Stammati , Gaetano

S. (Napoli 1908-Roma 2002) è stato una figura di grandi responsabilità istituzionali in Italia. Laureato in giurisprudenza, dal febbraio 1962 al febbraio 1966 è direttore generale del ministero del Tesoro, consigliere d’amministrazione dell’IRI, ragioniere generale dello Stato, presidente della Banca commerciale italiana. È professore incaricato di Politica economica alla facoltà di Scienze statistiche dell’Università di Roma.

Proprio dopo la firma dei Trattati di Roma del 1957 S. inizia il suo fecondo contributo al dibattito sull’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). I suoi primi scritti sono da “tecnico”, da scienziato delle finanze. In questa ottica pubblica, nel 1959, Sistemi fiscali e Mercato comune, dove mette in evidenza rischi e opportunità derivanti dalla creazione di un mercato unico in assenza di legislazioni omogenee. Seguiranno negli anni Sessanta altri contributi nella stessa direzione.

Alla fine degli anni Sessanta è presidente del Comitato di politica di bilancio della Comunità economica europea (CEE). Negli stessi anni viene dato alle stampe il Rapporto Werner, dal nome del presidente della commissione incaricata di individuare i passaggi fondamentali con cui rilanciare il processo di integrazione comunitaria (v. Werner, Pierre). S. partecipa ai lavori del comitato. Del Rapporto Werner S. condivide al tempo stesso la gradualità e la irreversibilità, due elementi da tenere strettamente connessi per evitare da un lato massimalismi utopistici, dall’altro per non rischiare di annacquare o rimettere in discussione i risultati positivi già conseguiti.

Le perplessità di S. sono, semmai, principalmente volte alla fissazione di date precise per l’avanzamento del processo di integrazione. A proposito delle fasi di avvicinamento all’Unione economica e monetaria, S. affermerà in varie occasioni che si trattava di fasi “logiche”, e non “cronologiche”, che occorreva raggiungere degli obiettivi crescenti di integrazione senza tuttavia forzarne i tempi (v. Stammati, 1974, p. 249).

Dal 1976 è ministro delle Finanze, del Tesoro, dei Lavori pubblici e del Commercio con l’estero. Nel 1977, in qualità di ministro del Tesoro, nel corso di un convegno sulle prospettive dell’Unione monetaria europea, S. individua le debolezze della Comunità nella mancanza di uno strumento di riequilibrio territoriale del reddito: «Questo insieme di strumenti va concepito in un quadro unico ed organico, nel senso di muovere verso quella politica regionale la quale, armonizzando le strutture economiche dei paesi della Comunità, acceleri l’integrazione economica, premessa fondamentale per l’unificazione monetaria» (v. Stammati, 1978, p. 422).

Mancava insomma, al progetto europeo, una dimensione solidaristica che non doveva riguardare solo la redistribuzione finanziaria del reddito ex post, ma doveva interessare anche processi di aggiustamento con un onere simmetrico a livello macroeconomico (politiche espansive nei paesi con tendenza al surplus della bilancia dei pagamenti e viceversa) e col sostegno finanziario a medio termine fra le banche centrali, per evitare spinte speculative che avrebbero minato la credibilità e quindi la tenuta di qualsiasi progetto di integrazione monetaria.

S. ricordava inoltre l’importanza, già delineata in sede di Rapporto Werner «di Elezioni dirette del Parlamento europeo […]. Si pensò allora che su di un centro unico di decisioni, che doveva comprendere un governo europeo, accanto ad un sistema di banche centrali simile a quello federale degli Stati Uniti d’America, dovesse soprintendere un Parlamento eletto direttamente dai popoli delle nazioni partecipanti all’Unione economica e monetaria» (v. Stammati, 1978, p. 421) (v. anche Parlamento europeo). S. individuava quello che oggi viene definito il problema del “Deficit democratico dell’Unione”. All’indomani dell’entrata dell’Italia nello Sistema monetario europeo però la sua carriera di uomo pubblico si interrompe bruscamente. Nel 1981 compare nella lista degli affiliati alla P2 e si ritira a vita privata.

Fabio Masini (2010)




Stati africani e malgasci associati

L’acronimo SAMA sta per Stati africani e malgasci associati (EAMA in francese). Si tratta di diciotto Stati africani francofoni, già colonie francesi o belghe, più la Somalia, che ottennero l’indipendenza nei primi anni Sessanta: Burundi, Camerun, Repubblica Centrafricana, Ciad, Congo, Dahomey, Gabon, Costa d’Avorio, Madagascar, Mali, Mauritania, Niger, Ruanda, Senegal, Somalia, Togo, Alto Volta e Zaire. Il trattato CEE del 1957 (v. Trattati di Roma) prevedeva agli articoli dal 131 al 136 di “associare” (v. Associazione) i possedimenti coloniali dei paesi membri (Pays et territoires d’outre-mer, PTOM) (v. anche Regioni ultraperiferiche dell’Unione europea), al mercato comune (v. Comunità economica europea, CEE). Con la conquista dell’indipendenza da parte della grande maggioranza di questi paesi insorse l’esigenza di creare un nuovo quadro di relazione tra essi e la CEE. A questo bisogno si rispose con le Convenzioni di Yaoundé, firmate il 20 luglio 1963, che davano vita a un sistema di relazioni commerciali preferenziali tra i Sei e i Diciotto.

I tratti più originali della Convenzione (v. anche Convenzioni) risiedevano nella sua multilateralità, primo esempio di accordo contrattuale tra mondo industriale avanzato e paesi in via di sviluppo (PVS), nel suo carattere onnicomprensivo, che legava in un quadro unitario un vasto spettro di politiche per lo sviluppo (aiuto finanziario, preferenze commerciali, assistenza tecnica, investimenti e trasferimento di capitali) (v. Politica europea di cooperazione allo sviluppo), e infine nella creazione di un quadro istituzionale, composto da un Consiglio, un’Assemblea parlamentare e una Corte di arbitrato che doveva regolare le relazioni tra le parti dell’Associazione.

Per quanto riguarda l’aspetto commerciale, il sistema di Yaoundé istituiva un regime di preferenze reciproche tra i due gruppi di paesi. In questo senso la Convenzione prevedeva, su una base di stretta reciprocità, l’ingresso libero, esente da dazi e quote, nel Mercato comune europeo (MEC) dei prodotti industriali e agricoli dei SAMA, fatta eccezione per quelli direttamente concorrenti con le produzioni europee. A parte l’evidente punto debole rappresentato dalle eccezioni, il sistema di Yaoundé non riuscì a conseguire quello che, almeno stando alle dichiarazioni ufficiali, avrebbe dovuto essere il suo obiettivo: aiutare i SAMA ad affrontare l’abolizione del sistema di preferenze coloniali, promuovendo la diversificazione delle loro economie e preparandole al meglio per affrontare la concorrenza sui mercati internazionali. In realtà il sistema si tradusse in una continuazione dei caratteri tipici del commercio coloniale, ossia esportazione di materie prime da parte dei SAMA che acquistavano prodotti industriali dai paesi CEE: il 72% delle loro esportazioni verso i Sei era costituito da materie prime, l’85% delle loro importazioni era rappresentato da prodotti industriali.

L’approccio liberoscambista basato sulla preferenza reciproca si rivelò inefficace per tre ragioni: primo, molti SAMA erano economie essenzialmente esportatrici di materie prime (in particolare rame, gomma, minerale di ferro, cotone), di per sé già esenti dalla Tariffa esterna comune (TEC) della CEE o comunque soggette a dazi minimi; secondo, il progressivo estendersi delle concessioni in materia di TEC ai prodotti provenienti da altri PVS, soprattutto dopo il 1971, con l’applicazione da parte comunitaria del Sistema di preferenze generalizzato, svuotò di significato le preferenze commerciali stabilite nelle Convenzioni di Yaoundé. Infine, l’adozione del principio di reciprocità impediva ai SAMA di proteggere le proprie industrie nascenti.

Durante il periodo di applicazione delle Convenzioni di Yaoundé (alla prima ne seguì una seconda firmata nel luglio 1969, in vigore fino al 1975) la quota di esportazioni dei SAMA verso il MEC conobbe una sensibile diminuzione, passando dal 13,4% del totale delle esportazioni del mondo in via di sviluppo verso i Sei nel 1958, al 7,4% registrato nel 1974. In maniera analoga, mentre nel 1958 i SAMA acquistavano l’11,6% del totale delle esportazioni dei paesi CEE al Terzo mondo, nel 1974 tale quota ammontava all’8,4%.

Con l’ingresso del Regno Unito nella CEE e la firma, il 28 febbraio 1975, della prima delle Convenzioni di Lomé, l’acronimo SAMA cessò di essere utilizzato e i paesi che vi erano compresi furono riassorbiti nel nuovo insieme denominato ACP (Stati dell’Africa sub sahariana, Carabi e Pacifico) comprendente, oltre ai 18, altri 6 Stati africani, Mauritius e 21 Stati appartenenti al Commonwealth.

Francesco Petrini 
(2010)




Stati dell’Africa sub sahariana, Caraibi e Pacifico

L’acronimo ACP designa gli Stati dell’Africa subsahariana, dei Caraibi e del Pacifico che hanno stretto accordi di partenariato con l’Unione europea. Tale termine ha sostituito, a partire dalla firma della prima Convenzione di Lomé (v. Convenzioni di Lomé) il 28 febbraio 1975 tra la CEE e 46 paesi in via di sviluppo (PVS), quello di SAMA (Stati africani e malgasci associati) dopo che l’ingresso del Regno Unito nella Comunità economica europea aveva portato all’estensione degli accordi di cooperazione a paesi non appartenenti all’Africa francofona.

Le Convenzioni di Lomé, quattro in tutto, firmate a intervalli di cinque anni, innovarono sensibilmente il sistema di rapporti instaurato negli anni Sessanta con le Convenzioni di Yaoundé. Venne abbandonato il principio della reciprocità, sostituito dal regime di preferenze commerciali il quale prevedeva che i prodotti manufatti e i prodotti agricoli che non erano direttamente in concorrenza con i prodotti soggetti alla Politica agricola comune (PAC) entrassero nell’Unione senza dazi doganali, né restrizioni quantitative. Con la prima e la seconda Convenzione vennero introdotti fondi di stabilizzazione dei prezzi dei prodotti primari (Stabex e Sysmin) esportati dagli ACP. Grazie al finanziamento, attraverso il Fondo europeo di sviluppo (FES), di progetti di natura sociale ed economica, la cooperazione allo sviluppo veniva strutturata attraverso interventi specifici in vari settori quali la sanità, l’istruzione, l’ambiente, ecc. (il cosiddetto “approccio settoriale”).

