeo (European credit transfer system, ECTS); l’adozione di diplomi facilmente comprensibili e comparabili anche attraverso l’implementazione nazionale del Supplemento di Diploma previsto dalla Convenzione di Lisbona sul riconoscimento dei titoli di studio relativi all’insegnamento superiore nella regione europea approvata nel 1997; la valutazione della qualità; la promozione di una dimensione europea dell’educazione. Il Processo di Bologna dà quindi impulso a una ristrutturazione autonoma dei sistemi universitari europei lungo queste direttrici comuni, sottoposta a verifica ed eventuale riorientamento ogni due anni, in base all’avanzamento verso il raggiungimento degli obiettivi, in un vertice (v. Vertici) dei ministri dell’Istruzione superiore dei paesi partecipanti.

Il Vertice di Praga e l’inclusione dell’UE e di attori e organizzazioni internazionali

Il primo summit ministeriale di verifica si è tenuto a Praga il 18 e 19 maggio 2001 e ha visto ampliarsi a 32 stati (con l’adesione di Croazia, Cipro e Turchia) il Processo di Bologna e l’inclusione ufficiale in esso di diverse organizzazioni internazionali: Unione europea, Consiglio d’Europa, United Nations educational scientific and cultural organization (UNESCO), e il Centro europeo per l’istruzione superiore dell’UNESCO (CEPES). Con il Comunicato di Praga il Processo di Bologna si è esteso ad altri tre obiettivi: la formazione permanente (lifelong learning); il coinvolgimento degli studenti; l’attrattività del sistema europeo dell’istruzione e dell’educazione transnazionale. È stato inoltre istituito un “Follow up group” (Gruppo per il perseguimento degli obiettivi) costituito dai paesi firmatari della Dichiarazione di Bologna e dalla Commissione europea, presieduto soltanto dai presidenti di turno dell’Unione europea (v. Presidenza dell’Unione europea) al quale sono stati associati l’Associazione universitaria europea (European university association, EUA) l’Associazione europea per l’istruzione superiore (European association in higher education, EURASHE), l’Ufficio di informazione degli studenti europei (European students information bureau, ESIB – ribattezzata dal 2007 Unione europea degli studenti – European Students’ Union, ESU) e il Consiglio d’Europa.

Approfondimento e allargamento degli obiettivi dal summit di Berlino a quelli di Bergen e Londra

Nel successivo Vertice di Berlino, riunitosi il 18 e 19 settembre 2003, con 40 Stati partecipanti (si erano aggiunti anche Albania, Andorra, Bosnia-Erzegovina, Città del Vaticano, Serbia e Montenegro, l’ex Repubblica iugoslava di Macedonia) furono stabiliti tre aspetti prioritari da sviluppare entro i seguenti due anni: l’assicurazione della qualità, il sistema universitario a due livelli e il riconoscimento dei diplomi e dei periodi di studio con l’introduzione in tutti i paesi del Diploma supplement, a partire dal 2005. Venne anche introdotto un ulteriore obiettivo da raggiungere: la riorganizzazione e la previsione di un terzo ciclo di studi (dottorato) con lo sviluppo di una maggiore sinergia tra EHEA e ERA. Il Follow up group fu quindi incaricato di redigere per il successivo incontro intergovernativo un inventario generale sui cambiamenti dei sistemi universitari e rapporti specifici e dettagliati su singoli obiettivi.

Il terzo vertice, tenutosi a Bergen, in Norvegia, il 19 e 20 maggio 2005, a metà del cammino del Processo di Bologna, ha portato a 45 i paesi coinvolti (con l’adesione di Armenia, Azerbaigian, Georgia, Moldavia, Ucraina), ha preso atto dei progressi avvenuti, ma anche delle differenti velocità alle quali i singoli paesi procedono e ha previsto di continuare l’implementazione nei settori prioritari individuati a Berlino per lo sviluppo di standard e linee guida sulla valutazione della qualità attraverso Agenzie nazionali di valutazione, di quadri nazionali per le qualifiche con riferimenti comuni dall’istruzione primaria fino al dottorato, per l’assegnazione e il riconoscimento di titoli congiunti anche a livello di dottorati e per la creazione di opportunità di insegnamento flessibile nell’istruzione superiore includendo procedure per il riconoscimento delle precedenti esperienze formative. Inoltre, il Follow up group è stato incaricato di monitorare la mobilità e la situazione economica e sociale degli studenti fornendo maggiore attenzione alla dimensione sociale del Processo per programmare interventi di aiuto e consulenza al fine di permettere la massima accessibilità possibile agli studi universitari. Al Follow up group sono stati aggregati come membri consultivi la Struttura paneuropea per l’educazione internazionale (Education international pan-european structure, EIPS), l’Associazione europea per la garanzia di qualità nell’istruzione superiore (European association for quality assurance in higher education, ENQA) e l’Unione delle industrie della Comunità europea (Union of industrial and employers’ confederations of Europe, UNICE, denominata dal 2007 Businesseurope).

Al quarto summit del Processo di Bologna, che si è tenuto a Londra il 17 e 18 maggio 2007 con l’ampliamento dei paesi partecipanti grazie all’ingresso della Repubblica del Montenegro, sono stati constatati alcuni importanti avanzamenti (introduzione della struttura in tre cicli della formazione universitaria nella maggior parte degli Stati membri, la diffusione di buone pratiche, ecc.), ma parallelamente sono stati evidenziati progressi ridotti e diverse difficoltà in alcuni settori di implementazione (livello insufficiente di mobilità di docenti, personale amministrativo, studenti e laureati, carenza di dati sull’occupazione lavorativa dei laureati, necessità di sviluppare un quadro comune di qualifiche, la formazione continua, i programmi di dottorato, le opportunità di carriera nel mondo della ricerca, la dimensione sociale e i servizi agli studenti). In vista del successivo vertice da tenersi in Belgio nell’aprile 2009, i ministri dell’educazione hanno quindi deciso l’istituzione del Registro europeo delle agenzie di assicurazione della qualità e il monitoraggio delle azioni promosse a livello nazionale per raggiungere gli obiettivi prefissi riguardo alla mobilità, all’occupazione post diploma e alle pari opportunità di accesso degli studenti alla formazione universitaria – coinvolgendo operativamente l’UE attraverso Eurostat (v. Ufficio statistico delle Comunità europee) – con l’intento di dare anche un maggiore impulso all’informazione sul Processo di Bologna a livello globale e al riconoscimento dei titoli nel resto del mondo, sottoponendo a verifica continua l’intero Processo allo scopo di favorirne un progressivo adattamento alle esigenze della società e di individuare le sfide da affrontare dopo il 2010.

Il ruolo propulsivo della Commissione europea nel Processo di Bologna

La Commissione europea rappresenta uno degli attori più rilevanti del Processo di Bologna e vi partecipa pienamente. In questi anni ha promosso larga parte degli obiettivi indicati dal Processo di Bologna come la certificazione di qualità (in particolare con il supporto fornito al Progetto Tuning – Tuning Educational Structures in Europe, varato nel 2000 per definire un insieme di obiettivi di apprendimento comuni per i curricula europei che sono stati individuati nei “descrittori di Dublino”), la mobilità, lo sviluppo dell’ECTS, la trasparenza delle qualifiche (Europass) l’istituzione dell’ENQA e dei diplomi congiunti, la creazione di uno spazio europeo per l’educazione permanente agendo in particolare attraverso il Programma Socrates, Erasmus (v. Programma europeo per la mobilità degli studenti universitari) Mundus e Tempus (v. Programma transeuropeo di cooperazione per l’istruzione). Un importante servizio di informazione svolge anche Eurydice, la rete di informazione sull’istruzione in Europa. Nell’ambito dell’UE il Processo di Bologna si collega alla Strategia di Lisbona lanciata nella primavera del 2000 che prevede, entro la medesima scadenza del 2010, l’obiettivo di rendere l’UE l’economia fondata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, capace di una crescita economica sostenibile con maggiori e migliori posti di lavoro e una più forte coesione sociale. Infine, esso mantiene un legame anche con il Processo di Copenaghen che riguarda, sempre a livello comunitario, la cooperazione rafforzata nell’ambito dell’istruzione e della formazione professionale. Dopo l’Allargamento dell’UE a 27 paesi è peraltro sempre più visibile una convergenza tra le politiche educative comunitarie e la costruzione dell’EHEA. Diverse sono state anche le comunicazioni della Commissione europea in tema di istruzione superiore tra le quali si segnalano: “Il ruolo delle università nell’Europa della conoscenza” (com. 58 del 2003), “Mobilitare i cervelli d’Europa: rendere capace l’istruzione superiore di dare il suo pieno contributo agli obiettivi di Lisbona” (com. 152 del 2005), “Dare impulso all’agenda per modernizzare le università europee: educazione, ricerca e innovazione” (com. 208 del 2006). Una presentazione delle iniziative promosse dall’UE nell’ambito del Processo di Bologna, inclusa la promozione di network, gruppi di studio, progetti di sviluppo e coordinamento delle migliori pratiche, seminari e studi, è contenuta nel Rapporto di avanzamento del Processo di Bologna “From Bergen to London” presentato dalla Commissione europea al Vertice di Londra nel maggio 2007.

I summit di Lovanio e Budapest-Vienna e il bilancio provvisorio delle riforme: costituzione dello Spazio europeo dell’istruzione superiore tra attuazioni parziali, attese e contestate

Al quinto Vertice ministeriale di Lovanio e Louvain-la-Neuve, svoltosi dal 27 al 29 aprile 2009, (durante il quale è stato organizzato anche un controvertice convocato dalla rete di studenti, docenti e operatori che contestano le tendenze economiciste del Processo di Bologna), sono state poste le basi per proseguire lo sviluppo delle riforme in atto per il periodo posteriore al 2010. Rimarcando la necessità di proseguire verso il conseguimento degli obiettivi già prefissati e non totalmente raggiunti, i ministri dell’istruzione superiore, nel comunicato finale approvato, hanno puntato soprattutto l’attenzione sulla necessità di garantire un accesso paritario allo studio universitario a tutti gli studenti, lo sviluppo della formazione permanente lungo tutto l’arco della vita, l’incremento della mobilità studentesca sino a raggiungere il 20% di studenti intenti a svolgere un periodo di studio all’estero con un coinvolgimento più bilanciato in riferimento all’età, al ciclo di studi frequentato e alle zone di provenienza entro il 2020, il miglioramento dell’occupabilità prevedendo lo sviluppo di nuovi curricula e figure professionali, il potenziamento della qualità e della sua valutazione in riferimento all’insegnamento e alla formazione incentrata sui bisogni degli studenti, l’apertura internazionale attraverso lo sviluppo di forum dedicati alla diffusione del Processo di Bologna, il consolidamento della raccolta di dati e statistiche e l’aumento di trasparenza e coordinamento tra gli strumenti multidimensionali atti a fornire informazione e sviluppare i meccanismi del Processo di Bologna. Ribadita la centralità della missione e del finanziamento pubblico dell’istruzione superiore, il summit ha stabilito, in merito agli aspetti organizzativi e di implementazione, una copresidenza condivisa tra il paese alla presidenza dell’UE e un paese esterno all’UE nei successivi vertici, l’interazione tra del Follow up Group con esperti e attori di altre politiche (ricerca, sicurezza sociale, immigrazione, lavoro) e l’incarico al Follow up di preparare un piano d’azione fino al 2012 allo scopo di definire gli indicatori usati per misurare e monitorare la mobilità e la dimensione sociale unitamente alla raccolta di informazioni, valutare come ottenere una mobilità equilibrata all’interno dello Spazio europeo dell’istruzione superiore, osservare lo sviluppo dei meccanismi di trasparenza e riferire su questi elementi alla successiva conferenza ministeriale, realizzare un network per migliorare l’informazione e la promozione del Processo di Bologna nel mondo avvalendosi delle strutture esistenti, dare seguito alle raccomandazioni di analisi dei piani d’azione nazionale sul riconoscimento dei titoli. Infine, il comunicato stabiliva che la successiva rendicontazione dei progressi ottenuti avrebbe dovuto essere gestita in modo coordinato ridefinendo metodologicamente la valutazione, coinvolgendo congiuntamente Eurostat, Eurostudent e Eurydice nella raccolta dati, mentre il gruppo E4 (ENQA, EUA, EURASHE, ESU) era invitato a continuare la cooperazione per lo sviluppo della valutazione della qualità e soprattutto a garantire che il Registro europeo delle agenzie di qualità fosse sottoposto alla valutazione esterna, prendendo in considerazione i risultati della valutazione.

L’11 e il 12 marzo 2010 si è tenuta la conferenza per l’anniversario del Processo di Bologna, organizzata da Austria e Ungheria, rispettivamente a Vienna e Budapest, nella quale è stata ufficialmente costituita l’EHEA ed è stato accolto come nuovo paese membro il Kazakhistan. Nella Dichiarazione ministeriale è stata sottolineata l’importanza di una cooperazione transregionale senza precedenti nel settore dell’istruzione superiore che ha ricevuto attenzione e determinato cambiamenti anche all’esterno ed è stata ribadita la necessità di proseguire le riforme necessarie per raggiungere diversi obiettivi non ancora o solo parzialmente conseguiti tenendo conto anche delle varie proteste manifestatesi in diversi paesi relative ai cambiamenti e alle ripercussioni economiche, sociali e politiche globali e alla mancanza di adeguate misure per garantire la dimensione sociale e pubblica dell’offerta formativa. La successiva conferenza ministeriale è prevista a Bucarest, in Romania, il 26 e 27 aprile 2012, seguita ogni tre anni da ulteriori regolari summit fino al 2020.

Luci e ombre caratterizzano il Processo di Bologna: se esso ha permesso una cooperazione su vasta scala e l’occasione per riforme convergenti sostanziali dei sistemi educativi, diverse perplessità suscitano l’assenza di un controllo democratico esercitato dai Parlamenti nazionali, la mancanza di uno spazio pubblico di discussione sulla realizzazione dell’EHEA – seguita e orientata da attori e stakeholders in gran parte autoreferenziali e cooptati dai governi – e la prevalenza degli aspetti economici e tecnici su quelli educativi e sociali con il rischio, paventato da molti osservatori, che questo Processo finisca per assumere come valori di riferimento fondamentali la competitività e il sistema di mercato esistenti, a discapito della diffusione e dello sviluppo delle conoscenze non economicamente redditizie. Di fronte a questi sviluppi, alla crisi economica e finanziaria e al ristagno o alla diminuzione di investimenti per l’istruzione e la ricerca in diversi paesi europei, non sono mancate ondate di protesta studentesca e degli operatori del settore in diversi paesi, e in particolare in Francia e Spagna, che se mirate perlopiù su questioni interne alle politiche universitarie nazionali, sono state indirizzate anche contro il Processo di Bologna, contestato da un lato perché ritenuto rispondente a logiche economiche e neoliberiste più che sociali, dall’altro per l’incapacità di porsi obiettivi più ambiziosi di quelli attualmente perseguiti. Va infine sottolineato che, sebbene la Commissione europea abbia avuto un ruolo catalizzatore, di elaborazione, promozione, sostegno e coordinamento di proposte e iniziative in seno al Processo di Bologna, le decisioni effettive sono assunte a livello intergovernativo.

Giorgio Grimaldi (2010)




Spénale, Georges

S. (Carcassonne 1913-Parigi 1983), dopo aver conseguito un diploma in diritto alla facoltà di giurisprudenza di Parigi, si diplomò all’École Nationale de la France d’Outre-Mer. La sua carriera amministrativa cominciò nel 1938 con un incarico all’Ufficio economico della Guinea francese; proseguì tra il 1941 e il 1943 prima nell’amministrazione dell’Alto-Volta, poi in quella della Costa d’Avorio.

Nel dopoguerra S. fu direttore del gabinetto dell’Alto commissario nell’Africa Equatoriale francese (1946-1948); ebbe un incarico in Costa d’Avorio tra il 1949 ed il 1951; ricoprì le funzioni di segretario generale del Camerun (1952-1954) e di direttore aggiunto degli Affari politici nel ministero della Francia d’Oltremare (1955). Nel 1956 nelle vesti di direttore di gabinetto del ministro della Francia d’Oltremare, il socialista Gaston Defferre, partecipò all’elaborazione della legge-quadro che creava nei Territori d’Oltremare consigli di governo responsabili davanti ad assemblee territoriali elette a suffragio universale. Dal 1957 al 1960 esercitò l’incarico di Alto commissario della Repubblica francese in Togo (v. anche Regioni ultraperiferiche dell’Unione europea).

Agli inizi degli anni Sessanta S. cominciò la propria carriera politica: alle elezioni nazionali del novembre 1962 fu eletto deputato nel Tarn tra le file dei socialisti e conservò il proprio seggio nei tre scrutini successivi (marzo 1967, giugno 1968, marzo 1973). Nel 1977 fu eletto senatore per lo stesso dipartimento. L’impegno politico di S. proseguì a livello locale con l’elezione a consigliere generale del cantone di Rabastens nel 1964 e nel 1970, a sindaco di Saint-Sulpice-la-Pointe (dal 1965 al 1981) e a vicepresidente del Consiglio regionale del Midi-Pyrénées (dal 1975); a livello europeo con la nomina a rappresentante della Francia al Parlamento europeo (PE) nel dicembre 1964, rinnovata nel 1969 e nel 1974.

In questa assise S. divenne presidente della Commissione d’associazione parlamentare con la Grecia tra il 1966 e il 1967; in seguito, come presidente della Commissione Finanze del PE dal 1967 al 1974, si batté per un ampliamento dei poteri di bilancio del PE (v. Bilancio dell’Unione europea) sostenendo la necessità di una legittimazione democratica, e quindi di un controllo parlamentare europeo, dell’uso delle risorse proprie della Comunità europea.

Presidente del gruppo socialista (1974-1975) del PE, S. divenne presidente di questa stessa assemblea tra il marzo del 1975 e il febbraio del 1977. Durante il suo mandato egli contribuì alla firma dell’Atto del 20 settembre 1976 che istituiva le Elezioni dirette del Parlamento europeo. Infatti, egli appoggiò il rapporto dell’olandese Michel Patijn, votato dal PE, che stabiliva una data per l’elezione e proponeva una ripartizione dei seggi tra gli stati membri. Presiedette, inoltre, la delegazione del PE che discusse col Consiglio europeo le modifiche da apportare al progetto, mostrando, in tale occasione, un approccio pragmatico alla risoluzione dei problemi posti dall’organizzazione di tali elezioni. Convinto che le leggi europee, direttamente applicabili in tutti gli stati della Comunità europea (v. anche Diritto comunitario), non dovessero essere «imposte ai cittadini senza che questi abbiano contribuito alla loro elaborazione attraverso i loro rappresentanti diretti», S. si schierò per una rappresentanza che tenesse conto dei «due pilastri della casa, i cittadini e gli Stati» e per un ampliamento dei poteri del Parlamento europeo allo scopo di cambiare un sistema istituzionale che «voltava le spalle alla democrazia parlamentare» pur esigendola dai candidati all’entrata nella Comunità economica europea (CEE).