In generale, dal punto di vista della promozione dello sviluppo dei paesi ACP i risultati delle Convenzioni sono stati deludenti: l’effetto di creazione di commercio è stato sostanzialmente marginale, le risorse impegnate nel sostegno allo sviluppo sono rimaste relativamente modeste e infine la CEE si è dimostrata riluttante a prendere in considerazione i problemi legati al debito estero dei paesi ACP.

Alla scadenza della quarta Convenzione di Lomé, il 29 febbraio 2000, un nuovo accordo venne firmato nella capitale del Benin, Cotonou, il 23 giugno 2000, entrando in vigore il 1° aprile 2003 (v. Accodo di Cotonou). Tale accordo manteneva gli strumenti istituiti dalle precedenti Convenzioni e introduceva un nuovo approccio, mirando a rafforzare l’aspetto politico del partenariato e a innovare il quadro commerciale nella prospettiva di stipulare intese commerciali compatibili con le norme dell’OMC. A tal fine, nell’ottobre 2003 furono avviati nuovi negoziati con la Comunità economica e monetaria dell’Africa centrale e la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale. L’obiettivo era quello di una liberalizzazione degli scambi commerciali tra le parti, ponendo fine al regime di preferenze commerciali non reciproche instaurato dalle Convenzioni di Lomé. Era previsto un periodo di transizione fino al massimo al 2008.

Nel corso degli anni, al partenariato hanno aderito numerosi nuovi Stati ACP, portando il totale a 78. Ai sensi dell’accordo di Cotonou si distinguono gli Stati ACP meno avanzati che beneficiano, in alcuni casi, di un trattamento particolare. Nel dicembre 2000 Cuba diventava il 79° membro del gruppo ACP, senza però partecipare al nuovo accordo di partenariato.

Gli Stati ACP (esclusi gli Stati ACP meno avanzati) sono: Sud Africa (a titolo parziale), Antigua e Barbuda, Bahamas, Barbados, Belize, Botswana, Camerun, Congo (Brazzaville), Isole Cook, Costa d’Avorio, Dominica, Repubblica Dominicana, Figi, Gabon, Ghana, Grenada, Guyana, Giamaica, Kenia, Marshall (Isole), Isola Maurizio, Micronesia (Stati federati di), Namibia, Nauru, Nigeria, Niue, Palau, Papuasia, Nuova Guinea, Saint Christopher e Nevis, Saint Lucia, Saint Vincent e Grenadine, Senegal, Seicelle, Suriname, Swaziland, Tonga, Trinidad e Tobago, Zimbabwe.

Gli Stati ACP meno avanzati (PMA) (ai sensi dell’allegato 6 dell’accordo di Cotonou) sono: Angola, Benin, Burkina Faso, Burundi, Repubblica del Capo Verde, Repubblica Centrafricana, Ciad, Comore, Repubblica Democratica del Congo, Gibuti, Etiopia, Eritrea, Gambia, Guinea, Guinea Bissau, Guinea Equatoriale, Haiti, Kiribati, Lesotho, Liberia, Malawi, Mali, Mauritania, Madagascar, Mozambico, Niger, Ruanda, Samoa, São Tomé e Príncipe, Sierra Leone, Isole Salomone, Somalia, Sudan, Tanzania, Timor Est, Tuvalu, Togo, Uganda, Vanuatu, Zambia.

Inoltre, alcuni di tali paesi privi di sbocchi sul mare beneficiano anche, a determinate condizioni, di disposizioni particolari ai sensi dell’accordo di Cotonou. Si tratta di: Botswana, Burkina Faso, Burundi, Repubblica Centrafricana, Ciad, Etiopia, Lesotho, Malawi, Mali, Niger, Ruanda, Swaziland, Uganda, Zambia, Zimbabwe.

Francesco Petrini (2008)




Statuto dei parlamentari europei

Il Parlamento europeo (PE) ha adottato, con decisione del 28 ottobre 2005, lo Statuto dei parlamentari europei, destinato a trovare applicazione a partire dalla legislatura 2009/2014. Si tratta di un complesso di regole che mira a definire uno status unico dei membri del Parlamento europeo, colmando così una differenziazione tra i parlamentari derivante dall’applicazione nei loro confronti delle diverse normative nazionali. L’approvazione di questo Statuto, letta “in combinato disposto” con gli sforzi per la definizione di una procedura elettorale uniforme di elezione degli stessi (che ha trovato una prima concretizzazione nella decisione 2002/722 del Consiglio dei ministri che introduce una serie di “principi comuni” in materia) evidenzia la volontà di giungere a una totale “europeizzazione” dei membri del PE, dando così contenuto al cambiamento, introdotto con la citata decisione 2002/722/CEE ma a oggi solo terminologico, del loro ruolo di «rappresentanti nazionali al Parlamento europeo» in quello di «membri nazionali del Parlamento europeo».

Il riconoscimento ai membri di un Parlamento di una serie di prerogative può farsi risalire alle prime assemblee di rappresentanti del periodo feudale e trova fondamento, soprattutto a partire dai Parlamenti ottocenteschi, nella esigenza di tutelare da interferenze esterne non tanto i singoli parlamentari quanto le istituzioni parlamentari nel loro complesso. Ogni ordinamento giuridico ha così individuato, in modo talvolta graduale, istituti di garanzia del parlamentare e della sua attività. Alcune prerogative sono comunque generalmente previste, come l’immunità dagli arresti, l’insindacabilità per le opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni, il divieto di mandato imperativo, sia nella sua accezione più tradizionale di assenza di legami giuridici tra elettori ed eletto sia nella sua forma, politicamente più attuale, di legame tra parlamentare e partito che ne ha proposto la candidatura.

Ai parlamentari europei è stato sin dal primo momento riconosciuto uno status privilegiato. Tuttavia, poiché considerati inizialmente come rappresentanti del popolo nazionale che li aveva eletti, l’insieme delle prerogative riconosciute a ciascuno è stato quello del paese di elezione. Ciò ha determinato, in virtù delle diverse storie dei singoli parlamenti dei paesi che compongono l’UE (v. Parlamenti nazionali), una differenza, talvolta sensibile, su aspetti rilevanti quali l’immunità (che non viene comunque disciplinata nello statuto), l’insindacabilità, l’indennità.

Lo Statuto dei parlamentari europei, nel perseguire la finalità di uniformare lo status dei membri del PE, in taluni casi si è limitato a individuare il minimo comune denominatore dei diversi istituti presenti nelle legislazioni nazionali; in altri, soprattutto quelli riguardanti gli aspetti previdenziali e assistenziali, ha introdotto una disciplina innovativa rispetto a molte realtà statali. In riferimento al primo gruppo di prerogative, viene riconosciuta la libertà e indipendenza dei deputati. Pertanto è nullo qualsiasi accordo sulla modalità di esercizio dell’incarico parlamentare, dal momento che i deputati non possono essere vincolati da istruzioni o ricevere mandati imperativi. Inoltre, ed è questo un aspetto di particolare interesse, viene esplicitamente stabilita la nullità di qualsiasi accordo stipulato con il proprio partito o con altri soggetti, avente a oggetto dimissioni anticipate rispetto al termine della legislatura. Viene così codificata la regola, che negli Stati nazionali si presenta essenzialmente in forma consuetudinaria, che non siano accettate le dimissioni di un parlamentare qualora egli non le ripresenti una seconda volta in aula (al fine di evitare il ricorso dei partiti alle cosiddette “dimissioni in bianco”) e che il parlamentare non decada dalla carica qualora fuoriesca durante la legislatura dal partito che lo ha candidato alle elezioni. Nello Statuto viene dato rilievo anche al diritto del parlamentare di essere messo nelle migliori condizioni possibili per poter partecipare ai lavori dell’Assemblea. Per questo motivo è previsto che i deputati abbiano un incondizionato diritto di iniziativa, che possano accedere a tutti i documenti in possesso del Parlamento, fatta eccezione per quelli personali dei singoli, che i documenti stessi siano sempre tradotti in tutte le lingue ufficiali dell’Unione (v. Lingue), che vi sia la traduzione simultanea in tutte le lingue ufficiali di ogni intervento orale pronunciato nelle sedi parlamentari.

Particolare attenzione è dedicata, nello Statuto, agli aspetti legati all’indennità dell’europarlamentare, anche in considerazione della sensibile differenza a oggi esistente tra i deputati dei diversi paesi. Il principio base è il diritto a tale indennità, a garanzia dell’indipendenza del parlamentare, come previsto in tutti gli ordinamenti nazionali. Il cambiamento ora previsto sta nell’omogeneizzazione di tale compenso, che non viene più calcolato in base a quanto percepito dai membri dei parlamenti nazionali di elezione, bensì viene prefissato nello Statuto, utilizzando come parametro il trattamento economico di base di un giudice della Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) e calcolandone una percentuale (38,5%). Questa indennità è a carico del bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) e sottoposta a una tassazione. Carattere innovativo presenta la previsione di una indennità provvisoria, riconosciuta all’europarlamentare non rieletto, della durata massima di ventiquattro mesi, che mira a garantire una fonte di reddito all’ex deputato in attesa di un altro incarico o dell’inizio di una nuova attività lavorativa. In linea con gli ordinamenti nazionali, agli ex europarlamentari è riconosciuto, al compimento del sessantatreesimo anno, anche il diritto alla pensione, a prescindere da altri trattamenti pensionistici. È interessante notare che di tale pensione è prevista la reversibilità, elemento questo non innovativo rispetto ai diritti nazionali, anche qualora il coniuge superstite contragga nuovo matrimonio, conformemente al diritto vigente nella Comunità economica europea e in base al principio che «si tratta di una prestazione specifica e non di una previdenza» (14 considerando dello Statuto). Inoltre tale reversibilità spetta anche ai conviventi in unioni di fatto, a condizione che negli Stati membri questi ultimi siano equiparati ai coniugi.

Anna Papa (2009)




Statuto dei partiti politici europei

livello europeo volto al loro riconoscimento e finanziamento a carico del bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea), così come previsto dalla normativa comunitaria in vigore (v. anche Diritto comunitario). Gli statuti dei partiti politici europei, nel senso appena descritto, sono un portato recente nel processo di integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).