In quegli anni S. invocò il superamento degli egoismi nazionali attraverso una nuova volontà politica che permettesse all’Europa di fronteggiare le proprie responsabilità esterne, in particolare nei confronti dei paesi africani. In questo ambito egli si spese per far sì che l’azione di sviluppo nei paesi africani fosse legata all’opera comunitaria dell’Europa e si affrancasse progressivamente dalle iniziative bilaterali. Contribuì all’elaborazione delle Convenzioni di Lomé I (che sostituivano le Convenzioni di Yaoundé) nel 1975 e, come presidente del PE, tenne a battesimo l’Assemblea consultiva degli Stati dell’Africa sub sahariana, Caraibi e Pacifico (ACP).

Membro del comitato direttivo del Partito socialista tra il 1969 ed il 1974, S. nel 1979 non fu inserito da questa formazione politica nelle liste elettorali per le prime elezioni dirette del PE.

Lucia Bonfreschi (2010)




Spidla, Vladimir

Nato a Praga il 22 aprile 1951, S. conclude le scuole superiori nel 1970 e si iscrive alla facoltà di lettere dell’Università Carlo IV di Praga dove studia storia e preistoria, conseguendo la laurea nel 1976. Successivamente svolge numerosi lavori: addetto alla salvaguardia dei monumenti storici e della tutela dell’ambiente, archeologo, operaio in una segheria, dipendente in una latteria e in un magazzino di materiali da costruzione. Mai iscritto a un partito politico prima del 1989, nel 1990 diventa vicepresidente del Comitato nazionale distrettuale Jindrichuv Hradec, responsabile dell’istruzione, della salute, degli affari sociali e della cultura. Dal 1991 al 1996 dirige l’Ufficio del lavoro locale. Nel 1992 diventa membro del Presidio del Partito socialdemocratico ceco (Česká strana sociálně demokratická ČSSD). Nel marzo 1997 ne diventa vicepresidente e da aprile presidente. Alla Camera dei deputati, dove viene eletto nel 1996, S. è vicepresidente del Comitato parlamentare per la politica sociale e la salute. Dal 22 luglio 1998 al 12 luglio 2002 è vice primo ministro e ministro del Lavoro e degli Affari sociali, autorizzato dal governo del primo ministro Miloš Zeman a coordinare i dipartimenti del lavoro e degli affari sociali, della salute, dell’istruzione, della formazione giovanile, dell’ambiente e della cultura.

Sotto l’amministrazione Zeman, S. rappresenta l’ala sinistra del ČSSD dal 1998 al 2002. L’altro vice primo ministro è il ministro delle Finanze Pawel Mertlik, più conservatore in materia fiscale. Sia Mertlik che il primo ministro sono costretti a stringere il cosiddetto “patto d’opposizione” con il Partito civico democratico (Občanská demokratická strana, ODS), con le sue limitazioni di bilancio, mentre S. chiede una spesa sociale di più ampia portata. In effetti il “patto” indebolisce sia Zeman che Mertlik in quanto l’intesa è molto impopolare agli occhi dei seguaci del partito e del più vasto elettorato ceco. Dopo la nomina di S. a presidente del ČSSD, Mertlik si dimette dal governo. La separazione tra carica di presidente e incarico di primo ministro danneggia il primo ministro Zeman. Assumendo il controllo del ČSSD, S. sembra unire sotto la sua leadership entrambe le correnti del partito. Questa unità gli permette di evitare di rinnovare il “patto d’opposizione” con il centrodestra dell’ODS, altamente impopolare, fino alla successiva scadenza elettorale, e di conservare il sostegno degli alleati di Zeman. La determinazione con cui S. allontana il ČSSD da quest’intesa con l’opposizione, insieme a una ripresa economica accelerata dopo il 2000, creano le premesse per la seconda vittoria elettorale consecutiva a livello nazionale sull’ODS, nel giugno 2002. Ancora più decisiva è la capacità di S. di coinvolgere l’Unione cristiana e democratica-Partito popolare cecoslovacco (Křesťanská a demokratická unie-Československá strana lidová, KDU-ČSL) e l’Unione per la libertà (Unie svobody, US) nella coalizione di governo, un’impresa che Zeman non era riuscito a compiere nel 1998. Zeman critica apertamente questa formazione, in quanto indebolirebbe fortemente la libertà d’azione del ČSSD nelle scelte politiche da compiere. Comunque quest’affermazione sembra dettata più che altro dalla rivalità, in quanto S. e Zeman hanno rapporti sempre più conflittuale.

Per quanto riguarda l’Adesione all’Unione europea (UE), S. ha un approccio più da tecnocrate rispetto a Václav Havel o a Václav Klaus. Pur essendo un convinto “europeista”, è uomo più pragmatico che idealista. Il suo interesse primario consiste nell’ottenere l’adesione della Repubblica Ceca. Questa preoccupazione dipende anche dalla natura sempre più tecnica del processo di preadesione. L’ingresso nell’Unione dominerà ogni aspetto del programma del governo. Inoltre, senza badare alle restrizioni del bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) S. si impegna a mantenere la spesa sociale. Questa politica lo porterà infine alle dimissioni da primo ministro.

S. viene nominato primo ministro il 12 luglio 2002. I negoziati con l’Unione europea vengono conclusi con successo senza particolari contrasti. Nel giugno 2003 il governo di S. gestisce positivamente il referendum sull’adesione alla UE (sul 77% dei votanti il 55,2% si esprime a favore dell’entrata nell’UE), mentre il Presidente della Repubblica Klaus non prende una posizione ufficiale in merito al referendum. L’ODS, malgrado la spaccatura interna sulla questione, sostiene il voto a favore dell’adesione. S. ha messo in gioco il futuro del suo governo e del ČSSD sull’esito favorevole del referendum e sulla conclusione positiva dell’adesione all’Unione. Allo stesso tempo vuole misurarsi con una nuova sfida ancor prima che si conosca l’esito del referendum, dichiarando esplicitamente che il governo si dimetterà se la legislatura dovesse respingere i suoi progetti per le riforme finanziarie. Fin dalla crisi economica del 1995 la Repubblica Ceca ha avuto notevoli problemi di bilancio. Inoltre il processo di adesione all’Unione ha aumentato la pressione finanziaria, in quanto la Repubblica Ceca dovrebbe versare immediatamente una quota di adesione, mentre i trasferimenti della UE, in cambio, sarebbero destinati ad aree politiche specifiche come l’agricoltura e la politica regionale piuttosto che al bilancio globale. Questo processo comporta un riorientamento complessivo del bilancio. Nel settembre 2003 S. riesce a superare indenne un voto di sfiducia contro di lui voluto dall’ODS sulle sue proposte di riforma delle finanze pubbliche. Queste riforme del bilancio provocano veti presidenziali su aspetti importanti dei progetti di riforma e divisioni interne nel ČSSD. In primo luogo, l’opposizione di Klaus alla politica fiscale governativa mira a indirizzare il governo verso politiche più liberali e a indebolire il governo guidato dal ČSSD. In secondo luogo, i sostenitori di Zeman nel ČSSD cercano di ostacolare la sua amministrazione, specialmente dopo che S. ha fatto fallire il progetto di Zeman di essere nominato presidente del ČSSD alla Camera dei deputati al principio del 2003. La coalizione risulta indebolita anche per la defezione di numerosi membri del Parlamento, passati da partner della coalizione all’ODS. Le critiche di Zeman sulla coalizione formata nel 2002 con l’US assumono maggior peso quando, nel marzo 2004, molti membri del Parlamento appartenenti all’US si dimettono dal partito e si allineano all’ODS. La posizione vulnerabile di S. spinge i partner della coalizione a chiedere diritti di veto sulle nomine di governo.

Nel maggio 2004 S. riesce a superare a stento il voto di fiducia all’interno del ČSSD, ma sembra aver perso la volontà di continuare la sua battaglia politica. Oltre 1000 membri del Parlamento appartenenti al ČSSD votano contro di lui e il risultato delle prime elezioni europee è deludente per il partito. S. si dimette quindi da primo ministro e da capo del ČSSD. Il popolare ministro degli Interni Stanislas Gross subentra a S. nel ruolo di primo ministro. Di conseguenza S. viene “dirottato” a Bruxelles e nominato commissario europeo per l’Occupazione e gli Affari sociali nella Commissione europea guidata dal presidente José Manuel Durão Barroso, sostituendo l’uomo politico ceco designato in un primo tempo, l’ambasciatore Pavel Telička. In questo ruolo S. torna ai suoi interessi originari, ai problemi del lavoro e agli affari sociali. L’esempio di Zeman ha insegnato al nuovo primo ministro Gross a tenere a distanza i potenziali nemici all’interno del ČSSD.

Christian C. van Stolk (2009)




Spierenburg, Dirk

S. (Rotterdam 1909-Wassenaar 2001), economista, figura di spicco della diplomazia olandese, ebbe un ruolo determinante nella politica europea dell’Aia negli anni della costruzione comunitaria. Dopo aver frequentato il liceo a Rotterdam, ove si distinse per la vivace partecipazione al dibattito studentesco, nel 1926 si iscrisse alla Nederlandse Handels-Hogeschool, istituto universitario per gli studi economici. Conseguita la laurea nel novembre del 1928, nel 1930 iniziò a prestare servizio presso la società commerciale Amsterdam, nella capitale olandese.

Nel 1935 entrò al ministero dell’Economia (Ministerie van Economische Zaken), presso il Dipartimento per il commercio e l’industria, nel settore Accordi commerciali. Un momento di importante formazione per la futura carriera diplomatica di S., giacché il giovane funzionario si ritrovò di frequente impegnato a negoziare accordi commerciali a livello intereuropeo, acquisendo esperienza sia delle trattative internazionali, sia della realtà diplomatica ed economica dei diversi Stati continentali. E, seppur inesperto, dimostrò ben presto di possedere qualità intellettuali e professionali adeguate per svolgere con successo anche gli incarichi più delicati. Non a caso, nel 1937, ancora ventottenne, gli venne affidata la responsabilità di una missione a Belgrado, finalizzata alla conclusione di un’importante intesa commerciale.

L’occupazione tedesca, nel maggio del 1940, non incise significativamente sulla vita professionale dell’economista olandese. Al contrario, proprio in quel periodo la sua carriera all’Economische Zaken registrò considerevoli avanzamenti, dalla promozione a capo dell’Ufficio per l’Europa sudorientale, ottenuta già nel gennaio dello stesso anno, alla nomina alla direzione del Rijksbureau per l’industria metallurgica, funzione che esercitò dal 1941 al 1945.

Sempre nel 1945, ad agosto, nell’ambito del Dipartimento per il commercio e l’industria (che dal luglio 1946, sarebbe stato denominato Dipartimento per gli affari economici) S. fu designato direttore presso la direzione generale della sezione per il Commercio estero (Buitenlandse Economische Betrekkingen, BEB). Un incarico oneroso, soprattutto nei primissimi anni successivi al conflitto, giacché sul BEB gravava la responsabilità di ripristinare la fitta rete di rapporti commerciali attorno alla quale si sarebbe decisa la ricostruzione economica dei Paesi Bassi nel dopoguerra. Le premesse, peraltro, non lasciavano intravedere spiragli incoraggianti, dacché le forze occupanti avevano distrutto o in gran parte lacerato l’apparato produttivo olandese. Di fatto, l’unica risorsa superstite, dalla quale ripartire, era una «manciata di carbonfossile del Limburgo» (v. von Brouwer, http://www.inghist.nl/Onderzoek/Projecten/BWN/lemmata/bwn6/spierenburg).

Pertanto, i risultati conseguiti da S. nelle molteplici trattative in cui fu coinvolto, soprattutto tra il 1947 e il 1949, vennero da più parti considerati veri e propri miracoli diplomatici. Nel corso delle discussioni sull’unione doganale del Benelux, infatti, era riuscito a ottenere importanti concessioni da Bruxelles nei confronti dei partner belgo-lussemburghesi, nonostante il ridotto margine negoziale dei Paesi Bassi, i quali versavano in una condizione di subalternità sul piano dello sviluppo economico e dell’autosufficienza valutaria. Inoltre, in tale circostanza, aveva scongiurato la formazione di un blocco franco-italo-beneluxiano – il quale, secondo il disegno parigino, avrebbe contrastato un eventuale ripristino dell’economia tedesca, nonché l’effettivo primato economico britannico – salvaguardando in tal modo gli interessi vitali dell’Aia sui mercati del Regno Unito e della Germania.

Tale esperienza, d’altro canto, alimentò in S. una certa pulsione europeista, che maturò attorno a considerazioni pragmatiche anziché sulla base di autentiche convinzioni ideali. In effetti, nel promuovere la creazione dell’unione doganale del Benelux, prima tappa verso l’unificazione economica dei tre paesi – la quale, secondo S., avrebbe verosimilmente accelerato i tempi di recupero della macchina produttiva dei Paesi Bassi, rafforzando altresì la posizione olandese sullo scacchiere internazionale – egli giunse alla conclusione che una cooperazione estesa a livello continentale avrebbe garantito all’Europa le stesse ricadute positive, sotto il profilo della stabilità, della pace e del benessere, di cui l’Olanda avrebbe beneficiato partecipando all’unione regionale del Benelux (v. Asbeek Brusse, Bergman, pp. 2-3).

Valutazioni che, il 5 giugno del 1947, vennero avvalorate dall’invito alla cooperazione economica europea presentato agli Stati continentali dal generale Marshall (v. Piano Marshall), nel suo celebre discorso all’università di Harvard. S., come era prevedibile, accolse entusiasticamente la proposta statunitense, così come accettò senza esitazioni l’incarico di supplente del capodelegazione olandese, il commissario del governo Hans Max Hirschfeld, alla Conferenza di Parigi, il 12 luglio, convocata per negoziare le condizioni di partecipazione dei paesi europei al programma statunitense di aiuti economico-finanziari.

L’improvvisa malattia di Hirschfeld, peraltro, offrì a S. l’opportunità di rappresentare in prima persona il governo dell’Aia alla Conferenza, consentendogli altresì di affermare la propria abilità diplomatica anche agli occhi delle élites politiche olandesi ed europee. Ne conseguirono importanti sviluppi per la vita professionale del funzionario del BEB, sia in patria sia nel contesto continentale. Con riferimento al quadro internazionale, nell’autunno 1947 S. veniva nominato presidente di un gruppo di studio per la creazione di un’Unione doganale europea; nell’aprile del 1948 era designato plenipotenziario presso l’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) e, nel luglio dello stesso anno, diveniva membro del comitato dei quattro saggi – del quale facevano parte il britannico Eric Roll, il francese Guindey e l’italiano Giovanni Malagodi –cui si richiedeva l’elaborazione di una proposta per migliorare il sistema di distribuzione degli aiuti Marshall ai paesi dell’OECE (ivi, p. 3).

In patria, il primo ad apprezzare la capacità di S. di contemperare spirito di conciliazione e rigore di intenti fu Hans Hirschfeld, il quale, già nel 1948, lo aveva voluto al suo fianco, in qualità di vicecommissario del governo per l’European recovery program (ERP). Nel maggio del 1949, poi, l’accreditato diplomatico abbandonava i tavoli dell’OECE per assumere l’eccellente funzione di direttore generale del BEB. In tale veste, S. si ritrovò a progettare la ripartizione degli aiuti americani sul territorio nazionale, destinati sia al ripristino della funzionalità produttiva, sia all’implementazione dell’apparato militare olandese. Su quest’ultimo aspetto, in particolare, a fronte delle frequenti sollecitazioni che gli pervenivano da Washington, S. contribuì in misura sostanziale all’elaborazione di un valido sistema di difesa, in virtù del quale guadagnò larghi consensi all’Aia. All’inizio del 1951, con la guerra di Corea in corso, il suo nome prevalse giocoforza su quello di qualsiasi altro candidato, quando si trattò di eleggere il presidente di una commissione di esperti incaricata di prefigurare un incremento significativo dei dispositivi di sicurezza dei Paesi Bassi (v. Brouwer, cit.).

Con gli anni Cinquanta, si apriva anche la stagione del più intenso coinvolgimento di S. nella causa dell’unificazione europea. La sua fu una sistematica e incisiva perorazione – cui offrì un apporto fattivo l’allora ministro dell’Economia, Johannes R.M. van den Brink – rivolta al reticente governo del socialista Willem Drees per persuaderlo ad accogliere l’invito del ministro degli Esteri francese. Allorché l’Aia risolse di partecipare con riserva alle discussioni sul Piano Schuman, l’esperto diplomatico venne chiamato a guidare la delegazione olandese ai negoziati di Parigi. Nel corso delle discussioni, a tratti concitate, S. si fece interprete delle istanze dei paesi del Benelux, preoccupati di salvaguardare gli interessi dei piccoli Stati dalle possibili ingerenze franco-tedesche, per la creazione di un contraltare intergovernativo dell’Alta autorità, all’interno del quale ciascuno Stato membro della futura comunità carbosiderurgica avrebbe mantenuto inalterata la propria autonomia decisionale. Il quadrilatero istituzionale impostato dal Trattato di Parigi (firmato il 18 aprile 1951 ed entrato in vigore il 27 luglio del 1952) consacrava pertanto la vittoria diplomatica di S. e altresì sanciva la rafforzata posizione negoziale del Benelux nel contesto comunitario.

Nel 1952 S. approdava a Lussemburgo come membro dell’Alta autorità della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), della quale, dal 1957 al 1962, assumeva la vicepresidenza. Personalità energica ed europeista convinto, il funzionario olandese sostenne attivamente il presidente Jean Monnet – del quale tuttavia mal tollerava alcuni eccessi autoritari, nonché la troppa sensibilità agli umori tedeschi – nel faticoso avvio della macchina istituzionale comunitaria (v. Asbeek Brusse, Bergman, cit., p. 9). Nel 1962 S. si trasferiva a Bruxelles, presso il Comitato dei rappresentanti permanenti (COREPER) della Comunità economica europea (CEE), l’istituto incaricato di predisporre le attività del Consiglio dei ministri. In tale contesto, affiancato dal delegato francese Jean-Marc Boegner, si impegnò a promuovere un alleggerimento del processo decisionale del Comitato, avvalendosi, come di consueto, delle innate attitudini diplomatiche e del credito progressivamente acquisito.

Di fronte alla mole di successi conseguiti da S. all’interno delle Istituzioni comunitarie, l’Aia prese gradualmente a conferire al suo rappresentante a Bruxelles piena autonomia nell’interpretare e nel sostenere la politica europea olandese al di là dei confini nazionali. Cosa che, come era prevedibile, suscitò immediate reazioni, soprattutto a partire dal 1957, da parte del ministro degli Esteri Joseph Luns, il quale si mostrò spesso insofferente nei confronti di questo anomalo conflitto di competenze. Ne conseguirono pertanto, fino ai primi anni Settanta, frequenti confronti tra i due diplomatici, caratterizzati da reciproche espressioni di disappunto fin troppo colorite (v. Brouwer, cit.).

Nel gennaio 1971 S. venne nominato rappresentante permanente dei Paesi Bassi presso l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (North Atlantic treaty organization, NATO) a Bruxelles, incarico che avrebbe mantenuto fino al 1974, allorché decise di ritirarsi ufficialmente dalla vita istituzionale. Cosa che, a ogni modo, non comportò un suo definitivo allontanamento dalle sedi della politica olandese ed europea. Al contrario, nello stesso 1974 fu richiamato dal proprio governo, allora guidato dal socialdemocratico Joop Den Uyl (1973-1977), per presiedere una commissione incaricata di riflettere sul concetto di “Unione europea”, menzionato per la prima volta in un comunicato del Vertice di Parigi del 1972. La relazione finale, presentata nel 1975, rilanciava con forza il paradigma della politica europea dell’Aia – ponendo l’accento sulle basi squisitamente economiche dell’integrazione comunitaria (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della) e mostrando cautela nei confronti delle proposte di cooperazione europea nel terreno della politica estera e di sicurezza (v. Cooperazione politica europea) ventilate nel Rapporto Tindemans – e prospettava l’unificazione monetaria come elemento essenziale per la creazione di un’effettiva Unione europea.

Nel settembre del 1978, la Commissione europea, presieduta dal britannico Roy Jenkins, ribadì la propria volontà di convocare un gruppo indipendente di esperti in campo amministrativo, sindacale e imprenditoriale, affinché formulasse proposte e concepisse i metodi di lavoro per un miglioramento dell’integrazione. Istituito nel gennaio del 1979, il “gruppo dei cinque” fu affidato alla presidenza di S. Lavorando a stretto contatto con il comitato di saggi guidato da Robert Marjolin, il quale era stato predisposto dal Consiglio europeo per immaginare la possibile riforma del funzionamento delle istituzioni comunitarie, S. presentò alla Commissione, e alla stampa, il proprio rapporto il 24 settembre 1979. Intitolato “Proposte di riforma della Commissione delle Comunità europee e dei suoi servizi”, e passato alla storia come Rapporto S., il documento evidenziava la necessità di riorganizzare dall’interno l’esecutivo di Bruxelles, riducendo in misura sostanziale il numero di commissari, i portafogli e le direzioni generali, precisando le funzioni devolute ai gabinetti e procedendo alla designazione di un vicepresidente incaricato di coordinare i lavori. Veniva infine prospettata una valorizzazione dello statuto dei funzionari europei e un miglioramento nella gestione delle risorse umane (v. http://www.ena.lu/mce.cfm).

Tali misure, a detta dello stesso S., avrebbero incrementato la coesione interna, agevolato la distribuzione delle competenze, snellito il funzionamento della Commissione, rafforzando, oltre all’autorità del suo presidente, il prestigio e la credibilità del collegio stesso (v. Gazzo, 1979).

Le proposte contenute nel Rapporto S. – di carattere tecnico, ma anche con finalità politiche, giacché l’intento era quello di ridefinire l’istituzione chiave delle Comunità per rendere più efficace e più incisiva la sua azione – formarono una piattaforma programmatica sulla quale la Commissione avviò il proprio processo di riforma interna. In particolare, venne repentinamente predisposto il riordino amministrativo, mentre la riduzione del numero dei commissari e delle direzioni generali si arenò di fronte alle opposizioni del Consiglio.

Nel giugno del 1980 il Binnenhof conferì a S., che pure era giunto al settantesimo anno di età, il delicato incarico di commissario del governo per le trattative sul prezzo del gas. Il primo gabinetto Van Agt (1977-1981) aveva infatti stabilito di innalzare i prezzi del gas naturale di Groningen ai livelli di quelli del petrolio, scatenando le proteste dei principali importatori di tale prodotto, Belgio, Francia, Germania e Italia. Di fronte all’inasprirsi della polemica, l’Aia aveva deciso di affidare al suo negoziatore più abile il compito di risolvere la complessa questione. Le indicazioni del governo olandese al suo delegato erano fin troppo precise: S. avrebbe dovuto adoperarsi per la sottoscrizione di un accordo che garantisse sia il mantenimento del volume delle esportazioni verso i partner europei, sia la fissazione dei prezzi su un livello quanto più possibile vicino a quello del greggio. In quattro mesi di difficili colloqui, tuttavia, il commissario del governo riuscì a registrare un successo inedito, di gran lunga superiore alle aspettative, guadagnando ai Paesi Bassi, oltre all’indicizzazione dei prezzi del gas, ingenti entrate su base annuale (circa tre miliardi di fiorini).

Tale impresa sancì inequivocabilmente l’eccezionale caratura diplomatica di S., il quale divenne in breve tempo riferimento imprescindibile per la successiva generazione di funzionari olandesi (v. Brouwer, cit.). Ritiratosi definitivamente dalla vita pubblica nel 1988, dopo aver svolto una funzione dirigenziale presso l’Atlantic Institut of international affairs, S. decise di offrire il suo contributo agli storici scrivendo, insieme a Raymond Poidevin, Histoire de la Haute Autorité de la Communauté européenne du Charbon et de l’Acier. Une expèrience supranationale, uscito a Bruxelles, nel 1993, per i tipi di Bruylant.


Giulia Vassallo
(2010)




Spinelli, Altiero

Gli anni 1907-1927

S. (Roma 1907-ivi 1986) trascorre la primissima infanzia in Brasile (1908-12). Tornato in Italia, frequenta le stesse scuole elementari dove insegna la madre e si distingue per essere un alunno precoce. Il contesto familiare è molto importante per la prima formazione di Altiero. Il padre, che nel frattempo lavora all’industria di cioccolata della famiglia, è un uomo di idee socialiste e anticlericali, è sua la scelta di un matrimonio civile e di chiamare i figli con nomi non riconducibili a santi. Infatti, Altiero è il primogenito maschio, ma avrebbe dovuto chiamarsi Alterio se le poste brasiliane non avessero storpiato il nome indicato dal padre per telegramma alla madre per il nascituro. S. ha una sorella maggiore di nome Azalea, mentre gli altri fratelli e sorelle si chiamano (in ordine di nascita): Veniero, Anemone, Cerilo e infine Asteria, Gigliola e Fiorella. È sempre il padre a iniziare il figlio al socialismo regalandogli, nel 1922, la collezione delle opere di Marx, di Lenin e di Vassalle. In questa fase è decisivo anche il rapporto tra Altiero e lo zio materno, Umberto Ricci, professore di economia all’Università di Roma. L’ottimo rendimento scolastico durante gli anni del ginnasio e del liceo permette ad S. di finire gli studi da privatista e iscriversi alla facoltà di Giurisprudenza nel 1922 all’età di 17 anni. Al 1922 risalgono anche le prime manifestazioni dello squadrismo fascista ricordate da S., il quale interessandosi di politica condivide l’analisi di Palmiro Togliatti nelle colonne del quotidiano “Il Comunista”. Nell’autunno del 1924 S. aderisce al Partito comunista e dopo poche settimane diventa segretario della cellula del quartiere Trionfale. Scrive S. in merito all’iscrizione al partito: «Sono diventato comunista come si diventa prete, con la consapevolezza di assumere un dovere ed un diritto totali, di accettare la dura scuola dell’obbedienza e dell’abnegazione per ben apprendere l’arte ancor più dura del comando, deciso a diventare quel che il fondatore di quest’ordine aveva chiamato il “rivoluzionario di professione”».

S. frequenta il gruppo universitario comunista della Sapienza dove, fra gli altri, incontra Giorgio Amendola che introduce al comunismo sottraendolo alla tradizione liberale della famiglia. Per le sue capacità politiche e organizzative viene subito coinvolto nell’attività del partito. Dalle memorie di Camilla Ravera si legge un’opinione di Gramsci sul giovane S.: «A Spinelli bisogna fin da oggi dare da fare qualcosa di utile: è un lavoratore, bisogna impegnarlo nella collaborazione con noi». La sua carriera all’interno del partito è in rapida ascesa: fa parte del comitato della federazione giovanile laziale e collabora con Camilla Ravera, Ruggero Greco e Giovanni Fornari. Nel gennaio del 1926 partecipa al congresso nazionale (clandestino) della federazione giovanile comunista, dove fra il gruppo ordinovista di Gramsci e la purezza ideologica di Bordiga, S. sceglie il primo. All’estate del 1926 risale l’ultima vacanza con la famiglia, nella quale S. si mostra isolato rispetto agli interessi dei fratelli. In quest’occasione Giuseppe Dozza gli porta la notizia che deve partecipare al congresso della federazione giovanile comunista francese a Saint-Denis. S. si mette in viaggio e passa la frontiera clandestinamente, ma è scoperto e riaccompagnato alla frontiera da un poliziotto con idee antifasciste. Tornato a Roma S. riceve la proposta di diventare segretario interregionale della gioventù comunista per l’Italia centrale, quindi quadro del partito, accettarne la clandestinità e i rischi. Il padre tenta invano di dissuaderlo. Dal novembre 1926 il loro rapporto è così compromesso e il gelo tra i due continuerà, con brevi interruzioni, anche durante la prigionia fino alla fine della guerra, quando Altiero non sarà più comunista. Sono gli anni in cui il fascismo afferma il suo potere nella politica e nella società. Con il delitto Matteotti e il ritiro delle forze democratiche sull’Aventino la strada è aperta al regime di Mussolini.

Il 3 dicembre 1926 S. è schedato per la prima volta dalla polizia fascista e proposto per cinque anni di confino. Quando arriva la polizia il 4 dicembre per arrestarlo egli è già a Milano, dove scambia i ruoli con il segretario interregionale della zona milanese. S. nella clandestinità prende il nome di Ulisse e spiega così la ragioni di quella scelta: «Da quando ero entrato nella clandestinità mi ero dato lo pseudonimo di Ulisse, perché nel mio animo risuonavano ancora, da quando li avevo letti per la prima volta sui banchi della scuola, i versi “Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtude e conoscenza”». Come l’eroe dantesco potevo dire di me e de “li miei compagni” che “dei remi facemmo ali al folle volo”. Ed ora il turbine mio si era levato contro; mi aveva sommerso; il volo era finito. Tre mesi più tardi, fra quattro mura, compivo vent’anni». A Milano S. soggiorna sotto falso nome (Giorgio Massari). In questo periodo egli frequenta Battistina (Tina) Pizzardo, già conosciuta a Roma, che sarà sua compagna e amante per pochi mesi, ma con la quale avrà una corrispondenza dal carcere fino a metà degli anni Trenta.

Gli anni 1927-1943

Il 3 giugno 1927 S. è arrestato a Milano, durante un controllo di routine, insieme con Giovanni Parodi e Arturo Vignocchi. La famiglia è informata da Tina Pizzardo la quale è a sua volta imprigionata in altri arresti successivi, insieme con Aldo Penazzato che rivela il nome di battaglia di Altiero. Nella corrispondenza con i genitori S. mostra la sua tempra. Afferma di nuovo le sue convinzioni ideologiche, le sue scelte politiche, parla delle sue condizioni, sostiene che è meglio il carcere dell’università ed è critico nei confronti di una certa gioventù che preferisce una vita comoda. Nel luglio 1927 avviene il trasferimento a Roma presso il carcere di Regina Coeli (cella 561, VI braccio). S. inizia il suo periodo di studio e richiede alla famiglia: vocabolari e grammatiche per il tedesco e il greco; libri di entomologia (sua grande passione) di Jean-Henri Fabre; i tre volumi della storia della rivoluzione francese di Carlyle; il Discorso sul metodo di Cartesio; le opere di Stuart Mill e poi ancora volumi di economia politica, di scienza delle finanze, le Cronache del Villani, testi di storia universale, di storia della filosofia, romanzi (Fëdor Dostojevskij, Jack London, Edmond Rostand), classici greci e latini insieme a grammatiche russe e francesi, praticamente una biblioteca. La censura carceraria non consente a S. di ricevere tutti i titoli. In proposito egli si lamenterà, senza successo, scrivendo una lettera (il 20 gennaio 1928) all’ispettorato generale delle carceri per segnalare come la censura del cappellano del carcere si ispirasse più alla morale cattolica che a quella fascista. Il primo interrogatorio avviene il 3 agosto del 1927 dove S. nega tutto, in base alla linea di difesa stabilita insieme agli altri compagni arrestati con lui. Si fa passare per agente di commercio, ma rifiuta di fare il nome dell’azienda per non comprometterla. Nel suo stesso mandato di cattura figurano ottantadue nomi, tra cui quello di Umberto Terracini. A carico di S. c’è l’imputazione di partecipazione a un’organizzazione segreta a carattere militare finanziata dall’estero, con relativa propaganda per fomentare la guerra civile; ricostituzione del partito comunista e apologia di reato: è imputato, insomma, di quasi tutti i crimini previsti dalle leggi speciali fasciste. Nel secondo interrogatorio, allo stesso modo, S. continua a negare l’appartenenza al partito comunista e non riconosce le prove a suo carico, trovate nelle perquisizioni delle case milanesi dei compagni. È rinviato a giudizio davanti al Tribunale speciale. Nella corrispondenza in attesa del processo la madre ha toni disperati, mentre S. prova a consolare la famiglia convinto che la bufera fascista si placherà presto e consigliando letture (libri di Thiers e Taine) al fratello Veniero. Il 18 marzo 1928, in occasione dell’anniversario della Comune di Parigi, S. riceve la prima punizione con isolamento (fino al 5 aprile) per aver tenuto un discorso di commemorazione. Il processo si apre il 6 aprile 1928, ma S. dichiara di rispondere solo al Partito comunista e non ai giudici del Tribunale fascista. Si presenta con abiti consunti, nonostante la famiglia lo avesse pregato di indossare abiti nuovi. L’atteggiamento di rigore è simile al contegno di Amedeo Bordiga, tra i fondatori del PCI, al cui processo S. aveva assistito nell’estate del 1923. S. viene condannato a 16 anni e 8 mesi, senza attenuanti (quali, per esempio, buona famiglia) nonostante per la legge di quel tempo, non sia maggiorenne. Inoltre, il codice penale Zanardelli prevedeva che per le lunghe detenzioni fosse prevista la segregazione cellulare per un sesto della pena in completo isolamento. Nel caso di S. l’isolamento corrisponde a 2 anni e 9 mesi, trascorsi nel carcere di Lucca. Sulla sua condanna S. scrive in una lettera ai genitori: «Non c’è veramente nessuna ragione di atterrirsi nel sentir parlare di 16 anni di reclusione che certamente non farò. Mi dispiace che crediate che non sento la mancanza della libertà […]. Ma io non conosco un desiderio di libertà che mi faccia diventare vile. Se anche domani dovessi per caso uscire dal carcere, preferirei continuare ad agire come ho agito finora piuttosto che accontentarmi di vivere vilmente sicuro. La vera libertà consiste nell’agire conformemente alle proprie idee e nel saperne sopportare le conseguenze. E mi sento molto più libero io qui in carcere che una quantità di persone che “libere” non hanno il coraggio di muovere un dito a favore di ciò che pensano».

La detenzione nel carcere di Lucca dura dal 20 maggio 1928 al 9 gennaio 1931. In questo periodo S. studia e, con poco impegno, lavora come impagliatore di sedie. Si dedica alla matematica (che continuerà con Eugenio Colorni a Ventotene), agli scritti di Leibniz e alla filosofia della scienza. Si misura con la lettura in lingua originale di testi francesi, tedeschi, latini e greci (lingue imparate in prigione), si cimenta anche con il russo e lo spagnolo. Lo studio della filosofia classica tedesca (Kant, Hegel), del pensiero marxista, del socialismo scientifico e di Croce sono “tollerati” dalla censura, sempre presente, ma meno restrittiva rispetto a Regina Coeli. Invece, rimane sotto stretta sorveglianza la corrispondenza epistolare. S. ha diritto di scrivere due lettere al mese di quattro facciate. Tuttavia, sia per le continue difficoltà nella spedizione sia a causa del controllo più severo per i detenuti a sorveglianza speciale, le lettere in entrata e in uscita dal carcere sono poco affidabili come fonti. Pertanto, S. non ha informazioni sulla situazione politica italiana, né su quella internazionale. Appena liberata nel settembre 1928, Tina Pizzardo chiede a S., attraverso la famiglia, di sposarlo. Ha inizio così una corrispondenza tra i due molto controllata dal direttore del carcere, poco incline a riconoscere loro la condizione di “fidanzati”. Altiero mostra titubanza nelle sue lettere verso la proposta della compagna, anche perché la prospettiva del matrimonio genera false speranze nella madre, che vorrebbe vederlo presto libero. S. respinge ogni pressione paterna per la richiesta di grazia, inizialmente non senza indugi. Infatti, lo stesso S. descrive nelle pagine del diario la tentazione di tornare in libertà: «Un giorno di agosto del 1929 – avevo 22 anni ed ero vuoto di saggezza nella carne e nello spirito – ho saputo che un compagno di carcere avendo fatto domanda di grazia era stato liberato. Per alcuni giorni sono stato in una vera e propria agonia. Uscire dal carcere non dipendeva dunque che da un mio gesto».

Se S. non accetta l’idea della grazia, non è contrario alla revisione del processo. Infatti, la sua condanna è avvenuta ai sensi dell’art. 3 delle leggi speciali del 1926, che prevedeva una pena variabile dai quindici ai trenta anni per complotto contro lo Stato e istigazione all’attentato. Gli altri appartenenti al disciolto partito comunista erano stati in seguito condannati ai sensi dell’art. 4 della stessa legge, che prevedeva una pena dai tre ai dieci anni per la riorganizzazione di un partito disciolto dall’autorità. Nel maggio del 1930 S. presenta istanza di revisione senza consultarsi con i genitori, ma a essa non segue nessuna risposta positiva. Intanto continua a opporsi alla domanda di grazia proposta dal padre e fa desistere i genitori dal chiedere ogni genere di raccomandazione per avere uno sconto di pena. La fierezza di Altiero appare in un passaggio di una lettera ai suoi, diretto al padre: «Tu, babbo, non ti addolorare se io ho imparato delle idee diverse da quelle che tu avresti desiderato. Non tutti gli uomini possono avere le medesime opinioni. Ma questo ho innegabilmente imparato da te, ad essere fiero della mia dignità, a non vergognarmi di quello che penso, a saperne sopportare le conseguenze, e a saper non essere schiavo del desiderio di denaro».

Il 10 gennaio del 1931 S. lascia il carcere di Lucca, destinato alla casa di pena di Santa Maria in Gradi di Viterbo, dove arriva il 19 dello stesso mese. Durante il viaggio fa tappa nelle celle di transito di Pistoia, di Firenze e di nuovo nel carcere di Regina Coeli di Roma. La detenzione nel carcere di Viterbo dura dal 19 gennaio 1931 alla metà di luglio del 1932. Scrive S. nel diario meditando su quel soggiorno: «Avevo lasciato Lucca col senso di avervi traversato un periodo provvidenziale della mia vita. A Viterbo lasciai invece dietro di me un periodo arido in cui avevo cercato la compagnia e trovato la solitudine, cercato il dialogo e trovato il monologo, cercato l’amore e trovato la rinuncia». Naufraga, infatti, contro il muro dell’ideologia e della disciplina di partito la sua intenzione di «poter intraprendere l’opera di convincimento che mi ero proposta sull’urgente necessità di ripensare non tanto questa o quella linea politica, quanto i principi fondamentali sui quali l’Internazionale aveva creduto di poter fondare la lotta per il comunismo». La censura nel nuovo carcere è più severa e i controlli sono più frequenti. Nonostante questo, nella casa di pena è presente un collettivo comunista sotto la guida di Giuseppe Pianezza, il quale riesce a tenere i contatti con il partito cui invia i verbali delle riunioni. Nell’atteggiamento di S. di fronte alle direttive del partito emergono tutti i dubbi maturati attraverso le letture. Si arriva al primo scontro in occasione del dibattito all’interno del collettivo sulla svolta attuata dal partito comunista durante il IV congresso clandestino a Colonia nel 1931. S. è già individuato da Pianezza come elemento deviante rispetto al gruppo, insieme ai bordighiani (Zanasi, Fiore, Bussanich e Sandrone). Di fronte ai compagni, S. nega punti considerati fondamentali. Al momento del voto sull’accettazione della relazione finale di Colonia sono presentate tre mozioni, di cui una di S. che si vota da solo. I principali punti di dissenso sono: l’ideale della “libertà proletaria”, secondo lui superiore a quello della dittatura del proletariato sostenuto dal partito e l’“atteggiamento passivo” di questo verso l’Unione sovietica. Dopo il voto sulle mozioni, Pianezza cerca di difendere S. imputando le sue “deviazioni” alla condizione di recluso.