Sebbene la creazione dell’assemblea della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), nel 1952, e del Parlamento europeo (PE) della Comunità economica europea (CEE), nel 1958, avessero già portato alla costituzione di gruppi politici basati non sulla nazionalità ma sul colore politico dei membri rappresentanti, l’organizzazione delle maggiori famiglie politiche nazionali in federazioni di partiti a livello europeo risale agli anni Settanta. Le Elezioni dirette del Parlamento europeo nel 1979 avevano determinato una spinta verso una maggiore presenza dei partiti a livello europeo. Si trattava tuttavia di entità non istituzionalizzate. L’ingresso della Grecia nella Comunità nel 1981 e poi della Spagna e del Portogallo nel 1986, avevano dimostrato la grande importanza politica del processo di integrazione economica europea, che era stato in grado di attrarre nell’area delle democrazie occidentali paesi appena usciti da regimi dittatoriali. Ma mentre negli Stati europei (almeno in quelli occidentali) vigeva ormai ovunque la democrazia basata sull’attività dei partiti politici, nel modello comunitario il processo di rappresentanza democratica rimaneva paradossalmente ancora debole. Cresceva l’esigenza di colmare il Deficit democratico della Comunità, da attuarsi non solo attraverso un rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo, cosa che è avvenuta nel corso degli anni Novanta, ma anche attraverso il riconoscimento dei soggetti politici la cui funzione ideale consiste nel rendere possibile la partecipazione dei cittadini alla formazione delle scelte politiche. Su impulso dei partiti politici europei e del Parlamento europeo, in particolare, si fece largo l’opinione che non fosse più dilazionabile l’inserimento nel Trattato (v. anche Trattati) di un riferimento specifico ai partiti politici europei. Nonostante le molte resistenze soprattutto da parte di alcuni Stati membri, la cosa divenne realtà con il Trattato di Maastricht, firmato nel febbraio1992, dove all’articolo 308A si affermava che «i partiti politici a livello europeo sono importanti in quanto fattori d’integrazione nell’ambito dell’Unione. Essi contribuiscono alla formazione di una coscienza europea e all’espressione della volontà politica dei cittadini dell’Unione».

Quasi quarant’anni dopo la nascita dell’Assemblea della CECA, il processo di integrazione europea si allineava a quanto già previsto, su base nazionale, in diverse Costituzioni degli Stati membri (per esempio, all’articolo 49 della Costituzione della Repubblica italiana, che riconosce il ruolo dei partiti politici). L’indicazione del Trattato lasciava ancora incerti i modi in cui questo riconoscimento si sarebbe dovuto tradurre in termini giuridici. Si aprì quindi una stagione di dibattito all’interno delle Istituzioni comunitarie e nei partiti stessi che sfociò in varie proposte nell’ambito della Conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative) del 1996. Nessun cambiamento fu introdotto tuttavia nel Trattato di Amsterdam del 1997, a parte la numerazione dell’articolo sui partiti, che da 308A diventava 191. Il dibattito sull’articolo 191 proseguiva fino alla Conferenza intergovernativa successiva dell’anno 2000 e non sarebbero mancate nel frattempo le richieste del Parlamento europeo alla Commissione europea affinché presentasse una proposta di regolamento sullo statuto dei partiti basata sull’articolo 191 (il tentativo però sarebbe rimasto senza seguito). Al Consiglio europeo di Nizza la convergenza tra Commissione, Parlamento e presidenza francese del Consiglio (v. Consiglio dei ministri; Presidenza dell’Unione europea) gioverà a far andare in porto però l’aggiunta decisiva all’articolo 191, che aprirà la via alla presentazione di atti giuridici conseguenti e che recita: «il Consiglio, decidendo conformemente alla procedura prevista all’articolo 251 [ovvero la codecisione con il Parlamento europeo], stabilisce lo statuto dei partiti politici a livello europeo e in particolare le norme relative al loro finanziamento» (v. Procedura di codecisone). Gli Stati membri sostenitori del Principio di sussidiarietà si erano accontentati alla fine di una dichiarazione allegata al Trattato di Nizza, nella quale si precisava che «le disposizioni dell’articolo 191 non comportano alcun trasferimento di competenze alla Comunità e non intaccano l’applicazione delle corrispondenti norme costituzionali nazionali». Se dal punto di vista dei rapporti di forza tra le istituzioni europee il ruolo di colegislatore guadagnato dal Parlamento europeo a Maastricht e ad Amsterdam negli anni Novanta era servito a far fare passi avanti anche alla “questione” dello statuto dei partiti, sul piano politico la pressione dei partiti più filoeuropeisti aveva avuto ragione delle resistenze degli interessi nazionali, alla vigilia dei negoziati che avrebbero portato l’Unione europea al più grande Allargamento della sua storia e alla confluenza sulla scena europea di componenti nuove, di provenienza centro orientale, nelle famiglie politiche tradizionali.

Nondimeno, all’origine della proposta di regolamento che la Commissione presentò dopo l’entrata in vigore del Trattato di Nizza, vi era anche un’esigenza di trasparenza finanziaria, resa più pressante da una relazione della Corte dei conti del 2000, che aveva mosso una serie di rilievi contro la prassi di sovrapporre i bilanci dei partiti europei e dei Gruppi politici al Parlamento europeo.

Il regolamento (CE) n. 2004/2003 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 4 novembre 2003, relativo allo statuto e al finanziamento dei partiti politici a livello europeo, stabilisce regole precise sulle condizioni per ottenere un finanziamento e conferisce al Parlamento europeo la facoltà di adottare, entro tre mesi, previa domanda da parte di un partito politico europeo, una Decisione in merito (le sovvenzioni sono a carico del bilancio del Parlamento europeo, che è una sezione di spesa amministrativa del bilancio dell’Unione). Il PE ha, inoltre, il potere di autorizzare e gestire gli stanziamenti corrispondenti (art. 4.1). Nel primo anno di applicazione del regolamento, il 2004, le risorse disponibili in bilancio sono state distribuite agli otto partiti richiedenti che soddisfano i requisiti essenziali previsti, ovvero: avere la personalità giuridica nello Stato membro dove ha sede, essere rappresentato, in almeno un quarto degli Stati membri, da membri del Parlamento europeo, nazionale o delle assemblee regionali, oppure aver raccolto, in almeno un quarto dei paesi membri, almeno il 3% dei voti espressi in ognuno dei paesi membri nelle ultime elezioni europee; rispettare, nel programma e nell’attività, i principi sui quali è fondata l’Unione europea ovvero i principi di libertà, democrazia, rispetto dei Diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nonché lo Stato di diritto; aver preso parte o avere espresso l’intenzione di partecipare alle elezioni europee.

I gruppi politici

I gruppi politici costituiscono la vera anima della vita politica del Parlamento europeo ed è in base al loro peso e alle alleanze tra di loro che, rispettivamente all’inizio e a metà della legislatura, vengono individuate le cariche e la composizione dei diversi organi elettivi: dalla presidenza, alle commissioni e delegazioni, dai questori ai componenti dell’ufficio di presidenza (Bureau). Ai presidenti dei gruppi politici è inoltre formalmente affidata dal regolamento del Parlamento, mediante la Conferenza dei presidenti, una serie di decisioni riguardanti l’organizzazione dei lavori del Parlamento europeo (ordine del giorno delle sedute plenarie, autorizzazioni di vario tipo per missioni e istituzione di organi temporanei, ecc.). Il funzionamento istituzionale di questo organo, presieduto dal presidente del PE, è garantito da funzionari del Segretariato generale mentre, per le scelte di merito, i membri politici sono assistiti da consiglieri dei rispettivi gruppi di appartenenza.

I gruppi politici contribuiscono a formare le decisioni politiche prese dal PE in ambito politico, legislativo e di bilancio, sulla base delle risoluzioni e degli emendamenti approvati lungo tutta la fase delle procedure del PE, dai voti nelle commissioni parlamentari a quelli della “plenaria”, che spesso possono differire proprio a causa del diverso peso e della diversa composizione dei gruppi all’interno dei singoli organi deliberanti. La formazione di alleanze tra i gruppi e l’elaborazione di soluzioni di compromesso tra le diverse posizioni vengono raggiunte, di regola, dopo che all’interno dei singoli gruppi le varie componenti hanno raggiunto, a loro volta, una posizione comune. Questi processi e meccanismi intervengono nel corso di regolari riunioni di gruppo che precedono quelle corrispondenti degli organi del PE. Le decisioni prese dai componenti di un gruppo nell’ambito del lavoro di una determinata commissione parlamentare (ad esempio, la preparazione del voto relativo a una proposta di legge), vengono solitamente rese note preventivamente alla riunione generale del gruppo, in modo da raccogliere e far propri gli eventuali orientamenti dei Vertici. Dopo il voto in commissione, i gruppi hanno poi formalmente la possibilità di intervenire ulteriormente per presentare emendamenti al testo che giungerà in aula per il voto definitivo, come previsto dal regolamento del PE.

Anche i dibattiti politici, durante le plenarie del PE, si svolgono sulla base dei tempi messi a disposizione dei gruppi politici da parte del presidente, seguendo l’ordine della loro consistenza numerica. Il primo giro di interventi, politicamente più rilevanti, riguarda i presidenti dei gruppi. Molte volte, taluni dibattiti su questioni urgenti e di grande rilevanza per la vita dell’Unione (ad esempio l’audizione del Presidente della Commissione europea o del presidente di turno del Consiglio dopo un vertice europeo) si svolgono, se il PE non è riunito in seduta plenaria, sotto forma di convocazioni della Conferenza dei presidenti di gruppo, eventualmente allargata ad altri membri del PE.

Dopo le elezioni del giugno 2004, le prime dell’Unione a 25 Stati membri, si sono formati sette gruppi (otto, considerando anche quello che riunisce i non iscritti) sulla base dei requisiti previsti dal regolamento del PE. I gruppi attualmente sono i seguenti: Partito popolare europeo-Democratici europei (PPE-DE), Partito socialista europeo (PSE), Alleanza dei liberali e democratici per l’Europa (ADLE) (v. Liberaldemocratici europei), Partito verde europeo, Gruppo confederale della sinistra unitaria europea (GUE) (v. Gruppo della sinistra europea e della sinistra verde nordica), Indipendenza e democrazia (IND/DEM), Unione per l’Europa delle nazioni (UEN), Identità, tradizione, sovranità (ITS), Non iscritti (NI). Nelle loro file sono attivi membri di diversi paesi, che sono normalmente riuniti in delegazioni nazionali facenti capo a una stessa compagine politica dello Stato di provenienza. È in base al peso delle diverse delegazioni nazionali nell’ambito del gruppo di riferimento che vengono assegnate sia le cariche all’interno del gruppo stesso, sia quelle spettanti al gruppo nell’insieme degli organi elettivi del PE. Le posizioni politiche dei membri sono prese abitualmente in linea con gli orientamenti generali e secondo la disciplina del gruppo di appartenenza. Può tuttavia capitare che talune maggioranze su voti relativi ad attività parlamentari siano raggiunte in base a sensibilità nazionali trasversali ai gruppi o mediante la formazione di alleanze anomale tra gruppi politicamente molto distanti tra loro.