Alle sue letture se ne aggiungono le seguenti a Viterbo: Shakespeare, Les fleurs du mal di Charles Baudelaire, i romanzi di Lewis Sinclair (Babbit e Arrowsmith), Madame Bovary di Gustave Flaubert, le opere di Ivan Turgheniev, Lion Feuchtwanger (Süß l’ebreo), Honoré de Balzac (Eugénie Grandet), Israel Zangwill (I sognatori del ghetto), le favole dei fratelli Grimm in tedesco, Arnold Zweig (La questione del sergente Griscia), Jacob Wasserman, (L’affare Maurizius); Hegel, Alfredo Oriani, Giambattista Vico, Theodor Mommsen e, a dimostrazione della curiosità intellettuale di Altiero, Piero Gobetti, Bolton King e la rivista di Einaudi, “la Riforma sociale”. Sul piano familiare, S. apprende della conversione al cattolicesimo delle sorelle Anemone e Azalea e intensifica i rapporti epistolari con il fratello Veniero, che si è trasferito a Torino e fa da intermediario con Tina. Tra Altiero e il fratello vi sono divergenze di vedute e di interpretazione su comuni letture. Tuttavia, Veniero rimane un valido punto di riferimento fino a quando è arrestato il 29 luglio del 1931 per appartenenza al PCI e propaganda a favore del partito. Infine, contrasti fra la famiglia S. e Tina, che si aggiungono a sue esitazioni verso il matrimonio, la inducono a un profondo ripensamento e a un allontanamento da Altiero il quale, impotente, vede crescere la sua solitudine. Nel giugno 1932 avviene il trasferimento di S. e Veniero presso il carcere di Civitavecchia, dove sono raccolti tutti i detenuti politici considerati irriducibili. Prima di partire, S. ribadisce alla famiglia la sua scelta antifascista. Dopo l’isolamento “provvidenziale” di Lucca e il periodo “arido” di Viterbo, il soggiorno a Civitavecchia vede acuirsi lo scontro con il partito.

La nuova detenzione dura dalla seconda metà di luglio del 1932 al marzo del 1937. In questo periodo, e in particolare tra il 1932 e il 1935, avviene una vera e propria evoluzione nel pensiero di S., che critica Marx e apprezza Croce, come si può leggere anche nelle lettere inviate al padre e come emerge dai suoi contributi alle discussioni con gli altri comunisti. Altiero condivide “il camerone” con Mauro Scoccimarro, Giovanni Parodi, Girolamo Li Causi e altri venti detenuti. Tra i compagni di prigionia si possono ricordare i nomi di: Manlio Rossi Doria, Eugenio Reale, Emilio Sereni, Pratolongo, Santhià, Voccoli, Francesco Leone, Leo Valiani, Pietro Secchia e Umberto Terracini. Quest’ultimo è senza dubbio il leader del gruppo comunista. Inizialmente S. partecipa alla vita del collettivo, alla gestione dei soldi, alle forti proteste dei detenuti in seguito al sequestro dei libri, alle letture collettive ed alle lezioni politiche di Terracini. A questi S. si sente più vicino rispetto, per esempio, alle posizioni di Secchia, con il quale si scontrerà, poiché egli approva la politica comunista nei confronti di Hitler. Per mettere in evidenza i limiti della politica comunista, S. si riferisce agli articoli di Carlo Rosselli Italia e Europa, La guerra che torna. Egli si riconosce pienamente, infatti, in questi scritti del giugno 1933.

Intanto, l’11 novembre 1932 il fratello Veniero è libero grazie a un’amnistia e il fascismo “abbuona” cinque anni di pena anche a S. Egli accetta la richiesta del padre a favore di una nuova revisione del processo e dà indicazioni su come procedere e quali articoli citare. La domanda non è presa in considerazione, ed egli riprende gli studi, dedicandosi a Gioacchino Volpe, Giordano Bruno, Sorel, Bergson ed alle letture sulla questione meridionale. Nel frattempo Veniero parte per Torino, dove è inserito da Tina nell’ambiente culturale di “Giustizia e libertà”, frequentando un gruppo di intellettuali, tra i quali Cesare Pavese, Leone Ginzburg, Bruno Maffi, Renzo Giua, Barbara Allason, Vittorio Foa, Aldo Garosci, Henek Rieser. Quest’ultimo è un polacco trasferitosi in Italia che Tina sposerà alla fine del 1935. Veniero informa Altiero di queste frequentazioni prima di scomparire nella clandestinità. In questi anni S. si interessa all’educazione dei fratelli più piccoli, quindi di pedagogia spiegando il metodo Montessori alla madre (maestra) e ugualmente di psicanalisi. Una nuova amnistia, nel settembre 1934, in seguito alla nascita della figlia del re, permette a S. di avere una riduzione di altri due anni: da scontare restano dunque solo due anni e quattro mesi. Intanto continuano con l’altro fratello, Cerilo, le discussioni interrotte con Venerio sui temi di politica, di filosofia e di cultura. Anche Cerilo conosce il carcere, ma soltanto per un breve periodo, dal 4 gennaio 1936 al 19 febbraio 1937, poiché beneficia anche lui di un’amnistia. S. apprende tardi del matrimonio di Tina, nascosto finora dalla famiglia; egli cerca di dimenticarla presto, avendo sopportato finora ben altre sofferenze. La situazione politica a livello internazionale è in movimento: il 1935 è l’anno del VII congresso comunista a Mosca, della guerra fascista d’Etiopia, delle prime avvisaglie della guerra in Spagna, cui S. pensa di partecipare contando di espatriare clandestinamente dopo la sua liberazione. All’interno del collettivo l’analisi sulla nuova posizione del PCI vede un giudizio negativo e una posizione critica di S. insieme a Terracini, Leo Valiani e Carlo Alpi. S. è un aperto sostenitore di una società socialista, e agli occhi dei compagni appare sempre più come un comunista in crisi. Quando, il 28 gennaio 1937, S. è pronto a uscire dal carcere, in realtà viene deferito per l’assegnazione al confino. Fino all’11 marzo 1937 resta a Regina Coeli, da cui inoltra una serie di ricorsi a Mussolini, tutti disattesi. Poi è imbarcato verso Ponza.

S. è confinato nell’isola di Ponza dal 12 marzo 1937 al 12 luglio 1939. Qui avviene la definitiva espulsione dal PCI. L’opera di formazione avviata da S. in carcere continua anche nell’esperienza del confino. Questa ha spesso generato il contrario di quello che il fascismo si attendeva: non l’annientamento spirituale dell’avversario bensì il suo rafforzamento culturale e la formazione di “quadri” antifascisti preparati e motivati. Il confino, inoltre, offre maggiori nascondigli per il materiale di propaganda e rappresenta un fattore di educazione verso la popolazione locale completamente estranea al dibattito politico. I detenuti si riuniscono in gruppi di cui i principali sono duecento comunisti, trenta anarchici, un piccolo gruppo di giellisti, alcuni ex comunisti e un solo socialista, Sandro Pertini. Tra i compagni di confino S. ritrova Pietro Secchia, Mauro Scoccimarro, Girolamo Li Causi e Umberto Terracini. In aprile S. è sistemato in un alloggio indipendente e riesce così ad appagare il suo crescente bisogno di solitudine. A Ponza il confronto con la dirigenza comunista diventa sempre più aspro e Secchia decide di “affidare” S. a Giorgio Amendola. Quando giunge la notizia dei processi staliniani del 23 gennaio 1937, ai compagni si chiede di approvare le epurazioni volute da Stalin all’interno del partito comunista sovietico. S. ha un atteggiamento molto critico nei confronti della sottomissione pretesa dal partito e della politica dell’URSS nella guerra di Spagna. Rifiuta di fare autocritica come richiesto da Amendola e, in risposta, presenta al comitato direttivo del collettivo comunista un quaderno in cui espone la sua interpretazione della politica staliniana, manifestando un forte dissenso dall’ideologia marxista. Le tesi di S. sono confutate punto per punto e, di conseguenza, su proposta di Giorgio Amendola egli è espulso dal PCI per «deviazione ideologica e presunzione piccolo-borghese» (insieme a lui è allontanato anche Carlo Alpi). Solo Umberto Terracini mantiene un atteggiamento più morbido verso le posizioni espresse da S. All’espulsione segue il bando: S. non è più salutato, è escluso dalle mense gestite dai comunisti, non è più degno di uno sguardo e di una parola, come se fosse una non-persona, «come se al mio posto ci fosse l’aria», scrive, e spiega nel modo seguente la scelta, così dolorosa, di lasciare il PCI: «Mentire con me stesso, rinunziare alla libertà del mio pensiero non è però mai stato scritto nel patto tra l’anima mia ed il comunismo, ed è contro questo scoglio che ora fa naufragio la mia militanza con voi […]. La conclusione cui non posso sottrarmi è che per nulla al mondo vorrei rinunziare alla mia libertà, se l’ho difesa in me stesso contro i muri di pietra e quelli di idee che mi circondano, se per essa ho accettato di distruggere tanta parte di me, devo volerla anche per il mio prossimo. Perciò dopo dieci anni di riflessioni vi lascio e mi accingo a passare nel campo di coloro che non sempre riescono, ma almeno si propongono di limitare il potere, necessario, ma demoniaco dei governi, di metterlo al servizio della comunità, di garantire la libertà dei cittadini». Dopo il bando dal PCI la vita di S. trascorre tra lo studio, il lavoro di traduzione e la sua attività di orologiaio. Tra le letture compiute si segnalano: la Storia d’Italia di Benedetto Croce; la Storia del Risorgimento italiano di Renato Fabietti; la Storia del Risorgimento e dell’unità d’Italia di Cesare Spellanzon e infine, L’Italia in cammino di Gioacchino Volpe. La sua traduzione dell’opera di Eduard Füter, Storia della storiografia moderna è proposta a Laterza, ma la casa editrice rinuncia. Soltanto dopo l’intervento di Croce presso l’editore Ricciardi di Napoli avverrà la pubblicazione nel 1934. In questo periodo S. si sforza di diventare il più possibile indipendente dalla famiglia, in considerazione delle difficoltà economiche che attraversa in quel momento e delle precarie condizioni di salute della madre. Dopo il periodo di prigionia trascorso a Ponza, S. è trasferito a Ventotene.

Il confino sull’isola di Ventotene dura dal 13 luglio 1939 al 18 agosto 1943. Così lo ricorda S.: «Quegli anni in quell’isola sono ancora oggi presenti in me con la pienezza che hanno solo i momenti ed i luoghi nei quali si compie quella misteriosa cosa che i cristiani chiamano l’elezione».

Le condizioni di vita dei prigionieri politici restano molto dure. Il regolamento prevede più appelli giornalieri e una limitata mobilità; in particolare, per i detenuti politici la sorveglianza è a vista: ogni prigioniero speciale, come S., ha una guardia a distanza di pochi passi, per questo chiamata “angelo” dai confinati. I gruppi politici sono più numerosi a Ventotene, si contano 400 comunisti, i cui leader restano Mauro Scoccimarro, Pietro Secchia e Umberto Terracini; gli anarchici; i membri di Giustizia e libertà; alcuni socialisti, tra cui Sandro Pertini, Eugenio Colorni e Alberto Jacometti; mentre tra gli apolitici vi sono i testimoni di Geova, la setta protestante degli studenti biblici, i pentecostali, gli abissini e gli albanesi.

S. soffre l’isolamento dai compagni e nell’estate del 1940 inizia a frequentare Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni. In particolare con Rossi avvia una proficua attività di traduzioni che gli permetterà di guadagnare anche del denaro. Scrive Jacometti nelle sue memorie: «Se l’Italia post-fascista possiederà immediatamente traduzioni di notevoli opere inglesi e tedesche, lo si dovrà all’operosità di costoro durante gli ultimi due anni». A sancire il rapporto di amicizia, nell’ottobre 1942, S. prepara una «nota autobiografica per Rossi dopo le maldicenze fatte presso di lui da varia gente» per difendersi dalle malelingue. Insieme a Colorni, condivide l’amore per il nuoto, per la matematica, per la psicoanalisi. Oltre a riparare orologi insieme a Giuseppe Pianezza (anche lui allontanatosi dal PCI), si dedica anche alle attività agricole, in parte a seguito del suo nuovo incarico di responsabile della mensa federalista, la prima a Ventotene e in tutta la Resistenza europea. Il periodo sull’isola è principalmente legato alla stesura del Manifesto per un’Europa libera ed unita (in seguito noto come Manifesto di Ventotene), riconosciuto come il documento politico fondante del Federalismo europeo. Le idee del testo nascono dalle discussioni tra S., Rossi e Colorni alle quali partecipano altri confinati fra i quali si ricordano Dino Roberto, Giorgio Braccialarghe, Arturo Buleghin, Ursula Hirschmann (moglie di Colorni), nonché i due albanesi Lazar Fundo e Stavo Skendi. Per l’ispirazione e la preparazione del manifesto è preziosa la corrispondenza tra Rossi e Luigi Einaudi (al primo è concesso ricevere posta pur essendo un prigioniero politico “pericoloso”), grazie alla quale giungono sull’isola alcuni scritti dell’economista italiano e dei federalisti inglesi, tra i quali il libro di Lionel Robbins The economic causes of the war (1940), considerato illuminante da S.

Il Manifesto è terminato nel maggio 1941, quando le sorti della guerra sono ancora a favore delle forze nazifasciste. Dopo l’attacco tedesco all’URSS una seconda stesura è preparata nel giugno-agosto, e in questa le critiche all’accordo Molotov-Ribbentrop sono più moderate. Per quanto riguarda i contenuti, la prima edizione stampata (agosto 1943) presenta una struttura quadripartita: il primo capitolo è dedicato alla «crisi della civiltà moderna» generata, secondo gli autori, dalla sovranità assoluta dello Stato nazionale; il secondo e il terzo capitolo contemplano i «compiti del dopoguerra» e, rispettivamente, l’obiettivo dell’«unità europea» intesa come una federazione europea, insieme alla «riforma della società»; infine, nel quarto capitolo si prevede una «situazione rivoluzionaria» con lo scontro tra «vecchie e nuove correnti», tra quanti vogliono mantenere in Europa il vecchio ordine degli Stati nazionali e coloro che si battono per il suo superamento in una riorganizzazione federale del continente europeo. A distanza di anni lo stesso autore individua gli errori e i concetti ancora attuali del Manifesto. Tra gli errori vi sono: l’idea di un partito rivoluzionario, di origine leninista; la convinzione che dopo la guerra si sarebbe creata una crisi rivoluzionaria propizia per la fondazione dello Stato federale europeo; l’assenza di una analisi geopolitica, conseguenza della condizione di reclusione in cui era stato scritto il documento. Riconosce S.: «Più grave era il fatto che non avevamo in alcun modo previsto che gli europei, dopo la fine della guerra, non sarebbero rimasti più padroni di sé nella ricerca del loro avvenire, ma avendo cessato di essere il centro del mondo, sarebbero stati pesantemente condizionati da poteri extraeuropei». Invece, le idee forza del Manifesto sono: l’intuizione che la federazione europea non ha un valore solo ideale e culturale, piuttosto è un obiettivo politico per il quale la generazione attuale deve battersi subito («Non un invito a sognare, ma un invito a operare»); l’idea che la priorità politica dell’idea federale comporti la fondazione del Movimento federalista europeo, un’avanguardia nella società con l’obiettivo di raggiungere l’obiettivo della federazione; la convinzione che la nuova linea di divisione non è più tra destra e sinistra, ma tra le forze dell’innovazione e le forze della conservazione: da una parte, coloro che si battono per la creazione di un nuovo potere (federale) sopranazionale, dall’altra, quanti continuano a credere nell’ordine (diviso) degli Stati nazionali.

La circolazione del Manifesto tra i confinati suscita forti reazioni: la maggioranza esprime contrarietà e scetticismo, pochissimi lo appoggiano apertamente. In quel clima di nuove tensioni, e di vere e proprie scissioni (come sopra indicato nasce la prima mensa federalista), S. prende il nome di battaglia Pantagruel. Durante i colloqui con Rossi e Colorni, come sopra accennato, Altiero conosce la giovane Ursula, al tempo moglie di Eugenio. Ella svolge un ruolo molto importante per diffondere sul continente i primi scritti federalisti, in particolare due saggi: Gli Stati Uniti d’Europa e le varie tendenze politiche e Politica marxista e politica federalista. Questi sono oggetto di un’intensa corrispondenza con Colorni, nel frattempo liberato e rientrato a Roma tra il maggio-giugno del 1943. Caduto Mussolini, il 25 luglio, il governo Badoglio fa crescere tra i confinati le speranze di una immediata liberazione. Tuttavia, detenuti comuni, anarchici e comunisti sono trasferiti in Toscana fino all’agosto 1944. Nei concitati giorni dopo la caduta del duce S. scrive, il 3 agosto, le Tesi federaliste; come in seguito avrà modo di spiegare: «Nate in un momento in cui mi chiedevo se mai sarei uscito vivo dal confino [le Tesi] avevano la concisione di un testamento politico». Infatti, saranno sostanzialmente i testi di riferimento per l’imminente fondazione del Movimento federalista europeo (MFE). Il 18 agosto S. è un uomo libero, e descrive così i suoi sentimenti: «Mi congedai idealmente da tutti i compagni di prigione di tutte le tendenze. L’intima loro fierezza gregaria consisteva nel sapere che ora uno ad uno stavano tutti raggiungendo il loro posto di battaglia nella loro formazione politica, la quale esisteva, era ben nota, li aveva attesi e si accingeva ora ad accoglierli festosamente per la loro fedeltà tenace. La mia solitaria fierezza era di tutt’altra natura, perché nessuna formazione politica esistente mi attendeva, né si preparava a farmi festa, ad accogliermi nelle sue file. Sarei stato io a suscitare dal nulla un movimento nuovo e diverso per una battaglia nuova e diversa – una battaglia che io, ma probabilmente per ora solo io, avevo deciso di considerare, benché ancora inesistente, più importante di quelle in corso in cui andavano ad impegnarsi tutti gli altri. Con me non avevo per ora, oltre me stesso, che un Manifesto, alcune Tesi e tre o quattro amici, i quali attendevano me per sapere se l’azione della quale avevo con loro tanto parlato sarebbe veramente cominciata».

Il 27 e 28 agosto 1943 a Milano, in casa di Mario Alberto Rollier, nasce il MFE. Durante la riunione, tra gli antifascisti presenti, il manifesto è quasi ignorato: come ricorda lo stesso autore, «rimase in soffitta semidimenticato». Solo in una fase successiva è riconosciuto l’«atto di nascita della più coerente azione federalista in Europa». Inizia per S. la diffusione delle idee federaliste nel panorama politico italiano ed europeo.

Gli anni 1943-1945

«Fra il 1943 e il 1945 ho lavorato sull’ipotesi di una rinascita democratica impetuosa che sarebbe partita dall’avvenuta distruzione non solo dell’ordine europeo del passato, ma anche di quello interno di quasi tutti gli Stati-nazione dell’Europa»: così S. scrive sui primi anni di libertà, trascorsi principalmente in Svizzera, in Francia e a Milano per cercare nuovi federalisti.

Seguendo l’esempio di altri antifascisti costretti all’espatrio, anche i federalisti prendono la strada della vicina Svizzera. S. vi arriva il 15 settembre 1943 nelle vicinanze delle Cantine di Mandria. L’ingresso nella confederazione elvetica avviene con l’aiuto di alcuni contrabbandieri e il pagamento di 5000 lire. Alla polizia S. dichiara di essere “studente”, “senza religione” e di essere conosciuto dal consigliere socialista del Cantone Ticino Guglielmo Canevascini e dal fratello di Mario Alberto Rollier, Guido. Durante il breve fermo di polizia, S. fa la conoscenza di Rodolfo Morandi, dirigente del partito socialista, cui farà leggere i suoi scritti federalisti, Politica marxista e politica federalista e Gli Stati Uniti d’Europa e le varie tendenze politiche. Tra i due intercorre uno scambio epistolare che mette in evidenza da una parte le resistenze socialiste al pensiero federalista e dall’altra la differenza tra l’approccio federalista e quello dottrinale socialista sulla questione internazionale, come si è già manifestata a Ventotene con Sandro Pertini. Sono diverse, inoltre, le due concezioni e le rispettive posizioni sul concetto di classe. Morandi rimprovera al federalista di aver abbandonato la nozione di classe che S. considera superata nell’esperienza delle moderne società industriali. Tale polemica coinvolge anche il pensiero di Giustizia e libertà. Così dice S. in una lettera a Ernesto Rossi, datata 15 ottobre 1943: «Credo che di tutta l’impostazione ideologica dei giellisti e dei socialisti ci sia maledettamente poco da utilizzare. Il “giacobinismo” del programma di GL è interessante solo per la formazione mentale dei giellisti del 1933, ed è di una qualità molto superficiale». Tali posizioni finiranno per allontanare S. da Morandi., mentre si aprono spazi per una collaborazione con Ignazio Silone, cui lo lega soprattutto l’atteggiamento critico nei confronti della dirigenza socialista. A Daro di Bellinzona, dove si sistema nell’appartamento di un socialista ticinese, Ursula e Altiero fanno la conoscenza di Teresa e Bruno Caizzi, che saranno in seguito tra gli amici più cari di S., e frequentano poche persone fra cui Ernesto Carletti, l’avvocato Ferdinando Targetti e Gugliemo Canevascini. Attraverso Leo Valiani, S. riesce ad avere notizie sulla sua famiglia, in particolare sul fratello minore, Veniero, il quale attraverso una movimentata militanza, si è arruolato nell’esercito americano con il quale torna in Italia per poi disertare. Grazie all’aiuto finanziario di Veniero, S. può vivere in Svizzera senza il sostegno del comitato di soccorso di Lugano.

Leo Valiani gli offre la possibilità di aderire a una nuova formazione politica, il Partito d’Azione (PdA), che si presenta come la vera novità del panorama antifascista italiano. S. confida questa sua decisione a Ignazio Silone; decisione che è condivisa anche da Rossi. Entrambi vedono aprirsi la possibilità di influire su un partito “nuovo”. «Io ed i miei amici intendevamo mantenere tuttavia al movimento federalista il carattere di movimento al di sopra dei partiti, perché esso pone un problema che è oggi preliminare alla stessa divisione in partiti su scala nazionale. Quantunque i migliori membri del PdA abbiano accettato l’impostazione politica internazionale federalista, essa estende la sua influenza – e ancor più dovrà estenderla per l’avvenire – anche su altri partiti», scrive S. in una lettera a Silone, il 28 novembre 1943. L’azione federalista deve adesso concentrarsi sui seguenti obiettivi: avvicinare al problema federale europeo alcuni elementi progressisti del campo alleato; sensibilizzare le organizzazioni politiche e culturali svizzere; mettersi in contatto con le resistenze di altri paesi, in particolare quella francese. Si crea, così, una vasta rete di contatti fra i fuoriusciti italiani e stranieri che hanno trovato rifugio in Svizzera (in particolare: Luigi Einaudi, il giornalista François Bondy, René Bertholet).

In Italia, il partito socialista attraversa una profonda crisi che poi sfocia nella creazione del Partito socialista italiano di unità proletaria (PSIUP, agosto 1943), cui aderisce anche Colorni, sperando di diffondere l’ideale federalista tra i socialisti. Nella campagna di proselitismo all’idea federalista, S. e Rossi prendono contatto con due movimenti di natura paneuropea: l’Europa-Union di Basilea e il Mouvement populaire suisse en faveur d’une fédération de peuples di Ginevra, ma il loro orientamento culturale risulta troppo moderato per abbracciare l’idea di creare una sorta di “Zimmerwald federalista”, una riunione di rappresentanti dei movimenti di resistenza europea con una forte impronta federalista. Nasce l’idea di Primo progetto di un convegno federalista (19 ottobre 1943). I due movimenti svizzeri portano nuove conoscenze e relazioni, S. entra in contatto con i maquisards francesi in Svizzera. Oltre a organizzare il convegno, S. e Rossi svolgono un’intensa attività politica e di propaganda con le forze politiche italiane in Svizzera e con la resistenza in Italia, soprattutto con il Partito d’Azione, che con la pubblicazione di “Nuovi quaderni di Giustizia e libertà” offre loro l’opportunità di far sentire la voce del federalismo anche al di fuori del PdA. All’interno dell’azione federalista S. si configura sempre più come l’ideatore e Rossi come l’organizzatore. L’attività di propaganda federalista si svolge in particolare all’interno dei campi profughi, dove il controllo svizzero è minore, nonostante il divieto di svolgere attività politica da parte degli internati. Della sua efficacia ne è prova l’adesione di Luciano Bolis (futuro dirigente federalista e a lungo vicesegretario di S.). Una delle maggiori preoccupazioni di S. e Rossi è quella di far giungere materiale propagandistico in Italia. Questo è costituito da materiale fotografico (fotogrammi di documenti, articoli, materiale di propaganda), che viene portato clandestinamente in Italia e lì sviluppato. Per questa loro intensa attività essi diventano il punto di riferimento per l’Italia del nord del PdA per il coordinamento degli antifascisti che rientrano in Italia.

S. è sollecitato dal PdA attraverso Leo Valiani, così pure dal gruppo di federalisti di Milano (Cerilo Spinelli e Mario Alberto Rollier) a rientrare in Italia per continuare a svolgere la sua attività politica, ma S., rispondendo negativamente, motiva così la sua decisone in una lettera a Mario A. Rollier, nel febbraio 1944: «Sono d’accordo sull’importanza del lavoro da fare in Italia. Tuttavia c’è anche qui molto ed importante lavoro da fare di cui vorrei vi rendeste conto e che non bisogna alla leggera gettare al vento». È di questo periodo Il problema politico italiano, redatto da S. tra il dicembre 1943 e il gennaio 1944, dove vengono presentati problemi italiani in chiave federalista. La situazione politica italiana e la propaganda federalista sono i temi su cui si focalizza la riflessione, l’azione e la produzione di S. Di particolare interesse teorico, più che pragmatico sono le riunioni che si tengono dal febbraio al luglio 1944 nella casa ginevrina del pastore protestante olandese Visser ’t Hooft. S. prepara i documenti e il materiale su cui discutere, come il Progetto di dichiarazione federalista (gennaio 1944) e successivamente la prima bozza della Déclaration des mouvements de Résistance et de libération Européens, presentata alla prima riunione assembleare federalista in casa di Visser ’t Hooft il 31 marzo 1944.

Agli inizi di giugno, S. incontra la delegazione in Svizzera del Comitato di liberazione nazionale per l’Alta Italia (CLNAI), con i rappresentanti dei cinque partiti del comitato di Milano. L’intenzione di S. è di allargare il ristretto cenacolo politico federalista per preparare una forma mentis federalista nel maggior numero possibile di partiti. Su come diffondere il documento finale uscito dalle riunioni ginevrine si evidenziano due tendenze: S. vorrebbe una pubblicazione in opuscolo, in lingua francese, dei documenti principali del convegno (la Dichiarazione federalista internazionale e la lettera di accompagnamento); Rossi, invece, propende per fare un numero speciale del foglio del Movimento federalista europeo in Italia, “L’Unità europea”. Il compromesso è trovato nel pubblicare documenti di Ginevra nel n. 5 de “L’Unità europea” (in francese nell’edizione stampata in svizzera a cura di Rossi e in italiano in quella stampata a Milano da Rollier); esce anche la rivista in francese auspicata da S. e, in seguito, la dichiarazione è pubblicata anche nel volume, edito dal Centre d’Action pour la Fédération Européenne, L’Europe de demain (Editions de la Baconnière, Neuchâtel 1945), quando ormai S. è tornato in Italia delegando a Rossi tutto il lavoro federalista in Svizzera. Tuttavia, il compromesso non colma le divergenze fra i due. Il dissidio si evidenzia in due lettere, quella di S. a Rossi del 14 agosto 1944 e la risposta di Rossi del 16 agosto. S. rivendica come suo il lavoro di Ginevra: i contatti, la redazione della dichiarazione e dei documenti; ma tutto viene contestato nella risposta di Rossi. Questi, però, mette in evidenza che la missione in Svizzera per S. è terminata in un sostanziale fallimento. Secondo Rossi, invece, vi sono ancora spazi per continuare nella direzione di orientare le forze politiche svizzere e, tramite loro, i dirigenti alleati. La mancata adesione socialista al progetto di aggregazione federalista di Ginevra, l’amarezza per la polemica con Rossi e la morte di Colorni, ferito a morte dai fascisti a Roma il 28 maggio 1943, spingono S. ad accelerare il suo rientro in Italia. Così il 24 settembre 1944 passa da solo la frontiera e giunge a Milano.

L’idea di preparare un documento programmatico e ideologico sulla questione “Nord-Sud”, voluto dal gruppo dirigente milanese Valiani-Lombardi-Foa, si realizza nella bozza dei Piani di lavoro, la cui stesura è in un primo tempo affidata a S., nella quale questi inserisce molti contenuti del Manifesto. Tuttavia sul tema cruciale del «trasferimento degli attributi della sovranità concernenti la difesa territoriale, i rapporti diplomatici con le potenze esterne alla federazione, la politica monetaria e doganale, le comunicazioni internazionali, l’amministrazione dei territori ancora incapaci di autogoverno» alla federazione europea, S. incontra resistenze, obiezioni e forti critiche. Le argomentazioni contenute nel Piano di lavoro sono poi riprese nella Lettera aperta del Pd’A a tutti i partiti aderenti al Clnai del 20 novembre 1944, con la quale si chiude una fase e si delinea il contributo apportato dal federalista S. all’elaborazione di una politica internazionale – nonché interna – per il PdA dell’Italia settentrionale.

Alla fine del dicembre 1944, S. riceve una lettera di invito, firmata da André Malraux, André Ferrat, Jacques Baumel e Pascal Pia, con la quale si convoca una “conferenza federalista” nella capitale francese. S. intende parteciparvi come federalista invece che “azionista”. Il 21 dicembre 1944 passa il confine, ma è di nuovo arrestato per due motivi: essendo rientrato in Italia dalla Svizzera lasciando la qualifica di profugo politico, la Svizzera non concede un nuovo diritto di asilo; inoltre il CNL milanese ha dimenticato di inserirlo nella lista degli incaricati di missioni ufficiali. Dopo vari trasferimenti e grazie all’intervento dell’amico Bertholet, S. viene rilasciato e può raggiungere Ursula a Zurigo. Durante questa permanenza svizzera, S. sposa Ursula il 19 gennaio 1945. Il viaggio in Francia dura quattro mesi, durante il quale egli ha modo di percepire una maggiore, seppur generica, sensibilità federalista e di incontrare eminenti personalità politiche ed intellettuali. Il 18 marzo del 1945 S. indirizza una lettera ad Albert Camus, tra gli organizzatori della conferenza parigina. In essa egli presenta una sintesi dell’idea federalista; preme affinché la questione della federazione europea venga messa in agenda nelle Assemblee costituenti dei paesi europei; auspica di trovare uomini nuovi per concretizzare l’idea federalista in un progetto politico e inserirla nel dibattito culturale e programmatico delle forze politiche antifasciste. Il programma della conferenza, che si tiene a Parigi dal 22 al 24 marzo 1945, prevede i seguenti interventi: un rapporto generale; un rapporto sulla politica dei movimenti democratici in vista della Federazione europea (preparato da S. per il relatore Antonelli); il problema economico dell’Europa federale; il problema tedesco; un rapporto sul problema coloniale. Durante la conferenza emergono due tendenze: da una parte i mondialisti, convinti che per l’Europa è ipotizzabile solo una prospettiva di un governo federale mondiale delle Nazioni Unite; dall’altra i “realisti”, che considerano più opportuno e più fattibile il sorgere di istituzioni monetarie, economiche, federazioni parziali in vista di una successiva più profonda unione. Il principio della sovranità dello Stato non è superato e resta alla base della tesi “realista”. Nelle discussioni e prese di posizione della riunione c’è l’emarginazione del concetto di “federazione europea”, per questo S. afferma «rien appris, rien oublié».

Dopo Parigi, ritorna a Milano nel maggio del 1945 e riprende il suo posto nella segreteria del PdA Alta Italia. Il panorama italiano del federalismo non si presenta migliore di quello francese e internazionale in generale. Con la morte di Colorni e Ginzburg è venuto a mancare qualsiasi riferimento per i giovani socialisti autonomisti vicini alle idee federaliste e anche la svolta spinelliana, con la rinuncia a una azione federalista rivoluzionaria, ha indebolito molto il cuore del movimento. È sempre S. a dare una svolta al movimento pubblicando l’articolo Bilancio su “L’Unità europea”, n. 12, del 17 giugno 1945, in cui auspica un’attività di «dissodamento della coscienza politica moderna tutta irrigidita dalle tradizioni nazionalistiche, in modo da abituarla a comprendere gli avvenimenti ed a costruire su di essi con una visione federalista». Alla fine della guerra, nell’animo di S. prevale una forte delusione nata dalla constatazione che in un’Europa divisa in due blocchi l’azione federalista rischia di divenire vana e inefficace.

Gli anni 1947-1954

«Fra il 1947 e il 1954 ho lavorato sull’ipotesi che i grandi ministri moderati europei, incoraggiati dallo spirito missionario democratico che allora animava la politica estera americana, ed impauriti da quanto stava avvenendo in Europa orientale, ci avrebbero ascoltati e si sarebbero accinti alla costruzione federale». Così S. descrive nelle sue memorie questo periodo.

Dopo la Liberazione si assiste in Italia a un fiorire di associazioni europeiste la cui attività si interseca con la biografia spinelliana. Questo fenomeno sembra contrastare con la decisione di S. e di Rossi di abbandonare l’attività federalista (per ragioni sia politiche che personali). Questo tuttavia non impedisce a S. di seguire l’attività delle nascenti associazioni. L’Associazione federalisti europei (AFE) di Firenze vede la partecipazione di personaggi quali Piero Calamandrei, Giacomo Devoto, Enzo Enriques Agnoletti. L’AFE ha il merito di creato creare il nucleo costitutivo di un’organizzazione federalista in Toscana e in Emilia Romagna. Legata al federalismo mazziniano, si distingue per questo dal MFE di stampo più anglosassone. Seppure con diverse ideologie di riferimento, le due realtà confluiranno in un unico movimento. Questo avvicinamento si trasforma in fusione nella riunione congiunta tra AFE ed MFE a Milano (9-10 settembre 1945); in tale occasione, però, si evidenzia il conflitto fra S. e Umberto Campagnolo, appena entrato nel movimento. Il convegno serve a S. per precisare la sua nuova strategia federalista, alla luce della situazione internazionale e del bilancio dell’attività federalista precedente: non più proselitismo fra le masse, retaggio di una vecchia concezione di partito, ma la fondazione di un centro studi, un “movimento di pensiero federalista”. Contrario alla relazione di S. si dichiara Campagnolo, per il quale, invece, la situazione è molto favorevole a una vasta diffusione delle idee rivoluzionarie federaliste. Delle tre mozioni presentate al congresso, prevale la posizione di compromesso di Aldo Garosci, che si pone a metà tra azione di studio e azione di massa. L’esito del congresso conferma in S. la sua decisione di lasciare il MFE; nella lettera di dimissioni, fatta pervenire alla conferenza organizzativa del movimento a Firenze (8 e 9 gennaio 1946), i fondatori del pensiero federalista, S. ed Ernesto Rossi, ribadiscono di considerare il federalismo un’idea guida per la riflessione teorica, senza spazi di intervento pratico. Privato del sostegno finanziario del fratello Veniero e del PdA, S. viene aiutato da Rossi, nominato il 20 dicembre 1945 presidente dell’Azienda rilievo alienazione residuati (ARAR) e già sottosegretario del ministero della Ricostruzione nel governo di Ferruccio Parri. S. prende servizio come fiduciario dell’ARAR con lettera di incarico del 6 giugno 1946, e ben presto diventa direttore della sede di Venezia, posto che mantiene fino al giugno del 1947.

S. continua però a tenere contatti con la politica: aderisce al nuovo Movimento per la democrazia repubblicana (MDR), nato dalla scissione di Parri e Ugo La Malfa dal PdA, per il quale si candida nella circoscrizione Roma-Viterbo-Latina, ma non viene eletto. Con le elezioni del 2 giugno si delinea, invece, una predominanza della Democrazia cristiana (DC, 35,2% dei voti), del blocco PSIUP-PCI (rispettivamente il 20,7 e il 19% dei voti), mentre il PdA riesce a mantenere solo pochi deputati. Per il MDR scrive documenti programmatici e di politica internazionale. Quando sulla scena politica italiana si affaccia il Partito socialista dei lavoratori italiani (PSLI) di Giuseppe Saragat, S. lo vede come una “terza forza”, una forza politica socialista democratica, di stampo occidentale vicina al socialismo anglosassone, da contrapporsi ai moderati di Alcide De Gasperi e ai comunisti di Togliatti. Altiero aveva incontrato Saragat poche volte, ma i suoi rapporti erano stati meno conflittuali di quelli avuti con Pietro Nenni. Per S. si aprono nuove prospettive politiche che lo costringono a scegliere tra la carriera manageriale e la militanza politica: lascia l’ARAR nel marzo 1948. Il 5-6-7 ottobre 1946 si tiene a Venezia il I congresso nazionale del MFE senza la presenza di Rossi e S. Tuttavia, Campagnolo cerca di cancellare l’eredità storica del MFE, portando di nuovo a una spaccatura fra MFE e AFE. Il congresso si chiude così con la nomina di un comitato direttivo e di una giunta esecutiva dai quali vengono eliminati tutti i principali rappresentanti sia del MFE “storico” (Rollier e Giussani) che dell’AFE (Devoto).