I membri possono in qualunque momento decidere di lasciare un gruppo, per passare a un altro o per restare indipendenti all’interno del gruppo dei non iscritti. Se lascia un gruppo, il membro può mantenere la carica eventualmente ricoperta, in quanto questa è stata sì ottenuta in base a una designazione del gruppo di provenienza, ma formalmente approvata dall’organo competente del PE che si riferisce alla persona fisica del deputato eletto.

La scelta del singolo o di più deputati di lasciare un gruppo può derivare da varie cause, tra cui ad esempio, la volontà di non sottostare alle decisioni prese dal gruppo di appartenenza sull’ingresso di nuovi membri, sulla fusione con un altro gruppo, o ancora sul mutamento di alleanze politiche in ambito nazionale. Analogamente, il gruppo può decidere se accettare l’esclusione, la sospensione o l’espulsione di uno o più membri, in base alle regole interne del gruppo stesso.

Storicamente, i gruppi sono nati prima dei partiti politici europei, e anche se sono esistiti dall’inizio, tra i primi e i secondi, forti legami dal punto di vista dell’ispirazione e dei programmi, lo statuto di questi ultimi, entrato in vigore nel 2004, prevede una netta separazione tra i due soggetti, almeno sotto il profilo amministrativo e contabile. I gruppi dispongono di un proprio bilancio e di propri funzionari, inquadrati a parte rispettivamente nel bilancio generale e nell’organigramma del personale del PE. Essi sono organizzati autonomamente, in modo gerarchico e in linea con la composizione del Segretariato e degli organi del PE. I gruppi possono impegnare le proprie risorse finanziarie, ad esempio, per organizzare seminari di formazione politica, audizioni di esperti, documentazione e materiale divulgativo o promozionale, nonché riunioni politiche al di fuori delle strutture del PE.

Massimo Palumbo (2009)




Stavros G. Roussos




Stewart, Michael

S. (Londra 1906-ivi 1990) studiò al Christ’s Hospital di Horsham, nel West Sussex e al St. John College, a Oxford, dove fu presidente della Oxford Union e si laureò nel 1929. Lavorò con la Società delle Nazioni prima di diventare insegnante, collaborando inoltre dal 1931 al 1942 con la Workers’ educational association. Si candidò invano per due seggi parlamentari prima di essere eletto nel 1945 membro del parlamento per Fulham. Mantenne tale carica fino al 1979, quando divenne pari a vita. Ricoprì vari incarichi governativi per brevi periodi tra il 1964 e il 1968. Fu dapprima segretario di Stato per l’Istruzione e la scienza, poi segretario per gli Affari esteri e in seguito ministro degli Affari economici. Nel 1968 ritornò al (neoistituito) ministero degli Affari esteri e del Commonwealth (FCO) come segretario di Stato dopo le dimissioni di George Brown.

Considerato saldo e affidabile, dotato di integrità intellettuale, ma di scarsa inventiva (v. Healey, 1989, p. 297) era però un coscienzioso socialista di tradizione fabiana (v. Benn, 1995), la cui lealtà verso il primo ministro Harold Wilson era fuori discussione (v. Young, 2005).

La posizione di S. nei confronti dell’adesione britannica alla Comunità economica europea (CEE) si sviluppò nel periodo degli incarichi al ministero degli Esteri. Nel 1965 paventava l’impatto di un secondo rifiuto da parte di Charles de Gaulle (v. Parr, Pine, 2006, p. 112), ma in seguito si convinse che l’adesione fosse necessaria per mantenere il ruolo mondiale del Regno Unito. Quindi, come la maggior parte dei politici britannici, considerò la CE un mezzo per raggiungere uno scopo, non essendo un integrazionista nato. Era sensibile al problema della minaccia rappresentata dall’egemonia francese per il ruolo britannico. Il motivo principale per cui S., e il ministero degli Esteri, volevano che il Regno Unito cercasse di aderire al più presto alla CE era quello di contenere l’influenza francese in Europa (v. Parr, Pine, 2006). Sebbene S. e il suo predecessore George Brown condividessero la stessa opinione sul motivo dell’adesione alla CE, e cioè che fosse un mezzo per conservare al Regno Unito lo status di potenza mondiale, in realtà partivano da motivazioni differenti. Brown prevedeva un glorioso futuro di dominio anglo-francese, S. una comunità tra pari.

Per quanto concerne de Gaulle, S. riteneva a ragione che questi non si sarebbe mai persuaso ad accettare la candidatura britannica. Tuttavia, come lo stesso S. aveva sottolineato a Wilson durante il suo primo mandato al ministero degli Esteri, né de Gaulle né le sue politiche erano immortali (v. Parr, 2005, p. 440). Era quindi necessaria una figura di politico-negoziatore paziente e tenace che fosse anche capace di immedesimarsi nelle preoccupazioni dei membri della CE. A tal fine, poteva essere utile un tentativo di divide et impera. Come S. spiegò a Roger Jackling (secondo sottosegretario di Stato al ministero della Difesa), era necessario far capire ai tedeschi che «de Gaulle non è un loro amico» (v. Young, 2005). In un discorso all’Unione dell’Europa occidentale tenuto il 26 aprile 1968, affermò che il Regno Unito voleva l’adesione a pieno titolo alla CE e che qualsiasi accordo commerciale doveva essere «chiaramente e indissolubilmente vincolato» a essa (ivi, p. 495).

In primo luogo, S. svolse un ruolo importante nel determinare l’approccio di Wilson verso la CE. Nel 1965, con l’aiuto dell’abilità argomentativa di Brown, aveva convinto il primo ministro che una relazione più stretta con la CE avrebbe aiutato il Regno Unito ad aumentare la sua influenza mondiale, posizione che Wilson mantenne poi per tutto il suo governo.

S. inoltre riuscì a mantenere lo slancio verso l’adesione alla CE. E lo fece esercitando pressioni costanti sui colleghi e sulle controparti europee. Resta il fatto che il suo approccio pragmatico, per quanto possibile, riuscì a depoliticizzare o almeno a eliminare parte degli elementi di “alta politica” dalla procedura di decision-making. Pertanto i negoziati poterono proseguire, pur fallendo, senza assumere la dimensione a somma zero in termini di vincitori e vinti.

Si può dire che il ritardo dell’ingresso britannico fu dovuto principalmente all’inflessibilità di de Gaulle e che quando questi si dimise, l’adesione alla CE divenne subito possibile. Tuttavia, è lecito ipotizzare che senza gli sforzi di S., l’adesione della Gran Bretagna alla CE avrebbe potuto essere ritardata per molto più tempo.

Janet Mather (2012)




Stikker, Dirk Uipko

S. (Winschoten 1897-Wassenaar 1979) è stato un imprenditore e politico olandese, cofondatore del Partito liberale (Volkspartij voor Vrijheid en Democratie, VVD) nel 1948, primo ministro degli Esteri del dopoguerra, segretario generale dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) e presidente dell’Organizzazione europea di cooperazione economica (OECE). È stata una tra le personalità più interessanti del panorama politico dei Paesi Bassi del secondo dopoguerra, il cui efficace e originale apporto contribuì in misura non secondaria a delineare la fisionomia internazionale dell’Olanda postbellica.

Cresciuto sui terreni argillosi di Oldambt, la cittadina rurale in provincia di Groninga dove la famiglia Stikker si trasferì nel 1905, ed educato secondo i principi del cristianesimo protestante, U. trascorse la sua infanzia in un ambiente sereno ed economicamente agiato.

Eccezion fatta per un soggiorno annuale in Svizzera, impostogli dalle precarie condizioni di salute – le stesse che avrebbero, negli anni a venire, sensibilmente limitato gli sviluppi della sua carriera –, S. trascorse a Groninga l’intero periodo della formazione, diplomandosi presso il liceo locale e laureandosi in giurisprudenza alla Rijksuniversiteit (l’ateneo statale), il 31 marzo 1922. Nella stessa città dei Paesi Bassi settentrionali il giovane giurista intraprendeva la carriera finanziaria presso la Groninger Bank. Non si trattò, in realtà, di una scelta casuale. Appena adolescente, infatti, S. aveva vissuto uno tra i momenti più drammatici della sua vicenda personale, causa l’improvviso licenziamento del padre e le conseguenti difficoltà economiche cui la famiglia S. aveva dovuto far fronte. Tuttavia, proprio attorno a quell’esperienza il pur gracile studente di liceo, oltre a sviluppare un precoce senso di responsabilità, aveva maturato la decisione di riprendere il cammino professionale interrotto dal genitore. Già nel 1923 guadagnava ampi riconoscimenti nell’ambito della Twentsche Bank di Amsterdam – l’istituto di credito nel quale si era consumato il fallimento professionale e il collasso finanziario del padre –, mentre nel 1926 assumeva la direzione di una filiale autonoma della stessa banca, la Lissesche Bankvereening, a Lisse, nella zona dei tulipani. Seguivano, negli anni della crisi economico-finanziaria mondiale, delicati incarichi dirigenziali nelle sedi distaccate di Leida, dal 1931 al 1934, e di Haarlem, finché, il 1 luglio del 1935, Henry Pierre Heineken – impressionato dall’abilità di S. nel risolvere le problematiche finanziarie di un amico comune – promosse la nomina del pragmatico funzionario della Twentsche Bank alla direzione del birrificio di Amsterdam. Un passaggio essenziale nella poliedrica biografia del giurista groninghese, il quale, in virtù di tale promozione, si avviò a una brillante ascesa nel mondo imprenditoriale.