S. si disinteressa del dibattito all’interno del movimento, ma non abbandona l’attività di studio: nel giugno 1946 pubblica l’articolo Aurora o crepuscolo della democrazia, nel quale esprime la sua analisi del momento internazionale. Egli intravede due vie possibili: un contesto di Stati dotati di poteri illimitati verso i cittadini o uno scenario di Stati con poteri, estesi e diversi da quelli del secolo passato, ma limitati. S., che individua negli Stati Uniti la potenza internazionale in grado di gestire in modo diverso la ricostruzione internazionale, riafferma il principio che bisogna “partire da occidente”, avendo come punto di riferimento non più l’URSS come nel 1944, ma gli USA. In Europa, nel frattempo, si assiste al sorgere di diverse forme di Adesione all’ideale di unificazione europea: un esempio è l’Unione parlamentare europea (UPE) nata nel luglio del 1947. Iniziare da Occidente o, in alternativa, includere anche gli Stati del blocco sovietico nella prospettiva della federazione europea diventa uno dei temi di discussione nel I congresso dell’Unione europea dei federalisti (UEF) che si tiene a Montreux nell’agosto del 1947 cui partecipa anche il MFE. È in questa sede che S. riafferma la scelta di escludere l’Est europeo dal progetto federativo e avanza l’ipotesi di convocare un’Assemblea costituente europea per far sorgere il federalismo nella parte occidentale dell’Europa. Accanto a questa tendenza costituzionalista si inserisce quella “internista”, che vede il federalismo come l’unico modo per organizzare gli Stati e l’insieme delle relazioni politiche. Sarà quest’ultima proposta a imporsi a Montreux.

Chiuse le possibilità di azione a livello europeo, almeno per il momento, in S. rinasce l’interesse per il MFE italiano. Il 16 novembre 1947 si svolge a Ivrea il II congresso regionale. S. vi partecipa insieme a Ursula, sostenendo la linea “cominciare da Occidente”. Pur mantenendo spunti contro il Piano Marshall, la componente filocomunista risulta in minoranza. Si avverte un clima di cambiamento all’interno del MFE, che si rafforza nel II congresso nazionale del movimento a Milano, il 15 febbraio 1948, cui partecipano anche Rossi e S. Qui emergono due posizioni: la prima (S.-Rossi, Rollier) considera il Piano Marshall un motore di integrazione europea; la seconda (Gorra-Cecconi, Umberto Campagnolo) non abbandona l’idea di una possibile fase rivoluzionaria che avrebbe riunificato l’Europa. Si vota su due mozioni: la “mozione unificata” e la “mozione Gorra-Cecconi”; durante il congresso, S. sta in disparte e come concordato è Rossi a prendere la parola. Passa la mozione unificata con larga maggioranza, sostenuta da S. Fra i membri del consiglio direttivo nazionale risulta eletto Rossi, membro anche della giunta esecutiva, mentre risulta vacante il posto di segretario generale. Questo resta da assegnare fino al 6 giugno 1948: grazie a un intenso lavoro di Rossi, S. è eletto segretario con una vittoria di misura sull’altro candidato Aldo Moranti. La nomina di S. segna non solo il suo rientro nel MFE, ma coincide anche con l’inizio di una nuova fase costruttiva dell’Europa. Qualche mese prima, il 18 aprile 1948, si sono svolte le elezioni politiche, e in quella circostanza il gruppo dirigente del MFE ha approvato il testo della Lettera-appello da inviare a tutti i candidati indistintamente dal “loro colore” fatta eccezione per quelli del Movimento sociale italiano (MSI), dei partiti monarchici e del Movimento sociale italiano-Destra nazionale (MSDN), nella quale si ribadiva l’impegno di mantenere neutrale il movimento rispetto a qualsiasi partito e di votare per coloro che effettivamente fossero disposti a operare per l’unità federale dell’Europa.

Tra la fine del 1947 e i primi mesi del 1948 si assiste a un deterioramento della situazione internazionale, che vede il suo apice nel blocco imposto dai sovietici alle comunicazioni via terra tra la parte occidentale dell’ex capitale tedesca e le zone occupate dagli Alleati nella Germania occidentale. Ma segnali di cambiamento verso un’integrazione settoriale tra i paesi europei arrivano sia dal progetto di Unione doganale italo-francese, varato nel settembre 1947, sia e soprattutto dal Congresso dell’Aia, dal 7 al 10 maggio 1948 che rappresenta, seppur come ala moderata, la continuazione del Congresso di Montreux (UFE, Unione dei federalisti europei). A esso partecipa anche S. insieme alla delegazione italiana con nomi di prestigio. Si decide di proporre la creazione di un Consiglio d’Europa, con un comitato di ministri e un’Assemblea consultiva europea, di fatto organi senza potere. I risultati sono deludenti e S. esprime le sue critiche in un articolo Poca Europa a Strasburgo, apparso su “Il Mondo”, il 13 agosto 1949. Egli argomenta come di fatto la sovranità degli Stati membri del Consiglio d’Europa non fosse intaccata. Tesi che è confermata anche durante il III congresso del MFE, tenutosi a Firenze dal 23 al 25 aprile 1949. Il functional approach è per S. il principale nemico dell’unificazione europea; per questo bisogna mobilitare i federalisti italiani ed europei sulla creazione di un Patto federale europeo, affinché il federalismo entri nel programma dei partiti di governo, cioè negli organi in cui si seleziona la classe politica. Insieme alla proposta di un Patto federale europeo si chiude il primo anno di segreteria di S., con un bilancio positivo: maggiore visibilità sulla scena politica italiana, organizzazione consolidata, grande produzione di pubblicazioni, opuscoli e articoli. Non mancano le critiche relative soprattutto al ruolo di opposizione che il MFE ha nei confronti del governo. Emergono due posizioni: una attendista (Salvatorelli), che vuole evitare lo scontro con il governo; l’altra (S.) che rivendica, invece, la libertà di criticare. Nel dibattito interviene La Malfa, che vede nei federalisti una forza che sospinge i governi e non li critica. S. ribadisce per contro il dovere dei federalisti di essere critici sull’operato dei governi europei, e in particolare di quello italiano. Il dibattito non è solo interno al MFE, ma ha un attento osservatore in De Gasperi, che vuole promuovere l’organizzazione di un movimento europeista di ispirazione cattolica, poiché la sua visione europeista ha le sue basi nell’universalismo cristiano.

Si fanno i primi passi verso l’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), di fronte alla necessità di eliminare i conflitti fra Francia e Germania. Il segnale di una rinnovata volontà a favore dell’unità europea giunge dal ministro degli Esteri francese, Robert Schuman (Dichiarazione Schuman). Questi, il 9 maggio 1950, presenta un’iniziativa che, mettendo in comune interessi economici concreti, ha l’obiettivo politico di una federazione al fine di mantenere la pace in Europa (v. Piano Schuman). La proposta, ispirata da Jean Monnet, prevede la creazione di un’autorità sopranazionale che controlli la produzione del carbone e dell’acciaio. In questo modo nasce la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), il 18 aprile 1951, alla quale aderiscono sei paesi (Francia, Germania, Italia, Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi). È la prima delle Comunità europee, all’origine dell’attuale Unione europea. Con un articolo dal titolo significativo Dal carbone all’Europa, pubblicato ne “Il Mondo” del 1° luglio 1950, S., pur accogliendo con favore l’iniziativa di Monnet, continua a dichiararsi perplesso di fronte al metodo funzionalista (v. Funzionalismo), anche se, a differenza di comunisti e socialisti, il MFE difende l’operato del governo italiano. È questo per S. un periodo di intensa attività pubblicistica sui temi federalisti, ma soprattutto riguardanti il dibattito interno alla politica italiana. Egli si mostra molto polemico con la dirigenza comunista e socialista; a Pertini, che lo indica come esempio di anticomunismo, risponde con una lettera al direttore de “L’Italia socialista”, Aldo Garosci, dal titolo molto esplicito: Consigli ai Babbi della sinistra (6 luglio 1948). Alla base della polemica ci sono i vecchi conflitti del confino, e dovranno passare molti anni prima che il futuro Presidente della Repubblica italiana riconosca a S. la sua lungimiranza e ponga fine agli antichi rancori. La posizione politica di S. è precisa: egli rivendica un’autonomia ideologica del federalismo nei confronti di tutta la sinistra italiana. Il socialismo di S. è di tipo keynesiano; egli è per la laicità dello Stato, per un’economia che garantisca pari opportunità per tutti come postulato dalla parte “sociale” del Manifesto di Ventotene. Ed è nel I Congresso per la libertà della cultura, nel giugno 1950 a Berlino, che S., in forte polemica con lo scrittore Arthur Koestler, tra i principali promotori del Congresso, sostiene che la libertà culturale e la lotta contro il comunismo non devono impedire di criticare i sistemi democratici e la loro organizzazione.

In questo periodo scoppia la guerra di Corea; alla proposta americana di formare una forza di difesa integrata composta da vari contingenti nazionali e con la partecipazione di unità tedesche, la Francia risponde con il Piano Pleven, che prevede la formazione di un “esercito europeo” e un ministero della Difesa europeo: è la concezione della Comunità europea di difesa (CED). S. non si associa all’accoglienza favorevole da parte del governo italiano, ribadendo la necessità di limitare la sovranità dei paesi che parteciperanno all’esercito europeo e sottolineando che il meccanismo di difesa integrato europeo non può prescindere da un’organizzazione federale. In questo periodo di grandi tensioni internazionali, uno spiraglio viene dalla chiusura della campagna per il Patto federale europeo, che avviene con una grande manifestazione al teatro Sistina e vede la partecipazione di Luigi Einaudi, ma l’assenza di Saragat e Silone. La soddisfazione di S. è di poter apporre la sua firma dopo quella del presidente del consiglio De Gasperi. Tra il 17 e il 19 novembre 1950 si tiene a Strasburgo il III Congresso dell’Unione europea dei federalisti: viene accettata l’impostazione della propaganda data da S. verso un patto federale europeo e la Costituente europea; nell’aprile del 1951 si tiene a Lugano una conferenza di federalisti per studiare le forme di attuazione di una campagna a favore della Costituente europea, di cui S. è relatore. La campagna per la Costituente ha una significativa influenza sui governanti europei e in particolare su De Gasperi, sicché quando il 15 febbraio 1951 si apre a Parigi la conferenza per l’organizzazione dell’esercito europeo, i federalisti svolgono un’azione di pressione e di propaganda. Infatti, il Memorandum relatif à la constitution de l’autorité politique européenne à la quelle l’armée européenne doit appartenir, preparato da S., non solo riscuote un certo interesse fra i rappresentanti europei, ma costituisce anche per De Gasperi una base su cui formulare la sua proposta durante la riunione dei sei ministri degli Esteri, l’11 dicembre 1951: l’inserimento dell’art. 38 attribuisce all’Assemblea prevista dal Trattato CED un esplicito mandato costituente. De Gasperi chiede, insieme all’esercito europeo, un governo europeo con un parlamento europeo e un’imposta federale europea quali condizioni per il funzionamento della struttura militare. Quando cominciano i lavori dell’Assemblea ad hoc, nome meno impegnativo di Assemblea costituente, col compito di elaborare un progetto di unione “federale o confederale”, il MFE e S. forniscono materiale informativo; nel marzo 1952, S. è l’animatore di un Comitato giuridico per la Costituzione europea all’interno del Movimento europeo, con una intensa produzione di documenti. Il Congresso del MFE che si tiene a Torino alla fine del 1952 lo riconferma ancora segretario. La morte di Stalin (marzo 1953) frena il processo di ratifica della CED e la successiva conferenza di Berlino, voluta da Winston Churchill, non apre gli orizzonti; nell’articolo La coalizione antieuropea pubblicato ne “Il Mondo” del 20 aprile 1954, S. descrive le difficoltà che la CED incontra nella fase di ratifica in Italia, ma soprattutto in Francia, mentre in un articolo successivo individua il fallimento della CED nella riaggregazione delle forze contrarie alla cessione delle sovranità nazionali: «Poiché pensare che si possa, nel quadro degli Stati nazionali, avere ancora una garanzia qualsiasi di libertà, di benessere, di pace, questa è veramente un’utopia, è la ricerca di un fine assurdo e irrealizzabile».

Gli anni 1954-1961

«Fra il 1954 e il 1961 ho lavorato sull’ipotesi che fosse possibile mobilitare l’europeismo, ormai diffuso, in una protesta popolare crescente – il Congresso del popolo europeo – diretta contro la legittimità stessa degli Stati nazionali», scrive Altiero nei suoi diari.

Il fallimento della CED rappresenta una dura sconfitta per i federalisti, non mitigata dalla proposta del Regno Unito di dare vita all’Unione dell’Europa occidentale (UEO), che si presenta più come un patto di alleanza che un progetto di forza armata europea come era la CED. A questa amarezza si aggiunge la scomparsa di Alcide De Gasperi: per S. si acuisce la difficoltà di poter contare sull’europeismo dei governi, almeno su quello italiano. Egli capisce che si rende necessario un cambio di strategia e quindi sceglie di abbandonare l’azione federalista all’interno dei governi nazionali per un’azione “popolare” e pensa a un Congresso del popolo europeo sul modello del Partito del Congresso di Gandhi, allo scopo di fare pressione sui paesi membri della CECA e creare un’Assemblea costituente. «È ai popoli democratici di Europa, riconosciuti come fonte prima del potere dei governi e dei parlamenti nazionali che bisogna chiedere e ottenere che sia data la parola», scrive nell’articolo Una falsa Europa, pubblicato su “Il Mondo” il 12 ottobre 1954. Inizia per lui una nuova fase, parallela a una ripresa dell’europeismo d’ispirazione funzionalista. Infatti, Jean Monnet, non più presidente dell’Alta autorità della Ceca, studia le forme e i possibili settori del proseguimento dell’integrazione europea: Monnet suggerisce al ministro degli Esteri belga Paul-Henri Charles Spaak di lavorare su una gestione in comune delle risorse nucleari dei sei paesi della CECA. Il governo belga e il Benelux cercano nuove forme di collaborazione nel campo delle energie tradizionali, in particolare di quelle agricole. Questa proposta sarà la base di discussione della Conferenza di Messina (1-3 giugno 1955).

In una lettera inviata al ministro belga da S., in qualità di leader dei federalisti europei, egli mette in evidenza ancora una volta i limiti di un sistema fondato sulla nascita di un mercato comune senza intaccare il principio delle sovranità nazionali. Secondo i federalisti, il mercato comune deve nascere non sugli accordi fra Stati sovrani, ma attraverso un’assemblea costituente legittimata a creare la costituzione degli Stati Uniti d’Europa. In questa nuova fase S. riscrive il Manifesto dei federalisti europei (1956), aggiornando quello di Ventotene, ma ribadendo il principio del federalismo come idea politica autonoma. Nella lettera di accompagnamento inviata a varie personalità, S. mette in evidenza le differenze con il Manifesto di Ventotene: viene dato maggiore spazio al Congresso del popolo europeo, unica via verso la Costituente europea. L’obiettivo è di affermare che la volontà del popolo europeo è sovrana, e a tal fine si propone di organizzare vere e proprie “elezioni primarie” dei deputati del popolo europeo. La campagna del Congresso del Popolo europeo si svolge in alcune città e, sul modello del Congresso del Popolo indiano, prevede di eleggere dei candidati indicati dal movimento federalista. La crisi del canale di Suez, scatenata dalla sua nazionalizzazione da parte di Nasser (26 luglio 1956), vede il ritiro del Regno Unito e della Francia. In particolare, per Parigi è necessaria una nuova iniziativa utile a recuperare prestigio: c’è, quindi, un atteggiamento meno rigido e arroccato su posizioni di protezionismo nazionale nei confronti dell’Europa. Si preparano rapidamente due Trattati, di assoluta novità nel panorama politico internazionale: la Comunità economica europea (CEE) e la Comunità europea per l’energia atomica (CEEA o Euratom) che sono firmati a Roma, il 25 marzo 1957, con l’assenza della Gran Bretagna (v. Trattati di Roma). Dopo il “carbone europeo” previsto dalla CECA, in seguito alle due nuove comunità nascono l’atomo europeo e il mercato comune: il primo ispirato da Jean Monnet, mentre il secondo dall’iniziativa del Benelux.

Tuttavia, per S. e per i federalisti l’Europa federale non è ancora nata, anzi la nascita della CEE e dell’Euratom è denunciata come la «beffa del mercato comune». Forte della convinzione che la strada per la vera Europa politica debba passare attraverso la sovranità popolare, come afferma il Manifesto dei federalisti europei, S. partecipa al comitato organizzativo del Congresso del popolo europeo che si riunisce a Stresa (agosto 1956); se S. ha dalla sua parte tutto il MFE, altrettanto non si può dire dell’UEF, dal cui Bureau exécutif ha dato le dimissioni. Il congresso di Stresa serve a rilanciare anche emotivamente l’azione federalista. Si tengono le prime “elezioni primarie” in Francia, Germania e Belgio; mentre in Italia i votanti andranno aumentando dalle prime elezioni “private” del 1957 in poi. Una maggiore visibilità dell’azione facilita i finanziamenti per lo svolgimento delle elezioni, per le quali i principali contributi provengono dalle società Olivetti e Montecatini. In Italia, il risultato principale di questa azione di pressione è la presentazione alla Camera dei deputati (febbraio 1961) della “mozione Ferrarotti”, dal nome del primo firmatario, deputato del movimento di Comunità, Franco Ferrarotti, strettamente legato alla attività politico e culturale della Olivetti (v. anche Olivetti, Adriano).

In questo periodo si assiste alla riorganizzazione dei movimenti federalisti: l’UEF nel giugno 1959 diventa MFE sopranazionale. L’MFE italiano diventerà la commissione italiana del MFE sopranazionale. In questo frangente S. cede la segreteria per un paio d’anni (1959-1961) al vicesegretario, Luciano Bolis, per poi riprenderla dal 1961 al 1962. S. valuta l’ipotesi di fare del MFE una forza politica autonoma, entrando in dissidio con Mario Albertini sulla concezione della natura e dell’azione del movimento. Secondo Albertini, il movimento deve restare autonomo, indipendente, senza prendere una posizione apertamente in appoggio a una forza politica, mentre per S. esso deve prendere atto che vi è una parte politica più incline alle idealità federaliste e questa parte il movimento deve scegliere come interlocutrice.