Assunto l’incarico, S. si dedicò con particolare attenzione all’ampliamento degli impianti esteri della Heineken. Allo scopo, effettuò numerosi viaggi attraverso il vecchio continente, come pure oltreoceano, addentrandosi, di fatto, nella complessa realtà delle dinamiche economiche internazionali. Sempre nell’ambito dell’importante birrificio, nel 1938, passò a dirigere la sezione Affari sociali, occupandosi della regolamentazione dei rapporti di lavoro. In tale contesto, S., progressivamente più interessato agli sviluppi dell’imprenditoria sociale, aderì all’Unione dei datori di lavoro olandesi (Verbond van nederlandse werkgevers), all’interno della quale avrebbe assunto una posizione di grande rilievo, anche e soprattutto negli anni della guerra. Con l’invasione tedesca dei Paesi Bassi, infatti, nel maggio del 1940, l’esperto dirigente della Heineken estese la sfera delle sue competenze a livello nazionale, iniziando a predisporre l’assistenza finanziaria agli impianti che erano stati privati dei mezzi di sussistenza dalle autorità occupanti. Attorno a tale attività, S. costruì un’intensa rete di contatti tra la classe imprenditoriale, di cui rimaneva pur sempre un portavoce, e i rappresentanti di sindacati e organizzazioni del lavoro, le cui sistematiche consultazioni, a partire dal 17 maggio 1945, vennero formalizzate nell’ambito della Fondazione del lavoro (Stichting van de Arbeid). Finalizzata a istituzionalizzare una forma di cooperazione permanente tra i gruppi sociali coinvolti nel sistema produttivo nazionale, la Fondazione, della quale S. assunse la presidenza, svolse un ruolo di primissimo piano nei difficili anni della ricostruzione postbellica, provvedendo ad allentare le tensioni sociali e ad arginare eventuali conflittualità nel mondo del lavoro.

Personalità di spicco nel quadro del dibattito di alto livello sul rinnovamento sociale olandese, tra il 1945 e il 1948 il cofondatore della Stichting fu chiamato a ricoprire diversi incarichi di prestigio nell’ambito delle organizzazioni di categoria sorte nell’immediato dopoguerra, essendo nominato presidente, tra gli altri, della Centraal sociaal Werkgevers Verbond (Unione centrale sociale dei datori di lavoro) e del Raad van Bestuur in Arbeidszaken (Consiglio d’amministrazione per le questioni del lavoro).

A una tale varietà di funzioni, peraltro esercitate con estrema serietà di impegno e coerenza di propositi, si accompagnò una progressiva affermazione sulla scena politica, in specie all’interno del Partito liberale, del quale, già dagli anni di Groninga, S. si era professato sostenitore. Sensibilmente allarmato per la crescente marginalizzazione delle correnti liberali nella costellazione politica dell’Olanda postbellica – a vantaggio, peraltro, delle forze cattoliche e progressiste –, l’efficiente funzionario della Heineken contribuì a promuovere e partecipò direttamente all’operazione di riforma interna del partito avviata all’indomani della liberazione, la quale, il 23 marzo 1946, si concluse con la nascita del Partij van de Vrijheid (PvdV). Si compì, in quella data, il giro di boa che avrebbe irreversibilmente allontanato il pur abile uomo d’affari dalla scrivania del birrificio di Amsterdam, proiettandolo al centro dell’articolato decision-making olandese di fine anni Quaranta.

Eletto, nel 1946, dapprima presidente del PvdV e poi senatore alla Prima camera dei Paesi Bassi, in due anni riuscì a portare a termine la fusione tra il suo partito e il gruppo democratico-liberale (Vrijzinnig-Democratische Bond, VDB) raccolto attorno al carismatico Pieter J. Oud – già ministro delle Finanze nel governo di centrodestra di Hendrik Colijn (1933-1935), nonché sindaco di Rotterdam –, procedendo alla fondazione, il 14 gennaio del 1948, del nuovo Partito popolare per la libertà e la democrazia (Volkspartij voor Vrijheid en Democratie, VVD).

Nato nella prospettiva di rilanciare l’iniziativa politica dei liberali – i quali, riuniti nella cornice del VVD, intendevano presentarsi in una nuova veste, più attenta alle tematiche sociali e alle problematiche internazionali postbelliche –, nello stesso anno della fondazione, il partito conseguiva un discreto successo al primo vaglio elettorale, con evidente soddisfazione del presidente S., designato ministro degli Esteri il 7 agosto 1948.

Non che la nomina del presidente del VVD fosse stata casuale. Le cogenti priorità sull’agenda dell’Aia, infatti, prima fra tutte l’importante riforma costituzionale – essenziale per ridefinire i rapporti con la neoistituita Repubblica d’Indonesia –, avevano imposto alla nuova coalizione cattolico-socialista, presieduta da Willem Drees e Josef R.H. Van Schaik, di predisporre un consistente ampliamento della base politica di governo. Da qui, l’apertura ai liberali del VVD e ai conservatori protestanti del Christelijk historische Unie (CHU). L’inattesa centralità della posizione assunta nel decision-making nazionale, aveva conferito al partito di S. un’inedita capacità contrattuale. E, certo, i liberali non esitarono a esercitarla. Lo stesso presidente, infatti, inizialmente preposto al vertice del ministero dei Lavori pubblici (Ministerie van Waterstaat), dopo aver rifiutato l’incarico, aveva fatto leva sul proprio peso politico per ottenere la nomina al dicastero degli Esteri, con la quale avrebbe contestualmente acquisito un’influenza decisiva sulla definizione della politica indonesiana.

Assunto il mandato, nell’intento di rafforzare il ruolo dei Paesi Bassi su uno scenario internazionale fortemente dinamico, S. avviò una profonda riorganizzazione del ministero, promuovendo anche iniziative audaci, tra le quali il riconoscimento, nel marzo del 1950, della Repubblica Popolare Cinese. È pur vero che, per quanto tentasse di ottemperare simultaneamente e con egual efficienza ai diversi e gravosi impegni attinenti la sua funzione istituzionale, l’interesse principale del ministro ruotava quasi interamente attorno alla complessa questione indonesiana. Già nel 1947, in effetti, ancora rappresentante del VVD al Senato, S. aveva mostrato particolare sensibilità al problema, sostenendo a gran voce il primo intervento dei contingenti dei Paesi Bassi (politionele actie) nella Repubblica del Sudest asiatico, deciso dall’Aia per porre fine alle operazioni di esproprio delle attività economiche perpetrate dal governo di Sukarno ai danni degli imprenditori olandesi. Un’iniziale rigidità di vedute – peraltro fondata sulla convinzione che il possesso dell’arcipelago, per quanto limitato dopo la nascita dell’Unione olandese-indonesiana, nel 1945, rappresentasse un elemento essenziale nel processo di sviluppo economico dell’Olanda – che presto cedette il passo a un orientamento più moderato, frutto di considerazioni di ordine spiccatamente pragmatico. Intorno alla metà del 1948, infatti – dopo essersi recato personalmente in Indonesia e aver intrattenuto contatti diretti con i rappresentanti dell’imprenditoria locale, nonché a seguito di un viaggio negli Stati Uniti, durante il quale aveva constatato la sostanziale reticenza di Washington a offrire sostegno all’Aia nella sua spregiudicata opera di repressione dei tentativi autonomistici indonesiani – il ministro liberale prendeva le distanze dal fronte degli intransigenti. Tale, repentina, inversione di rotta suscitò violente reazioni, e non solo da parte di alcuni esponenti del VVD, i quali rilevavano la profonda contraddizione tra la posizione di S. e la linea politica adottata dal partito. Il ministro degli Esteri entrò altresì in permanente rotta di collisione con quello dei Territori d’Oltremare, il cattolico Emmanuel M.J.A. Sassen, giungendo allo scontro diretto, e alla conseguente esasperazione dei toni, sia in occasione della seconda politionele actie, il 19 dicembre del 1948, e ancor più nel febbraio del 1949, allorché, durante un’infuocata riunione del Consiglio dei ministri, Sassen rassegnò le dimissioni.

Nonostante il momentaneo successo, registrato sull’antagonista cattolico, cui si affiancò, il 27 dicembre 1949, la soddisfazione per la definitiva concessione della sovranità all’Indonesia, era evidente che l’astro di S. al ministero degli Esteri, nonché tra le file del VVD, stesse irreversibilmente tramontando. E altrettanto chiaramente si poteva prevedere che l’allontanamento del ministro liberale dalle stanze del Binnenhof (il palazzo del governo olandese) si sarebbe deciso attorno agli sviluppi della politica coloniale. Di fatto, già all’inizio del 1951, la richiesta di dimissioni di S. raggiungeva i tavoli dell’Aia. Una scelta dolorosa, ma inevitabile, dacché la totalità dei liberali, stretta intorno a Oud, aveva votato una mozione di sfiducia nei confronti del governo, dopo un acceso dibattito parlamentare sulla cessione della Nuova Guinea alla Repubblica indonesiana.

L’incarico di S. al ministero degli Esteri olandese si chiudeva, quindi, in netto anticipo rispetto alla scadenza naturale del mandato. E non senza amarezza da parte del pur realista cofondatore del VVD, il quale, oltre a porre fine alla propria carriera nel policy-making nazionale, chiudeva la pagina della sua militanza nel partito. E il rammarico si accentuava all’esame della buona prova che il ministro dimissionario aveva offerto alla guida di uno tra i dicasteri più attivi del secondo dopoguerra, responsabile sia di definire i termini della partecipazione olandese all’Alleanza atlantica, sia di garantire l’adesione dei Paesi Bassi al nascente processo di integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). In tale articolato contesto, in effetti, S. aveva energicamente avviato e sostenuto l’ancoraggio dell’Aia all’Occidente e all’Europa comunitaria, nell’interesse primario e trasversale di conferire credibilità internazionale e peso politico al piccolo stato continentale. Senza, peraltro, sacrificare l’autonomia decisionale del paese. Difatti, per quanto attiene alla politica atlantica, il ministro olandese in più di un’occasione mostrò di privilegiare la friendly relationship con Londra piuttosto che l’allineamento alle posizioni di Washington. Questa, del resto, la chiave di lettura del riconoscimento accordato alla Repubblica Popolare Cinese, nonché dell’atteggiamento critico di S., negli anni della guerra di Corea, rispetto all’aspirazione statunitense al confronto diretto con la Cina. Del tutto in linea con le ambizioni dell’alleato americano, per converso, il tentativo di normalizzazione dei rapporti con la Repubblica Federale Tedesca (RFT), che certo rispondeva a considerazioni di opportunità pratica – data la forte dipendenza del sistema economico olandese dal dialogo commerciale con la Germania – piuttosto che a una reale volontà di riconciliazione con il recente invasore. Le stesse ragioni pragmatiche, del resto, sostenevano la posizione di S., favorevole alla pacifica ripresa dei contatti, nel dibattito interno dell’Aia sulla ridefinizione delle relazioni con il vicino orientale. Lungi dal coltivare latenti malanimi, peraltro, il ministro degli Esteri manifestò sempre insofferenza, pur tentando la mediazione, nei confronti degli eccessi revanscistici del Parlamento olandese, anche e soprattutto rispetto alla possibile correzione dei confini dei Paesi Bassi ai danni della Germania, come riparazione di guerra.

In materia di integrazione europea, di là dalla percezione della costruzione comunitaria come fattore di ulteriore coesione tra gli stati dell’Occidente, la politica di S. fu essenzialmente espressione di un solido pragmatismo, nonché scevra da qualsiasi tensione ideale. Già al volgere degli anni Quaranta, infatti – mentre l’Aia ospitava il Congresso d’Europa (v. Congresso dell’Aia) –, il ministro liberale aveva preso apertamente le distanze da quella che considerava “la pseudo-religione” federalista, peraltro ampiamente professata nelle Camere olandesi (v. Bank, 1999, p. 188) (v. Federalismo).

Il 15 giugno 1950, cioè a poco più di un mese di distanza dalla Dichiarazione Schuman (v. Schuman, Robert), fu lo stesso S., in qualità di presidente dell’OECE, a chiarire ai membri dell’organizzazione parigina quali fossero le reali priorità della sua politica europea, presentando il proprio Piano d’azione per l’integrazione economica europea, meglio noto come Piano S. Si trattava di un’iniziativa di ampio respiro, la quale mirava a raggiungere il massimo grado di cooperazione tra gli stati continentali – da conseguire, sulla base del metodo monnetiano, attraverso la graduale realizzazione di un libero mercato europeo e di un fondo comune di assistenza ai governi nazionali – riducendo al minimo i contraccolpi politici dell’integrazione, cioè le limitazioni di sovranità, giacché sarebbe stato il Consiglio dell’OECE, di natura intergovernativa, l’istituzione incaricata di coordinare gli sviluppi del processo (v. Stikker, 1965, pp. 184-185). Non che S. fosse contrario alla sovranazionalità in quanto tale, piuttosto nutriva forti perplessità sulla capacità degli Stati europei di recepirne il dettato. E soprattutto il tenace assertore della special relationship anglo-olandese temeva che il Regno Unito – componente imprescindibile, agli occhi del ministro, del nuovo quadro di cooperazione continentale – avrebbe tentato quanto più a lungo possibile di restare al margine di un processo di unificazione europea impiantato sul modello proposto da Jean Monnet.

Apprezzabile per la lucidità di talune considerazioni, il Piano S. fu comunque destinato a un’eclissi silenziosa, consumatasi tra le grandi amarezze del suo ideatore e i rapidi successi del Piano Schuman. Come conseguenza, il presidente olandese dell’OECE, che pure restò in carica fino al 1952, lasciò da parte la riflessione sul futuro dell’Europa per dedicarsi con maggiore impegno alle problematiche nazionali.

Nell’ottobre 1952, designato ambasciatore dei Paesi Bassi a Londra, S. si trasferiva nella capitale britannica. L’ex ministro, tuttavia, che pure aveva atteso a lungo e ripetutamente richiesto di essere preposto a tale funzione, mostrò presto di mal tollerare la forzata dipendenza dalle istruzioni dei suoi successori agli Esteri. Il 15 giugno del 1958, pertanto, prescelto dal governo olandese sulla base della sua consolidata esperienza nelle organizzazioni interstatali, non ebbe remore ad accettare la nomina a Rappresentante permanente dell’Aia presso l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (North Atlantic treaty organization, NATO) e l’OECE. S. raggiunse il punto più alto della sua carriera politica con la nomina a Segretario generale della NATO il 21 aprile 1961. Pur vedendosi costretto, nell’agosto 1964, a rassegnare le dimissioni, causa il progressivo aggravarsi delle sue condizioni di salute, si dichiarò ampiamente soddisfatto del contributo offerto alla causa dell’Occidente, ancorché il suo mandato avesse coinciso con un momento di eccezionale tensione sullo scenario bipolare, segnato dall’erezione del Muro di Berlino, dalla crisi dei missili a Cuba e dalla complessa questione di Cipro (v. http://www.trumanlibrary.org/oralhist/stikker2.htm).

Seguirono molteplici incarichi a livello amministrativo, nell’ambito, tra gli altri, del gruppo Shell e della Asian development bank (v. Boon, 1985, vol. II, p. 536).

Prima che la morte lo cogliesse nel dicembre 1979, S. si riconciliò con quel Partito liberale di cui aveva efficacemente promosso la rinascita e il consolidamento. Nominato, nel 1973, membro onorario del VVD, celebrò solennemente il suo definitivo congedo dalla scena politica olandese alla cerimonia inaugurale della sede del segretariato della sezione centrale del partito, nonché dell’organizzazione dei giovani liberali.

Giulia Vassallo (2010)




Stoiber, Edmund

S. nacque il 28 settembre 1941 nel villaggio bavarese di Oberaudorf, nei pressi di Rosenheim. Il politico conservatore cattolico-romano è sposato dal 1969 con Karin, da cui ha avuto tre figli.

Dopo aver conseguito il diploma di scuola superiore, S. prestò servizio militare in una base della Divisione montana bavarese. Frequentò la facoltà di legge e scienze politiche a Monaco, e divenne poi assistente alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Regensburg. Dopo aver passato anche il secondo esame di Stato in diritto e aver conseguito il dottorato, nel 1971 fu assunto al ministero per lo Sviluppo economico e l’ambiente del Land bavarese, e si iscrisse al Partito cristiano-sociale (Christlich-soziale Union, CSU). Appena un anno dopo fu nominato consigliere personale del ministro bavarese Franz-Josef Strauß, e conservò l’incarico per due anni. Dal 1974 fu membro del parlamento bavarese. Sino al 1976 fu presidente dell’organizzazione giovanile del Partito cristiano democratico, (Junge Union), nel distretto natale di Bad Tölz-Wolfratshausen, e successivamente detenne la presidenza di un direttivo della CSU nell’Alta Baviera. Tra il 1978 e il 1984 fu altresì membro del Consiglio regionale bavarese. Nel 1978 ottenne l’abilitazione per esercitare l’avvocatura, e dal 1978 al 1982 fu funzionario dell’Associazione bavarese del lotto.

Nel 1978 Strauß nominò S. segretario generale della CSU, e il giovane politico relativamente di basso profilo iniziò una rapida carriera. La sua ascesa nei ranghi della CSU, la controparte dell’Unione cristiano-democratica (Christlich-demokratische Union) in Baviera, fu caratterizzata da una ferrea determinazione. Molti lo consideravano un burocrate austero e pignolo. Come segretario generale della CSU, carica che detenne sino all’aprile del 1983, S. fu responsabile della campagna elettorale del 1980, quando Strauß fu il principale candidato della CDU/CSU contro il cancelliere Helmut Schmidt, dal quale però fu sconfitto. Le frequenti gaffes di S. nei confronti degli avversari politici in quegli anni gli procurarono anche le critiche dei conservatori. Tuttavia ciò non impedì l’ascesa nella CSU di S., forte dell’appoggio del potente Strauß. Dal 1982 al 1988 egli divenne così capo della Cancelleria di Stato bavarese, prima come segretario di Stato e dal 1986 come ministro.

Dopo la morte di Strauß nel 1988 S. divenne ministro degli Interni della Baviera sotto il nuovo primo ministro Max Streibel. Dal novembre 1989 all’ottobre 1993 fu vicepresidente della CSU. Quando Streibel dovette dimettersi dall’incarico nel maggio 1993 perché accusato di aver ricevuto finanziamenti illeciti da un costruttore di aerei suo amico (il cosiddetto “scandalo Amigo”), S. divenne primo ministro della Baviera, sebbene egli stesso rimanesse coinvolto nello scandalo in quanto risultò che avesse beneficiato di una serie di favori (macchine a noleggio e voli aerei gratis) elargiti dal costruttore in questione. Né questo né altri scandali intralciarono però la carriera di S, che nelle elezioni del 1994 e del 1998 in Baviera riuscì a difendere la maggioranza assoluta della CSU e ottenne addirittura la maggioranza dei due terzi nelle elezioni del 2003. Con il 60,7% dei voti ottenne il secondo miglior risultato elettorale nella storia della CSU.

S. fece proprio con successo il modello culturale bavarese caratterizzato da un’associazione di modernità e tradizione – impetuoso sviluppo dell’industria high-tech e attaccamento alla tradizione conservatrice della regione. Era stato il mentore politico di S., l’arciconservatore Strauß, a creare stretti legami tra industria e sistema di istruzione e a investire massicciamente nei trasporti e nelle infrastrutture, creando le basi di quel successo di cui S. si dimostrava ora così orgoglioso. Sebbene i due avessero un aspetto estremamente diverso – il grosso e chiassoso Strauß, personificazione del tipo ideale dell’epicureo, contro l’austero e disciplinato burocrate – i due condividevano le medesime concezioni saldamente conservatrici. S. fu un fermo oppositore della decisione del governo federale di legalizzare i matrimoni gay, insistendo sui valori familiari tradizionali, e uno strenuo difensore dei simboli cristiani nella vita pubblica. Lo sciagurato tentativo del suo governo nel 1998 di deportare in Turchia assieme ai suoi familiari un giovanissimo delinquente nato e cresciuto in Germania esemplifica assai bene la linea dura di S. nei confronti degli immigrati. Quando le leggi sull’immigrazione diventarono una priorità dell’agenda politica, al congresso della CSU del novembre 1992 S. – all’epoca ministro dell’Interno della Baviera – espresse chiaramente le sue idee di estrema destra sulla questione, affermando che «la Germania non è un paese di immigrazione, e quindi non ha bisogno di una legge sugli immigrati» (v. http://www.net-lexikon.de/Edmund-Stoiber.html). Nell’autunno del 1999 S. attirò l’attenzione dei paesi europei suggerendo al partito popolare conservatore dell’Austria di formare una coalizione con il partito di destra di Jörg Haider. S. si fece anche portavoce degli interessi dei tedeschi espulsi dagli ex territori tedeschi dell’Europa orientale. In particolare, chiese una compensazione al governo ceco per i decreti di Beneš del secondo dopoguerra, poiché la maggior parte dei sudeti espulsi si erano insediati in Baviera. Tuttavia suscitò forti contrasti il suo tentativo di collegare la questione dei risarcimenti ai tedeschi espulsi all’accesso della Repubblica Ceca all’Unione europea (UE). S. non solo si oppose all’ingresso incondizionato della Repubblica Ceca nell’UE, ma rifiutò anche un’eventuale adesione della Turchia in ragione della sua religione non cristiana. Coerentemente con queste posizioni, il politico chiese fermamente di inserire nella Convenzione europea un paragrafo in cui fosse ribadito il carattere cristiano della cultura europea.