Tuttavia Albertini riesce, dopo il congresso di Lione del 1961, a riunire una crescente opposizione alla leadership di S. che viene messo in minoranza nel movimento, attuando una vera e propria campagna di “de-spinellizzazione”. Il desiderio di S. di ancorare il MFE nel quadro politico italiano ed europeo è anche motivato dall’emorragia di iscritti, che dalle 50.000 unità del 1954 passano a soli 2000 nel 1963, con la conseguente perdita di capacità di influenza e di presenza del movimento sulla scena politica.

Gli anni 1961-1970

«Fra il 1961 e il 1970, ritirandomi quasi completamente dall’azione politica, ho meditato sul significato della Comunità economica europea, sugli aspetti nuovi della difesa militare introdotti dall’arma nucleare, sulla possibilità di un rilancio dell’azione federalista». Così è presentato questo periodo dallo stesso autore.

Nella biografia un capitolo a parte occupa la sua collaborazione con la casa editrice il Mulino di Bologna. S. ha già pubblicato con loro alcuni saggi apparsi in un volume collettivo, ma la prima proposta editoriale risale al giugno 1959, in merito alla pubblicazione di un volume di scritti che è il seguito di Dagli Stati sovrani agli Stati Uniti d’Europa, edito a Firenze nel 1950 dalla Nuova Italia con la prefazione di Aldo Garosci. Inizia così una collaborazione che si interromperà solo con la scomparsa dell’autore nel 1986. La proposta di S. coincide con una nuova impostazione della casa editrice sorta dalla fortunata esperienza della rivista, “il Mulino, mensile di attualità e cultura”, e più tardi, “rivista di cultura e politica”. S. entra nella redazione della rivista, attività che lo assorbirà molto, perché a lui è affidata la responsabilità della sezione di politica internazionale. A S. questo incarico permette di allargare gli orizzonti dei suoi interessi politici e soprattutto di entrare in contatto con i protagonisti della vita politica e culturale americana, attraverso le conoscenze di Fabio Luca Cavazza, che gli procura in seguito un insegnamento sul funzionamento delle istituzioni europee presso l’Università Johns Hopkins, posto che mantiene fino al 1965. Il primo articolo a firma di S., Victor B. Sullam e Giorgio Galli, La Nuova Frontiera in America, in Europa e in Italia, analizza la complessità dei rapporti fra Europa e USA, ripropone il problema dell’unificazione europea alla luce dei nuovi scenari internazionali e propone la federazione europea come un vasto progetto di democrazia. La rivista organizza a Bologna dal 22 al 24 aprile 1961 il convegno di studi “La politica internazionale degli Stati Uniti e le responsabilità dell’Europa”. S. cura la parte scientifica, invitando importanti personalità, esperti di politica ed economia di fama internazionale. Il convegno ha un ampio respiro culturale e serve soprattutto a tessere rapporti fra gli ambienti progressisti statunitensi ed italiani. Il convegno lancia a opera di Giorgio La Malfa e Arthur Schlesinger l’idea di dare vita a una convenzione mondiale per la libertà e la democrazia.

Nel suo memorandum The idea of Democratic Revolution, che prepara per il suo viaggio negli USA (11 giugno 1961), S. analizza la democrazia come metodo di organizzazione sociale e politica nel XX secolo. Come scrive in una lettera a Sullam del 12 giugno 1961: «Gli scopi sono due: a) lo sviluppo del progetto di una World convention for democratic action (progetto nato dal congresso di Bologna del Mulino), b) la creazione di public relations del Movimento federalista europeo con uomini della nuova amministrazione o vicini ad essa e influenti presso di essa». Durante il suo soggiorno americano S. lavora sull’idea della convenzione mondiale per la libertà e la democrazia, in stretta collaborazione con il consigliere di John. F. Kennedy, Arthur M. Schlesinger. Una nota preparata da Dana Durand, Freedom and Democracy. A Declaration of Principles, sulla base di un documento corrispondente opera di S., costituisce la base organizzativa del gruppo di lavoro euro-americano che si riunisce a Parigi dando vita all’International study group on freedom and democracy (ISG). S. ha un ruolo molto attivo sul piano dell’organizzazione di una iniziativa che è fortemente finanziata anche dalla Central intelligence agency (CIA); tuttavia l’ISG non ha vita lunga, a causa sia della faraonica organizzazione prevista sia per le crescenti difficoltà finanziarie e la scomparsa del principale referente politico, Kennedy.

In questo periodo la costruzione dell’integrazione europea procede a fatica. La figura politica dominante è il generale Charles de Gaulle, che attraverso il Piano Fouchet tenta di imporre una configurazione di tipo confederale all’Europa. Il Piano Fouchet è presentato quando nel Parlamento italiano è in discussione la mozione Ferrarotti con la quale i federalisti fanno pressione sul governo affinché si adoperi per richiedere la convocazione di un’assemblea costituente europea. Tuttavia, la mozione Ferrarotti, mancando il sostegno socialista, non è approvata. S. accoglie con profonda insoddisfazione questo ulteriore fallimento, che lo spinge a ricercare in alcune componenti del partito socialista una possibile sponda per una rinnovata azione federalista. L’occasione per proporre una rinnovata iniziativa federalista “a sinistra” è l’XI convegno degli Amici del mondo, (2-3 febbraio 1963), dal titolo evocativo: “Che fare per l’Europa?”, al quale partecipa anche S. considerandolo un momento propizio per un approfondimento del confronto con componenti del socialismo autonomista e in prospettiva anche del partito comunista. A tutte le realtà del centrosinistra si rivolge Altiero nell’articolo preparato per il convegno, Esiste una politica europea del centrosinistra?, in cui l’idea di un’Assemblea costituente è rappresentata nell’Assemblea parlamentare europea, cioè lo stesso organo che dal 1962 si chiama Parlamento europeo. Convinto della necessità di costituire un gruppo di pressione, sul modello del Comitato d’azione per gli Stati uniti d’Europa di Monnet, S. crea in Italia, nel dicembre 1963, il Centro di iniziativa democratica europea (CIDE), un organo di formazione e riflessione sui problemi del processo di integrazione economica e sulle prospettive di unificazione politica.

Il 1964 vede S. impegnato nella progettazione del Centro italiano affari internazionali (CIA), idea nata dalla redazione de “il Mulino” su proposta di Cavazza. La proposta scaturisce dalla necessità di dare agli studi internazionali una veste non accademica e un approccio più dinamico, non erudito, strutturato sul modello del Council on foreign relations esistente negli Stati Uniti e in Canada, o del Royal institute of international affairs in Gran Bretagna. Durante la fase di elaborazione del progetto, emerge la diversità circa la finalità del centro fra Cavazza e S. Per quest’ultimo, «il CIAI deve essere insieme una scuola di futuri dirigenti ed un centro di pressione intellettuale sui dirigenti attuali», spiega in Considerazioni preliminari e primo progetto di lavoro per il Consiglio italiano per gli affari internazionali, mentre per Cavazza il centro deve facilitare l’incontro e il confronto fra politici ed esperti italiani e stranieri, marginalizzando il ruolo della formazione della classe dirigente. Lo scontro fra i due avviene proprio sulla natura e sulla funzione del CIAI, allargandosi successivamente alla questione della partecipazione della Fondazione Olivetti. Dal canto suo S. “sospetta” il collega di aver preso accordi con la Ford foundation affinché, grazie ai finanziamenti solo americani, il centro avesse poi un’impostazione diversa da quella pensata insieme all’inizio.

Il viaggio di S. negli USA (dal 7 gennaio al 27 febbraio 1965), realizzato grazie al Foreign leaders exchange program, segna una pausa nella vicenda del CIAI; durante il suo soggiorno S. ha una fitta agenda di incontri, lezioni, dibattiti, colloqui con alti esponenti politici e studiosi di centro studi e fondazioni, fra cui la Ford foundation con cui S. riprende il progetto CIAI. L’esito degli incontri va nel senso voluto da S., soprattutto per quanto riguarda finalità e scopi da dare al futuro centro, che intanto ha preso il nome di Istituto affari internazionali (IAI, ottobre 1965) e di lì a poco avrebbe ricevuto un sostanzioso grant triennale di 300 mila dollari della Ford foundation, con la significativa partecipazione finanziaria della Fondazione Olivetti insieme al sostegno di numerose altre società, tra cui anche la FIAT. Nell’ambito delle attività dello IAI, che verte sulla promozione di incontri non formali fra studiosi, politici, giornalisti, esponenti dell’imprenditoria, dei sindacati, su temi di politica estera, il ruolo di S. è centrale: tiene numerose conferenze, seminari, lezioni, promuove convegni, pubblicazioni (“Lo Spettatore internazionale”, “Quaderni dello Spettatore internazionale”) e organizza gruppi di studio internazionali; sotto la sua direzione lo IAI acquista grande visibilità e prestigio. In questo periodo S. contatta l’editore Einaudi per pubblicare un testo di sue memorie, che sarà stampato nel 1968 con il titolo Il lungo monologo, per i tipi delle Edizioni dell’Ateneo, a causa del rifiuto di Giulio Einaudi. Sono degni di nota anche due suoi articoli apparsi su “Lo Spettatore internazionale”, Sintomi e cause della crisi atlantica e Coordinamento e integrazione nella NATO, in cui S. prende posizione sulla crisi dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (North Atlantic treaty organization, NATO), conseguenza dell’abbandono dell’alleanza atlantica da parte dei francesi, auspicando un ordine federale mondiale da raggiungere con un metodo costituente dal “basso” senza scartare strumenti del metodo funzionalista. La politica italiana in campo europeo sembra aver ritrovato un nuovo slancio con Giuseppe Saragat, ministro degli Esteri, al quale S. invia un promemoria sulle linee generali di una iniziativa italiana per la costruzione di un’Europa democratica: propone la creazione di un sistema bicamerale dove il Consiglio dei ministri rappresenta gli interessi dei governi nazionali, mentre il Parlamento europeo diventa il depositario della volontà dell’elettorato, cioè del popolo europeo. Tuttavia, il funzionamento della CEE si arresta a causa della Resistenza francese a qualsiasi proposta di avanzamento nel processo. La presentazione del piano Saragat genera una nuova crisi.

S. invia al Presidente della Commissione europea una lettera, in data 5 luglio 1963, che ha una certa diffusione nella stampa europea, ma che viene ignorata dalla stampa federalista italiana; nella lettera egli invita Walter Hallstein a far assumere alla Commissione europea un ruolo di guida politica dell’integrazione: «Il programma politico intorno al quale dovreste proporvi di riunire in ogni paese della Comunità forze politiche sufficienti per vincere le resistenze dei governi nazionali si riassume nella volontà di opporre l’idea della democrazia federale europea alle idee di egemonia e di balcanizzazione». Hallstein risponde che i tempi non sono ancora maturi e che la situazione necessita che si proceda a piccoli passi. Nel 1965 il presidente della Commissione presenta un piano che prevede di cambiare il sistema di finanziamento della Politica agricola comune: basato su un fondo comune, esso avrebbe permesso alla CEE di dotarsi di “Risorse proprie” fuori da ogni controllo degli Stati membri. Nel piano è anche previsto un ampliamento dei poteri di controllo dell’Assemblea parlamentare europea, necessario per verificare l’utilizzo dei fondi. Ma la Francia del generale de Gaulle si oppone alla proposta della Commissione e ritira i suoi rappresentanti dal Consiglio dei ministri. Ha inizio la crisi della “sedia vuota”, che dopo aver bloccato l’attività delle Istituzioni comunitarie si conclude con il Compromesso di Lussemburgo (30 gennaio 1966) in cui la Francia ottiene un rafforzamento del metodo intergovernativo a scapito di quello comunitario (v. anche Cooperazione intergovernativa).

S. si muove con molta facilità nel mondo della politica nazionale e internazionale grazie alla sua esperienza di militante, confinato, esule, ma anche alle conoscenze che si sono allargate con l’attività direzionale dello IAI. L’istituto ha un’intensa attività che permette al suo direttore di poter chiedere ulteriori finanziamenti alla Ford anche per il triennio 1969-71. Sotto la direzione di S. lo IAI organizza, fra l’altro, simposi di prestigio internazionali (da ricordare quello sul regime internazionale del fondo marino) e l’avvio di una nuova pubblicazione quadrimestrale, “L’Italia nella politica internazionale”, che presenta l’insieme delle attività italiane nel campo diplomatico, economico, militare e culturale. È di questi anni il riavvicinamento a Pietro Nenni, di cui S. diventa consigliere speciale. Le Note concernenti una politica estera italiana possibile nel 1969 e negli anni Settanta segnano la ripresa dei contatti e l’inizio di una nuova collaborazione tra S. e il leader socialista. Questi, in qualità di ministro degli Esteri del governo presieduto da Mariano Rumor (dal 12 dicembre 1968 all’8 agosto 1969), si adopera in particolare per l’ingresso della Gran Bretagna nella Comunità e per un potenziamento della difesa militare europea non solo in ambito NATO, ma anche sfruttando l’esistenza di quell’ibrido della diplomazia europea che era l’Unione dell’Europa occidentale (UEO). La strategia viene indicata a Nenni da S. con le Note concernenti una politica estera italiana possibile nel 1969 e negli anni Settanta. Queste ispirano le parole del ministro nel discorso alla Camera del 24 gennaio 1969 in cui egli riafferma la necessità che l’unità europea non si esaurisca con l’unità economica e l’urgenza di una politica estera comune. L’obiettivo è di creare un rapporto privilegiato con la Gran Bretagna e di rilanciare insieme alla Repubblica Federale Tedesca l’unità politica europea, anche senza il sostegno iniziale della Francia di de Gaulle. Questa nuova linea strategica è la formulazione politica del principio “avanti con chi ci sta” al fine di far ripartire l’integrazione europea in quei settori dove si sarebbe verificata la convergenza degli interessi nazionali.

Degno di nota è il memorandum di S. scritto dopo un suo viaggio a Londra alla fine del gennaio 1969. Nel testo egli illustra, alla luce di numerosi incontri con funzionari del Foreign office e politici, come da parte del governo inglese vi fosse una apertura all’ipotesi di una Comunità politica. L’iniziativa italiana per rilanciare l’integrazione politica è presentata al Consiglio ministeriale della UEO (Lussemburgo, 6-7 febbraio 1969) ed è accolta con favore da una Gran Bretagna desiderosa di entrare nelle Comunità e vista con interesse dalla cancelleria tedesca, sempre meno disponibile ad accettare i veti francesi. L’impegno politico italiano in favore dell’ingresso della Gran Bretagna nella CEE raggiunge il culmine con la dichiarazione congiunta italo-britannica del 28 aprile 1969, firmata da Nenni e da Stewart, ministro degli Esteri britannico. Tale dichiarazione considera prioritaria l’integrazione politica rispetto a quella economica, chiede l’elezione diretta del Parlamento europeo e auspica una politica estera comune. Sebbene S. ne sia l’ispiratore, dall’incontro non emerge la volontà di aprire una conferenza nel quadro all’UEO per «mettere in piedi le strutture dell’integrazione politica». Dopo la dichiarazione nessuna iniziativa diplomatica è intrapresa per attuarla, anche perché Nenni lascia il dicastero degli Esteri nell’agosto 1969, in seguito a una crisi di governo. Per S. si chiude una fase in cui ha potuto svolgere liberamente il ruolo di “consigliere del principe”.

Gli anni 1970-1976

«Fra il 1970 e il 1976 ho lavorato sull’ipotesi che la Commissione della CEE avrebbe potuto assumere il ruolo di guida politica nella rimessa in moto della costruzione dell’unione politica». Questa è la sintesi del contributo di S. come commissario europeo.

Con l’inizio degli anni Settanta si creano le condizioni per nuovi impulsi all’integrazione europea, facilitati sul piano politico dall’uscita di scena del generale de Gaulle e sul piano economico da una crescita delle esportazioni. La Conferenza dell’Aia (1-2 dicembre 1969) sancisce punti fondamentali di questo avanzamento: apertura a nuovi membri, necessità di un’unione monetaria per la stabilità dei mercati (che diventerà il Sistema monetario europeo, SME). In questa conferenza si stabilisce anche di creare una università europea, come simbolo dell’unione, cui si aggiungerà qualche anno dopo anche l’inno europeo. Durante questo periodo si vanno accumulando problemi non sempre di natura “europea”, tra cui la crisi energetica e il terrorismo che, specialmente in Italia, finisce per assorbire energie e preoccupazioni politiche. Alla fine degli anni Settanta avviene un importante avanzamento del processo di integrazione. Infatti, i cittadini europei sono chiamati alle urne per votare a suffragio universale nel giugno 1979 il primo Parlamento europeo (v. Elezioni dirette del Parlamento europeo).

Per S. si apre la possibilità di diventare commissario europeo. Egli prepara con cura la sua candidatura, forte delle sue competenze e del prestigio acquisito come direttore dello IAI, per le sue conoscenze politiche e consapevole di non avere rivali italiani nell’area laico-socialista. Assume l’incarico il 3 luglio del 1970 e si stabilisce a Bruxelles, lasciando la direzione dello IAI, non senza aver dato garanzie alla Ford Foundation sulla continuità “spinelliana” anche con la nuova gestione Merlini. S. ottiene l’incarico per i settori degli Affari industriali (Direzione generale III), della Ricerca e sviluppo tecnologico (Direzione generale XII) e, temporaneamente, il controllo del centro comune di ricerca di Ispra (Direzione generale XV), come da egli stesso richiesto. Oltre alle perplessità della stampa internazionale di fronte a un candidato così federalista, giungono le congratulazioni per la nomina di S., e fra queste spicca quella di Monnet. S. riallaccia i rapporti con il MFE, nel quale presenta il suo “Piano d’azione per la democratizzazione del Parlamento europeo, per l’elezione dei suoi membri a suffragio universale e per la determinazione dei suoi compiti e competenze”, approvato a Strasburgo il 27 settembre 1970 dal comitato centrale del movimento. Costituisce il suo gabinetto, diretto inizialmente da Gianfranco Speranza e successivamente dall’inglese Christopher Layton. La scelta di un inglese suscita scandalo, sia perché il Regno Unito non è ancora un paese membro delle Comunità, sia perché un commissario di solito non sceglie un capo di Gabinetto di una nazionalità diversa. La presenza di S. come commissario coincide, quindi, con la necessità di rilanciare il processo d’integrazione, anche alla luce dei risultati della Conferenza dell’Aia. Si lavora inoltre nel comitato alla realizzazione del Rapporto Davignon per gettare le basi del coordinamento di una politica estera comune.

In una intervista concessa ad Arrigo Levi (Un federalista tra i bottoni, in “La Stampa”, 1° agosto 1970), S. individua la soluzione per uscire dall’impasse istituzionale nel metodo sopranazionale al posto di quello intergovernativo, auspicando un ritorno al modello funzionalista di Monnet. Sul tavolo del nuovo commissario ci sono anche altre problematiche da affrontare: l’instabilità del sistema monetario internazionale e il ruolo della Comunità sullo scacchiere internazionale, ma il rafforzamento delle istituzioni appare prioritario. S. guarda con attenzione alla funzione della Commissione, al funzionamento del Consiglio dei ministri, al ruolo del Parlamento e in particolare a quello del Comitato dei rappresentanti permanenti (COREPER), costituito dagli ambasciatori degli Stati membri presso le Comunità europee con il compito di preparare il lavoro del Consiglio dei ministri della Comunità. Il COREPER è giudicato da S. troppo influente. Dare quindi priorità al recupero del ruolo politico della Commissione e ampliare i poteri del Parlamento: sono queste le priorità che S. evidenzia nella Nota al Presidente Malfatti, 22 settembre 1970 e successivamente ribadite e ampliate nel Progetto di riforma presentato al gruppo socialista dell’Assemblea delle Comunità europee nel settembre 1971. Nell’articolo Le plan Pompidou pour l’Europe: une chance à saisir, apparso in “Le Monde” del 30 marzo 1971, a commento e analisi dell’intervento di Georges Pompidou, che auspicava di creare un nuovo sistema istituzionale per dare vita ad una confederazione, S. esorta i rappresentanti degli Stati a intraprendere la strada del rinnovamento, ma la sua voce rimane inascoltata.

La Commissione aveva avuto mandato col Trattato di Lussemburgo (22 aprile 1970) di preparare, tra l’altro, un rapporto sulla possibilità di allargare i poteri del Parlamento; a fronte della proposta del presidente Franco Maria Malfatti di creare due gruppi di lavoro formati da funzionari, S. suggerisce la creazione di una “Communitarian commission” formata da giuristi e costituzionalisti dotati di “sensibilità politica” e ottiene l’incarico di formare la lista dei componenti il gruppo di lavoro, affidando la presidenza al giurista francese Georges Vedel. Nel marzo 1972, alla conclusione della prima fase, dai lavori della Commissione Vedel risulta che il Parlamento non ha alcun potere di emendamento sulle proposte della Commissione e sulle modifiche apportate dal Consiglio. S. si mostra molto critico in merito e propone come emendamento la Codecisione tra Parlamento e Consiglio nel processo legislativo, anticipando di venti anni il Trattato di Maastricht. La Commissione Vedel non accoglie i suggerimenti di S. e delimita, invece, gli ambiti di competenza del Parlamento, prevedendo una gradualità nell’estensione dei poteri legislativi e di controllo dell’assemblea. I risultati della seconda fase della Commissione Vedel danno al parlamento un potere di codecisione, da intendersi come “parere conforme”, ma senza la possibilità di portare emendamenti, condizione essenziale invece per S. (v. anche Procedura di parere conforme). Infatti, egli è a favore di un ruolo un ruolo decisivo del Parlamento nel Processo decisionale e della indipendenza della Commissione dalla volontà dei governi.

Le puntuali osservazioni di S., unico ad aver preparato documenti, sono disattese. Ugualmente è ignorato il suo contributo, tramite il collaboratore Riccardo Perissich, al lavoro della Commissione presieduta da Émile Noël. A questa delusione se ne aggiungono altre, che provengono dalla situazione economica italiana in un periodo di fluttuazione della lira. Un nuovo slancio è trovato da S. nel Vertice di Parigi (ottobre 1972) nel quale viene dato incarico alla Commissione, e non a comitati intergovernativi, di gestire i compiti più importanti per lo sviluppo della Comunità. Il federalista non riceve però il sostegno di Monnet, che in occasione della presentazione dell’edizione francese del libro di S. Agenda per l’Europa, ridimensiona il ruolo della Commissione. Con la nuova presidenza di François-Xavier Ortoli, S. decide di cambiare strategia; di fronte a una Commissione restia ad affrontare una riforma globale della Comunità, egli propone di allargare il processo decisionale del Parlamento senza revisione dei Trattati. Anche per quanto riguarda l’unione monetaria, egli propone di affidare competenze specifiche in campo economico a organi sopranazionali. Ma gli emendamenti proposti da S. restano lettera morta. Di fronte alla crisi petrolifera, all’uscita dal sistema monetario europeo (SME) di alcuni paesi, all’instabilità monetaria, S. mette in guardia dal pericolo di ricadere in scelte incentrate solo su interessi nazionali e continua a proporre soluzioni politiche unitarie a livello europeo. Il 12 marzo 1974 gli viene conferito il prestigioso premio Robert Schuman, prima personalità italiana a ricevere questo riconoscimento, per la sua attività di federalista e per il suo impegno nel rafforzamento del ruolo del Parlamento europeo. Quest’occasione diventa una tribuna da dove S. pronuncia un discorso appassionato, veemente e critico. In esso egli denuncia l’Europa come “vassallo” degli Stati Uniti d’America; critica l’approccio degli Stati europei verso l’Unione Sovietica e verso l’Est europeo; considera l’Europa incapace di definire un’efficace politica mediterranea e agricola; propone, invece, di dar vita a una democrazia europea con il primato del Parlamento, di convocare un’assemblea costituente per dotare l’Europa di una Costituzione. I risultati del Consiglio dei capi di Stato e di governo di Bonn nel dicembre 1974 non tengono conto delle indicazioni di S. Infatti il vertice si conclude con due risultati diversi: l’istituzionalizzazione degli incontri dei capi di Stato e di governo con il nome di Consiglio europeo e l’impegno a eleggere il Parlamento europeo, entro il 1978, a suffragio universale e diretto. Tuttavia, ancora una volta, secondo S., non ci sono significative concessioni sopranazionali. Solo uno spiraglio giunge da Ortoli nel discorso del 9 gennaio 1975, con il quale il presidente dichiara di impegnare la Commissione in un’azione politica per denunciare il metodo intergovernativo. Dal 30 giugno 1975 alle sue dimissioni nel maggio 1976, S. è meno presente ai lavori della Commissione, per problemi di salute e per una grave malattia che colpisce l’amata sposa Ursula.

Per tracciare una sintesi, certamente non esaustiva, del lavoro di S. commissario è necessario ricordare le sue principali iniziative in materia di Unione economica e monetaria, riforma della politica agricola comune; affari industriali (Direzione generale III), ricerca e sviluppo tecnologico (Direzione generale XII). In materia di politica industriale il contributo di S. è stato notevole proprio perché una simile politica a livello comunitario, a suo avviso, doveva essere integrata a politiche comuni per lo sviluppo regionale, la dimensione sociale, la ricerca tecnologica e la tutela dell’ambiente (nasce dal gabinetto S. il primo progetto di una politica ambientale europea, ispirata al principio “chi inquina paga”). Senza dimenticare il suo interesse per lo sviluppo di una politica europea dell’aeronautica e il suo impegno per il controllo del Centro comune di ricerca di Ispra (Direzione generale XV), ristrutturato profondamente sotto il suo mandato al fine di garantire criteri di efficienza e di produzione scientifica su progetti strategici. Agendo come un commissario a tutto campo, S. mostra la sua capacità di ricondurre ogni problematica e aspetto tecnico nei vari settori al problema più generale dell’assetto politico-istituzionale della Comunità.

Gli anni 1976-1986

«Fra il 1976 e il 1986 ho lavorato sull’ipotesi che il Parlamento europeo avrebbe dovuto assumere un ruolo costituente nella costruzione europea». Queste le parole di S. sull’ultima parte della sua vita.

S. rifiuta di essere candidato nelle liste socialiste per le elezioni comunali del 1976 con la previsione, in caso di vittoria, di diventare il successivo sindaco di Roma; il rifiuto non è motivato solo dalle condizioni di salute di Ursula, ma anche dalla maggiore importanza che S. darebbe a un eventuale incarico nella politica europea. In questo frangente è il PCI a cogliere l’occasione di proporre a S. un’ulteriore candidatura, non alle elezioni comunali bensì a quelle nazionali. Nella sua lettera di accettazione ad Amendola, S. chiarisce la sua posizione nei confronti del partito, con il quale vuole collaborare dall’esterno e dal quale vuole essere autonomo. La sua decisione suscita una vasta eco nella stampa internazionale, europea e americana: essa non risparmia critiche e perplessità per questa sua virata verso il partito comunista. Nella sua ultima riunione della Commissione S. precisa come la sua scelta sia motivata da una visione comune della politica europea. La sua autonomia di deputato dal partito è ben visibile in alcuni momenti della politica italiana, come ad esempio nella dichiarazione di voto di fiducia al governo guidato da Giulio Andreotti (11 agosto 1976), nell’aspra critica contro la politica del governo nei confronti degli Stati Uniti, nell’accusa al governo di atteggiamenti ambigui e contraddittori in tema di politica europea, perché da una parte sostiene le elezioni europee e dall’altra si oppone all’adesione dei paesi mediterranei usciti dal fascismo. Inoltre, egli offre la sua visione critica verso le posizioni del PCI e le sue proposte alla sinistra, come si può leggere nel libro-pamphlet Pci, che fare? del 1978.

Del resto, anche il PCI non capisce sempre il pensiero di S., specie in politica estera, sebbene lo candidi due volte al Parlamento europeo. Se per S. si può ancora una volta parlare di delusione, per il PCI si deve parlare di diffidenza. È infatti con diffidenza che il partito vede la nascita del “Club del Coccodrillo”. In qualità di deputato europeo S. si batte per rendere il Parlamento una camera costituente. Con l’obiettivo di lavorare sulla riforma delle istituzioni lancia un appello ai colleghi deputati per costituire un intergruppo, che si riunisce la prima volta il 9 luglio 1980, su invito di S., al ristorante “Au Crocodile” di Strasburgo (da qui il nome del Club). La riunione è verbalizzata da Pier Virgilio Dastoli, assistente di S. dal 1977, e vede la partecipazione di Hans August Lücker, Karl von Wogau (entrambi appartenenti al Partito popolare europeo, PPE), Stanley Johnson (conservatore), Richard Balfe e Brian Key (laburisti), Paola Gaiotti De Biase (DC), Bruno Visentini (liberale), Silvio Leonardi (comunista). Nel dicembre dello stesso anno, i deputati che aderiscono al Club del Coccodrillo sono già una settantina, periodicamente informati tramite una newsletter, “Crocodile: lettera ai membri del Parlamento europeo”, fondata da Felice Ippolito, deputato europeo indipendente di sinistra e da Pier Virgilio Dastoli. Su pressione dei membri dell’associazione, il Parlamento europeo vota (9 luglio 1981) una risoluzione che prevede la creazione di una commissione istituzionale permanente, il laboratorio del progetto di Trattato sull’Unione europea. In parallelo al lavoro e all’azione del Club del Coccodrillo, due ministri degli Esteri, Emilio Colombo e il tedesco Hans-Dietrich Genscher, intendono con un piano rilanciare la riforma delle istituzioni, dando maggior rilievo al Parlamento e al Consiglio europeo: un progetto che lascia sperare grandi orizzonti e che invece si conclude con una semplice dichiarazione durante il Consiglio europeo di Stoccarda il 19 giugno 1983 (v. Dichiarazione di Stoccarda). Rispetto al piano dei due ministri, il progetto di riforma del Club del Coccodrillo appare, quindi, come un trattato costituzionale. Esso prevede un nuovo equilibrio nei rapporti tra Parlamento, Commissione e Consiglio dei ministri dell’Unione a favore del primo e su basi federali; la ridefinizione dei ruoli delle istituzioni; un Principio di sussidiarietà fra i paesi membri. Strategicamente il progetto di trattato ispirato da S. non approfondisce i temi di politica estera e di difesa. Il progetto è approvato a larga maggioranza dall’assemblea di Strasburgo il 14 febbraio 1984. S. è consapevole che il progetto per essere accettato ha bisogno di un paese che se ne faccia carico, che lo difenda e lo sostenga, e per questo si rivolge al presidente François Mitterrand, che raccoglie l’invito con il suo intervento di fronte al Parlamento europeo, il 24 maggio 1984. Le parole del presidente francese giungono per S. come una vittoria, cui si aggiunge il successo della pubblicazione del libro Come ho tentato di diventare saggio, Io, Ulisse.

Tuttavia, il Consiglio europeo di Fontainebleau (14-17 giugno 1984) alla fine della presidenza francese (v. anche Presidenza dell’Unione europea) non fa menzione del progetto di trattato elaborato dal Parlamento. I governi decidono di affidare a un comitato di esperti il compito di studiare progetti in campo economico e commerciale, indicando solo convocarla convocazione di una conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative). Il “Comitato Dooge” (v. Dooge, James), dal nome del suo presidente, grazie all’opera diplomatica di S., vede anche la partecipazione di Mauro Ferri, già presidente della Commissione Affari istituzionali del Parlamento europeo. Tuttavia, il contributo del comitato è minimo e, per S., non appare all’altezza della situazione politica europea. Al Consiglio europeo di Milano, nel giugno 1985, il dibattito politico dimentica completamente il testo del Parlamento europeo e le bandiere federaliste che riempiono piazza Duomo non sono sufficienti a far sentire la voce dei cittadini europei. Nel suo ultimo discorso al Parlamento europeo, commentando con ironia e amarezza i risultati della conferenza intergovernativa, S. ha ancora parole di speranza e di incoraggiamento e invita «a non rassegnarsi né a rinunciare». Battagliero fino in fondo, non rinuncia a rispondere con una lettera sulla stampa indirizzata a un giovane segretario della Federazione giovani comunisti italiani (FGCI), intervenuto contro l’Europa in occasione dell’attacco americano a Gheddafi, ribadendo la necessità di un potere federale europeo che elabori una politica estera e di difesa comune. Prima di morire, sul comodino della clinica romana dove è ricoverato, lascia incompleto un testo di una lecture preparata per un’iniziativa de “il Mulino” promossa da Ezio Raimondi.

L’Atto unico europeo è la risposta dei governi al progetto sull’Unione europea ispirato da S. Il progetto rappresenta una fonte di innovazioni per ogni trattato successivo, fino ai nostri giorni. Di seguito si introducono i principali aspetti originali del progetto di S. (tra parentesi, quando possibile, i riferimenti ai trattati successivi). Da un punto di vista del metodo è una novità poiché il Trattato, di natura costituzionale, non è elaborato secondo il tradizionale metodo diplomatico, ossia tramite una conferenza intergovernativa, ma dal Parlamento, anticipando così il metodo della Convenzione. Nella struttura generale il progetto si configura come un nuovo Trattato istitutivo (dell’Unione europea), e non come una semplice revisione dei Trattati esistenti. A conferma di questo nuovo approccio, l’articolo 1 del progetto prevede la creazione di un’Unione europea che supera le tre Comunità esistenti nel 1984 (la soppressione dei tre pilastri (v. Pilastri dell’Unione europea) è prevista dal Trattato di Lisbona in fase di ratifica). L’articolo 3 del progetto riconosce la nozione di Cittadinanza europea in parallelo alla cittadinanza nazionale (idea che sarà ripresa dal Trattato di Maastricht e mantenuta nei Trattati successivi). L’articolo 4 introduce la nozione dei diritti fondamentali come risultano dai principi comuni delle costituzioni nazionali e dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (anticipazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea promulgata a Nizza nel 2000). L’articolo 4, al quarto comma, prevede il principio di sanzioni in caso di violazioni dei principi democratici da parte di Stati membri dell’Unione (una simile disposizione a garanzia del rispetto dei diritti fondamentali sarà introdotta nel Trattato di Amsterdam). Il progetto di S. riconosce all’articolo 8 il Consiglio europeo tra le istituzioni dell’Unione, anticipandone l’evoluzione costituzionale (è necessario attendere il Trattato di Lisbona, in fase di ratifica, per un simile riconoscimento). L’articolo 10, inoltre, prevede due metodi per l’azione dell’Unione: da un lato, il metodo comunitario classico; dall’altro il metodo intergovernativo. La novità del progetto di S. consiste nel permettere il passaggio dall’azione intergovernativa al metodo comunitario dopo una Decisione del Consiglio europeo. Inoltre, l’articolo 12 offre per la prima volta una chiara definizione del “principio di sussidiarietà” (introdotto nel diritto europeo dal Trattato di Maastricht), secondo il quale nelle competenze concorrenti l’azione dell’Unione è necessaria laddove essa si riveli più efficace rispetto all’azione degli Stati membri. Sempre il progetto riconosce la Procedura di codecisione fra il Parlamento europeo ed il Consiglio, prevedendo anche un comitato di concertazione tra le due istituzioni e con la partecipazione della Commissioni (tali innovazioni saranno introdotte dal Trattato di Maastricht) (v. Procedura di concertazione). Per la prima volta il progetto prevede l’investitura della Commissione, per cui questa entra in funzione dopo aver ricevuto un voto di investitura da parte del Parlamento europeo (simile disposizione sarà introdotta e perfezionata nei Trattati successivi). L’articolo 20 stabilisce che il Consiglio dell’Unione sia composto da ministri incaricati in modo specifico e permanente delle questioni europee (una sorta di “Senato” che prefigura il Consiglio legislativo previsto dalla Convenzione europea nel suo progetto di Trattato costituzionale, ma non più ripreso in seguito).

Dimostrando realismo politico, S. inserisce nel progetto una clausola che impedisce un voto maggioritario per un periodo transitorio di dieci anni, nel caso in cui un interesse nazionale sia riconosciuto come tale dalla Commissione (è lo spirito del “Compromesso di Lussemburgo” e del meccanismo prefigurato dal Compromesso di Ioannina, ripreso poi nel Trattato di Lisbona). Nella designazione dei commissari da parte del presidente, introdotta dall’articolo 25 del progetto, c’è l’idea che la composizione della Commissione sia svincolata dalle nazionalità e dalla rotazione ugualitaria degli Stati membri (anche se non esattamente, il principio è stato ripreso dal Trattato di Lisbona). Infine, l’articolo 42 del progetto sancisce la preminenza del diritto europeo su quello degli Stati membri come risulta dalla Giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (v. anche Corte di giustizia dell’Unione europea).

Dopo aver descritto le principali innovazioni, può essere interessante ricordare brevemente quali disposizioni previste dal progetto di S. non sono state ancora recepite dai Trattati. L’articolo 73 del progetto prevede un sistema di perequazione finanziaria per ridurre gli squilibri economici tra le regioni dell’Unione. L’articolo 82 contempla la possibilità di un’entrata in vigore del Trattato anche senza l’unanimità delle ratifiche, ma con una maggioranza di Stati membri in rappresentanza di due terzi della popolazione dell’Unione (questa maggioranza deciderebbe sull’entrata in vigore del Trattato e dei rapporti con gli Stati non ratificanti). L’articolo 84 stabilisce una semplice procedura di Revisione dei Trattati mediante l’accordo del Parlamento e del Consiglio, come prevista per le leggi organiche, evitando così l’unanimità delle ratifiche (v. anche Voto all’unanimità). Infine, l’articolo 71 prevede la possibilità di creare nuove entrate per l’Unione senza la necessità di modificare il Trattato e che la Commissione possa essere autorizzata per legge a emettere prestiti. Molte di queste idee sono ancora attuali e restano in attesa di una volontà politica europea in grado di realizzarle.

Ricorda il Presidente della Repubblica italiana Giorgio Napolitano, nel discorso in occasione della visita ufficiale a Ventotene (il 21 maggio 2006): «Chi si accinge ad una grande impresa – scrisse Altiero qualche mese prima di lasciarci – non sa “se lavora per i suoi contemporanei o per i suoi figli, che lo hanno visto costruire ed erediteranno da lui; o per una più lontana, non ancora nata generazione che riscoprirà il suo lavoro incompiuto e lo farà proprio”. Ebbene, egli ha lavorato per tutti».

Samuele Pii (2008)