Nel gennaio 2002 S. riuscì a ottenere la candidatura al cancellierato dal leader della CDU Angela Merkel, diventando così, dopo Strauß, il secondo candidato della CSU alla più alta carica federale. Il problema ora era quello di farsi accettare dal resto della Germania, che non aveva la stessa forte impronta cattolica e conservatrice della Baviera. Così S. moderò i toni per evitare gli errori commessi da lui e dal suo mentore politico nel 1980. Questo nuovo corso, tuttavia, comportava il rischio di alienargli le simpatie della base di destra, senza nel contempo consentirgli di conquistare il favore degli altri elettori, non pienamente convinti dalla sua svolta politica. S. evitò così di fare dell’immigrazione il tema centrale della sua campagna elettorale nell’autunno di quell’anno, e promise anzi che, qualora fosse diventato cancelliere, non avrebbe ribaltato la politica del governo che aveva così fortemente criticato in precedenza.

La campagna elettorale iniziò male, costellata da una serie di gaffes (ad esempio S. chiamò l’ospite di un programma televisivo con il nome del presidente della CDU Angela Merkel, e non riuscì a ricordare il nome della Deutsche Telekom, la più grande società europea di telecomunicazioni) ma ciononostante i sondaggi di opinione lo davano in vantaggio. Oltre che sulle questioni della sicurezza interna, S. concentrò con successo l’attenzione sulla politica economica e sociale, in particolare sul tasso di disoccupazione particolarmente alto.

Ripetutamente accusato di essere coinvolto in faccende poco chiare all’epoca in cui era il braccio destro di Strauß, S. doveva solo sperare che lo scandalo dei finanziamenti illeciti ai partiti che aveva travolto la CDU sotto Helmut Kohl non lo coinvolgesse. L’ultima di una lunga serie di accuse prima delle elezioni del 2002 veniva dall’uomo d’affari Karlheinz Schreiber, il quale sosteneva di aver erogato un finanziamento di due milioni di marchi tedeschi (circa un milione di euro) alla CSU negli anni Ottanta, accuse che S. respinse fermamente.

Alla fine, a impedirgli di diventare il primo politico bavarese a guidare il governo di una Germania federale non furono né le accuse di corruzione, né il carattere scialbo, soprattutto al confronto con Gerhard Schröder, delle sue apparizioni televisive, bensì l’incapacità di definire un programma di governo nelle ultime, cruciali settimane che precedettero le elezioni del 22 settembre. Quando, durante l’estate, una vasta alluvione colpì la Germania orientale il cancelliere Schröder ne approfittò per presentarsi come la guida energia e sollecita della nazione, laddove S. e il suo potenziale partner di coalizione liberale si dimostrarono impreparati rispetto ai problemi ambientali e poco sensibili alle sorti della popolazione colpita dal disastro. Ma soprattutto, Schröder conquistò il favore della maggioranza dei tedeschi con una ferma opposizione all’imminente azione militare degli Stati Uniti contro l’Iraq, mentre S. assunse un atteggiamento ambiguo e contraddittorio su questo tema centrale.

Sebbene S. contribuisse a migliorare i risultati elettorali della CDU/CSU e del suo alleato liberale rispetto a quattro anni prima, non riuscì ad avere la meglio sulla coalizione rosso-verde. Tuttavia, tra i successi della sua campagna elettorale vi fu l’ampliamento della propria sfera di influenza politica dalla nativa Baviera al centro della scena politica.

Elke Viebrock (2006)




Stoltenberg, Gerhard

S. nacque il 29 settembre 1928 a Kiel, in Germania. Il padre era un pastore protestante, la madre insegnante. Poco si sa dell’infanzia di S. nella piccola città settentrionale di Hohenstein e a Bad Oldesloe. Costretto a interrompere gli studi nel 1944 quando fu chiamato alle armi, come migliaia di altri ragazzi, per l’insensata e disastrosa battaglia “finale” della Seconda guerra mondiale, S. prese servizio nell’unità antiaerea della marina tedesca; catturato dall’esercito britannico, restò prigioniero di guerra sino all’autunno del 1945.

Assunto come segretario al municipio di Bad Oldesloe, proseguì gli studi e già durante questi anni, nel 1947, entrò nel partito Cristiano democratico (Christilch-soziale Union, CDU), svolgendo attività di partito come volontario a livello locale. Laureatosi nel 1949, S. intraprese la carriera accademica studiando storia contemporanea, economia, scienze sociali e filosofia all’università di Kiel. Negli stessi anni lavorò come giornalista per varie testate locali, e trascorse parecchi mesi negli Stati Uniti. Nel febbraio 1954 conseguì il dottorato con una tesi intitolata Il Reichstag tedesco: 1871-1873. Assistente all’università di Kiel, fu poi chiamato come lettore alla facoltà di Magistero. Nel 1960 conseguì l’abilitazione con una tesi sui Movimenti politici dei contadini dello Schleswig-Holstein: 1919-1933, ed ebbe l’incarico di lettore all’università di Kiel.

Parallelamente alla carriera accademica, continuò quella all’interno del partito. Da capo dell’organizzazione giovanile della CDU dello Schleswig-Holstein (1951), S. divenne capo della organizzazione giovanile federale dal 1955 al 1961, e fu altresì eletto membro del parlamento regionale dello Schleswig-Holstein nel 1954-1957. Iniziò quindi la sua carriera politica a livello nazionale, interrotta solo da due brevi periodi in cui lavorò alle industrie Krupp a Essen (1965 e 1969-1970).

Nel 1957 S. fu eletto al parlamento tedesco (Bundestag) ad appena 29 anni, diventando il parlamentare più giovane. Conservò l’incarico parlamentare sino al 1971, ma nel 1983 rientrò nel Bundestag per varie tornate legislative sino al 1998. A partire dagli anni Sessanta si dedicò interamente alla politica, sia nel legislativo che nell’esecutivo. Tra il 1965 e il 1992 coprì tre diversi incarichi nel governo federale: nel 1965-1969, durante il cancellierato di Ludwig Erhard e Kurt Georg Kiesinger, fu ministro per la Scienza e la ricerca; sotto Helmut Josef Michael Kohl (1982-89) divenne ministro delle Finanze e ministro della Difesa (1989-1992).

Nell’intervallo, quando il governo federale era guidato dai socialdemocratici, ricoprì la carica di ministro presidente dello Schleswig-Holstein.

S. aveva 37 anni quando fu nominato nel secondo governo di Ludwig Erhard ministro della Scienza e della ricerca, ministero che aveva sostituito quello per la Ricerca nucleare. Nonostante la giovane età, ma col consistente sostegno dei sostenitori locali e grazie alla conoscenza approfondita del funzionamento delle istituzioni accademiche – derivante dalle esperienze come lettore e come inviato della CDU alla Commissione per il finanziamento dei costi di ricerca e sviluppo – nei quattro anni in cui restò in carica S. riuscì ad aumentare il budget del suo ministero del 120%; promosse una serie di riforme dei piani di studi universitari e introdusse corsi di studio più brevi; istituì nuove università pubbliche e ampliò quelle esistenti; estese i campi di ricerca finanziati dallo Stato, incentrati prevalentemente sulla ricerca nucleare e sui progetti spaziali. I suoi sforzi furono appoggiati da un dibattito pubblico sul sistema di istruzione e sulla ricerca nella Germania occidentale sviluppatosi già nel 1964.

Nel 1966, dopo le dimissioni di Erhard, S. fu invitato alla direzione della cancelleria dal cancelliere Kurt Georg Kiesinger, ma rifiutò l’offerta per conservare il ministero per la Scienza e la ricerca. A partire dal 1968 incoraggiò progetti per l’elaborazione elettronica dei dati, per lo sviluppo tecnologico in medicina e per la messa a punto di procedimenti compatibili con l’ambiente. Se l’operato di S. era apprezzato dal suo partito ma anche dai socialdemocratici della Sozialdemokratische Partei Deutschlands (SPD), S. non riuscì però a trovare un terreno d’incontro con il movimento studentesco del 1968 e con l’opposizione extraparlamentare (Außerparlamentarische Opposition, APO), le cui richieste e il cui modo di pensare e di comunicare gli erano profondamente estranei. S. dovette abbandonare il suo incarico di governo nel 1969, quando alle elezioni del Bundestag le frazioni della SPD-FDP (Freie demokratische Partei) ottennero la maggioranza scalzando la coalizione CDU/CSU e Willy Brandt divenne nuovo capo del governo

Dopo un interludio di 13 mesi in cui lavorò alle Industrie Krupp di Essen, S. assunse nuovamente un’importante carica politica a livello statale. Nel 1971, quando il suo partito ottenne una maggioranza sorprendentemente netta di quasi il 52% (contro il 46% di quattro anni prima), fu eletto ministro presidente dello Schleswig-Holstein. S. fu uno dei ministri presidenti più popolari, e il mandato gli fu rinnovato due volte, mentre alle elezioni nazionali il suo partito perdeva drammaticamente voti nello Schleswig-Holstein.

Durante il suo mandato S. cercò di rilevare la televisione di Stato e l’emittente radiofonica NDR (Norddeutscher Rundfunk), gestita fino ad allora da tre Stati della Germania occidentale (Amburgo, Bassa Sassonia e Schleswig-Holstein); nel 1978 S. annullò il contratto preesistente e nel 1980 firmò un nuovo contratto con il solo ministro presidente della Bassa Sassonia, escludendo Amburgo. Ma nello stesso anno il nuovo contratto fu annullato dal tribunale amministrativo, e Amburgo fu riammessa.

Proseguiva intanto la carriera politica a livello nazionale di S., che nel frattempo aveva assunto anche la leadership della branca locale del suo partito (CDU dello Schleswig-Holstein). Nella prima metà degli anni Settanta rappresentò un serio concorrente per l’astro nascente dei conservatori tedeschi, Helmut Kohl, ma rifiutò un confronto aperto. Dopo la nomina di Kohl a candidato ufficiale della CDU, S. abbandonò il seggio parlamentare nel Bundestag e si dedicò alla politica locale. Solo nel 1979 accettò l’incarico di stratega economico alla direzione nazionale della CDU. In considerazione della esperienza di S. in materia, nel 1982 Kohl lo nominò ministro federale delle Finanze. Il nuovo incarico nel governo federale obbligò S. ad abbandonare la carica di ministro presidente a Kiel.

Scopo di S. era quello di diminuire l’impegno economico diretto dello Stato, che rappresentava oltre il 50% del PIL. Procedette quindi a un drastico taglio della spesa pubblica al fine di ridurre del 56% l’aliquota massima della tassa sul reddito. Con questa politica fiscale S. mirava a incoraggiare le imprese con una riduzione delle imposte sul reddito e sui profitti, tagli alle spese sociali e un aumento delle tasse sui consumi (l’imposta sul valore aggiunto a tasso ridotto passò dal 6,5 al 7% e quella ordinaria dal 13 al 14%). S. perseguiva l’obiettivo di una “economia sociale di mercato”, e a partire dal 1984 ridusse le aziende pubbliche vendendo quote di importanti industrie tedesche come le società per l’energia elettrica VEBA (Vereinigte Elektrizitäts- und Bergwerks-AG) e VIAG (Vereinigte Industrie Unternehmen-AG) e la Volkswagen. La decisione di richiedere prestiti temporanei senza interessi alle fasce della popolazione a più alto reddito fu invalidata dalla Corte costituzionale federale (Bundesverfassungsgericht).

Nel 1987 S. era il politico più amato della Germania federale, superando in popolarità anche il cancelliere Kohl. Ma ben presto le sue sorti mutarono a seguito del suo pesante coinvolgimento nello “scandalo Waterkant”. Uwe Barschel, successore di S. alla carica di ministro presidente dello Schleswig-Holstein, aveva iniziato una campagna diffamatoria contro il suo concorrente dell’opposizione Björn Engholm (SPD), accusandolo di frode fiscale, omosessualità e intercettazioni telefoniche ma declinando però ogni responsabilità. Quando i suoi reati divennero di dominio pubblico, Barschel si dimise, e pochi giorni dopo fu trovato morto in una camera d’albergo a Ginevra. S., ancora a capo della CDU dello Schleswig-Holstein, aveva difeso Barschel incoraggiandolo a mantenere la linea adottata per far fronte alla vicenda.

Lo scandalo e la morte misteriosa del principale attore coinvolto (il caso della morte di Barschel resterà irrisolto), resero S. una figura politica sospetta nella scena politica della Germania Ovest. L’anno successivo divenne evidente come S. avesse perduto il suo potere all’interno della CDU dello Schleswig-Holstein; nel 1988, infatti, i delegati nominarono Heiko Hoffmann come candidato alle elezioni al posto del favorito di S., Henning Schwarz. Nelle successive elezioni il partito perse un terzo dei voti, e quindi la maggioranza per governare. A vincere le elezioni fu Björn Engholm, candidato della SPD all’opposizione e vittima della campagna diffamatoria, che divenne ministro presidente dello Schleswig-Holstein. Nel gennaio del 1989 S. non ripresentò la propria candidatura alla direzione della CDU locale. Subito dopo, dovette lasciare il ministero delle Finanze e nell’aprile del 1989 fu sostituito da Theo Waigel.

Nonostante le crescenti critiche dei media tedeschi, il consuntivo dell’operato di S. fu piuttosto positivo: nel 1989 l’indebitamento aggiuntivo annuale per la compensazione del deficit pubblico raggiunse il suo minimo storico dal 1972, e nei 6 anni e mezzo in cui S. rimase in carica furono creati 1,6 milioni di nuovi posti di lavoro.

A livello internazionale, S. come ministro delle Finanze fu considerato un esponente rispettabile e affidabile della Repubblica Federale Tedesca. Fu membro dei vertici dei G7 nonché un attore di primo piano della Comunità economica europea (CEE). A livello mondiale era fautore delle riduzioni del debito per i paesi in via di sviluppo; all’interno della Comunità europea fu S., rappresentante del rispettato se non temuto marco tedesco, che in qualità di capo del Consiglio dei ministri dell’economia e delle finanze al Vertice di Bruxelles del 1987 riuscì a far approvare le norme per la libera circolazione di capitali all’interno della Comunità europea – una precondizione essenziale per la successiva introduzione della moneta unica.

Il mutato corso della politica mondiale nel 1989 segnò un’altra svolta nella carriera politica di S. Quando Kohl modificò la composizione del suo terzo governo e Theo Waigel prese il posto del sessantunenne S., questi conservò nondimeno la carica di ministro federale della Difesa. In questo nuovo ruolo si trovò ben presto a fare i conti con il cambiamento più drammatico nella strategia militare della Germania postbellica.

Nell’ottobre del 1990, dopo il crollo del nemico del passato – la Repubblica Democratica Tedesca e il suo esercito –, avveniva l’unificazione con la Repubblica Federale Tedesca. Il crollo dei regimi comunisti, la caduta del Muro di Berlino e l’unificazione tedesca misero in discussione il ruolo speciale della Germania nel dopoguerra e durante la Guerra fredda. La Germania fu chiamata a partecipare a missioni di pace internazionali: ad esempio, durante la guerra del Golfo del 1990-1991 fornì unità aeree nell’ambito dell’operazione dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) con base in Turchia per sostenere le forze alleate contro le truppe irachene. In questa occasione la Germania rifiutò di partecipare alle operazioni dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), scegliendo invece di coprire una cospicua quota delle spese militari. Parallelamente agli sviluppi politici internazionali, l’attuazione dell’unificazione tedesca, anche con riguardo ai due eserciti, divenne un compito cruciale per il governo tedesco.

S. – che sin dall’inizio era stato sostenitore della piena integrazione dell’esercito della Germania occidentale (Nazionale Volksarmee, NVA) nelle forze armate della Germania occidentale (Bundeswehr) – dovette adattarsi agli accordi internazionali guidati dal ministro degli Esteri Hans-Dietrich Genscher. Questi accordi, che quasi subito, dietro richiesta dell’allora presidente degli Stati Uniti George Bush furono modificati in accordo con le idee di S., prevedevano uno status più neutrale della NVA e del territorio dell’ex Repubblica Democratica Tedesca (DDR), che doveva restare escluso dalla NATO. All’inizio del 1990, dopo le elezioni del Parlamento della Germania orientale, l’interlocutore di S. come ministro della Difesa fu l’attivista per i diritti civili Rainer Eppelmann, fautore della separazione dei due eserciti. A seguito dell’accordo di Mosca “due-più-quattro” del 12 settembre 1990, S. poteva dare corso alla sua idea originaria favorevole all’unificazione dei due eserciti, e a partire dal 3 ottobre del 1990, data dell’unificazione dei due Stati, la fusione del Bundeswehr e della NVA divenne il suo principale compito come ministro della Difesa. Visto in retrospettiva, si trattava di un compito estremamente arduo; circa 135.000 membri dell’esercito della Germania Est – 60.000 soldati regolari, 40.000 civili e 35.000 soldati di leva – dovevano essere integrati in una forza armata tedesca unificata. Parallelamente, l’equipaggiamento doveva essere integrato o distrutto: 10.000 carri armati, 100.000 veicoli di altro tipo e 300 tonnellate di munizioni. Nonostante l’opposizione degli ufficiali della Germania Ovest, S. decise di integrare nell’esercito tedesco unificato tutti gli ufficiali che non avessero partecipato ad azioni criminali quando erano in servizio nella Germania orientale. Già a luglio del 1991 l’Unità speciale per l’integrazione dei membri dell’esercito e dell’equipaggiamento della NVA nelle forze armate unificate tedesche aveva terminato il suo compito e poteva essere sciolta.

Come ministro della Difesa, S. fu impegnato non solo a organizzare e gestire l’unificazione, ma anche a definire la strategia futura dell’esercito tedesco come unità di pace internazionale, e non più come fattore della politica della Guerra fredda. Decise così di ridurre a 30.000 il numero di soldati e ufficiali fino al 2000, e di ridurre altresì l’acquisto di nuove armi. La sua proposta di destinare il nuovo esercito tedesco a missioni di pace internazionali, per quanto oggi valida, era in anticipo sui tempi, e nel 1992 fu respinta dal Consiglio di gabinetto. Due anni dopo, quando S. si era già dimesso dal suo incarico, la Corte costituzionale si pronunciò in favore della partecipazione dell’esercito tedesco a missioni guidate o decise dall’ONU.

Gli importanti traguardi raggiunti da S. in qualità di ministro della Difesa furono offuscati da due incidenti che vennero interpretati come segnale di una perdita di controllo all’interno del ministero. Nell’autunno del 1991 fu divulgata la notizia di un tentativo – illegale secondo la normativa tedesca – di inviare carri armati provenienti dall’equipaggiamento della NVA al Mossad, i servizi segreti israeliani. Il secondo incidente, di natura assai simile, concerneva la vendita di 15.000 carri armati all’esercito turco, accusato di utilizzare armi tedesche nei conflitti interni contro la minoranza curda, in violazione della decisione della Commissione parlamentare bilancio del novembre 1991. S. fu costretto a dare le dimissioni da ministro della Difesa. Gli succedette il segretario generale della CDU Volker Rühe.

Dopo le ingloriose dimissioni da ministro federare, nel settembre 1992, alla fine di una lunga e ricca carriera, S. fu nominato dal cancelliere Helmut Kohl rappresentante della cooperazione franco-tedesca, incarico che detenne sino all’ottobre 1995. S. restò anche consigliere della CDU per le politiche economiche e fiscali, e fu nominato presidente della fondazione di orientamento conservatore Konrad Adenauer Stiftung. Nel 1977 divenne presidente della fondazione del Bundestag Otto von Bismark Stiftung. Restò membro del Bundestag sino al 1998, quando diede le dimissioni all’età di 78 anni. Poco prima della morte restò coinvolto in un altro scandalo. Una commissione d’indagine parlamentare chiese a S. di testimoniare su un’altra controversa compravendita di armi, risalente al 1991 – la vendita di 36 carri armati all’Arabia Saudita.

S. trascorse complessivamente 29 anni come membro del Bundestag, 14 anni come membro del governo, a capo di tre diversi ministeri, e fu primo ministro per 11 anni. Ricevette varie onorificenze: la Grande croce al merito della Repubblica Federale Tedesca nel 1969, la Gran croce al merito con stella e fascia nel 1973, la Medaglia Ludwig-Erhard nel 1999 e il Premio Hermann-Ehler nel 1999. Nonostante il suo attivo impegno internazionale, in particolare all’interno della Comunità europea, S. non ricevette alcuna decorazione da altri paesi. Oltre che agli scandali in cui fu ripetutamente coinvolto, questa mancanza di riconoscimenti può essere imputata all’atteggiamento freddo e distaccato di S., che gli valse il soprannome di “gelo che viene dal Nord”.

Nella vita privata, S. si interessava di letteratura storico-politica, amava sciare e giocare a golf, era un intenditore di arte orientale e di pittura classicistica. Sposato e con due figli, morì di cancro il 23 novembre 2001 all’età di 73 anni.

Anton Legerer (2010)