TACIS

Assistenza Tecnica ai nuovi Stati Indipendenti (TACIS)




Tadeusz Mazowiecki




Tamames Gómez, Ramón

T. (Madrid 1933) compie gli studi dapprima presso il Liceo francese quindi all’Università di Madrid e alla London School of Economics. Pur essendosi iscritto in un primo tempo alla Facoltà di Medicina, si laurea poi in Legge e nel 1968 ottiene la cattedra di Economia. T. è sempre stato un fautore dell’unità europea. L’interesse per le questioni economiche in rapporto alla costruzione europea ha occupato un posto di spicco nella sua attività professionale, come dimostra anche la sua stessa tesi di laurea, discussa nel 1964, su Formazione e sviluppo del mercato comune europeo.

L’attività politica di T. ha avuto inizio nell’Università di Madrid. Il contesto era quello delle agitazioni studentesche culminate negli eventi del febbraio 1956. L’aspetto più significativo di quella rivolta studentesca era rappresentato dal fatto che una parte consistente di quel movimento aveva come protagonisti i figli di personalità del regime, anche se la affiliazione politica degli studenti che parteciparono alle mobilitazioni era molto eterogenea, spaziando dai falangisti anticonformisti appoggiati da alcuni settori del sindacato ufficiale, come il Servicio universitario del trabajo, ai monarchici, sino ai comunisti, quest’ultimi peraltro alquanto numerosi.

Sin dal 1955 nelle università spagnole si erano in realtà verificate varie agitazioni. I primi incidenti avevano avuto luogo in occasione della morte di José Ortega y Gasset, alla cui tradizione liberale faceva riferimento una parte degli studenti madrileni. T. era uno dei leader della protesta insieme a futuri militanti di partiti di sinistra come Javier Pradera ed Enrique Múgica.

All’inizio di febbraio del 1956 un documento rivendicò la convocazione del Congresso nazionale degli studenti. La sconfitta dei candidati falangisti nelle elezioni della Cámara sindical degli studenti di legge dell’Università di Madrid provocò duri scontri con gli studenti antifalangisti. Durante gli incidenti un giovane rimase gravemente ferito da un membro della Falange.

Gli avvenimenti di Madrid ebbero ripercussioni in altre località della Spagna: a Siviglia, per esempio, furono interrotte le lezioni per solidarietà con gli studenti madrileni. Il 10 febbraio il governo spagnolo decise la sospensione delle lezioni e l’abolizione degli articoli 14 e 18 del Fuero de los Españoles.

Come lo stesso T. ricorda nel suo libro España 1931-1975. Una antología histórica, la Dirección general de seguridad diede allora l’ordine di arrestare i responsabili delle mobilitazioni. Molti di questi studenti, tra cui T., finirono poi per militare nel Partido comunista de España (PCE).

Da quel momento in poi T. provò a conciliare l’attività clandestina nella lotta contro la dittatura franchista, nelle file comuniste, con l’attività accademica e di ricerca. Tra il 1968 e il 1971 egli infatti insegnò Struttura economica nell’Università di Malaga e dal 1975 fino a oggi ha occupato la stessa cattedra nell’Universidad autónoma di Madrid. Inoltre, tra il 1969 e il 1977 guidò la Iberplán.

Dopo la morte di Franco, T. svolse un ruolo di spicco nella politica spagnola militando nel PCE; egli infatti godeva di una notevole visibilità politica ed era molto stimato dall’opinione pubblica spagnola. Nel 1976 entrò a far parte del comitato esecutivo del PCE e nel 1977 fu eletto deputato del Parlamento spagnolo nelle prime elezioni democratiche tenutesi in Spagna dopo la fine della dittatura. Alle elezioni generali del 1979 e del 1986 venne rieletto dai cittadini. Come deputato della prima legislatura democratica fu uno dei firmatari della Costituzione spagnola nel 1978 e divenne quindi un deciso sostenitore della Magna Charta spagnola.

In quegli anni T. fu un punto di riferimento essenziale per i programmi economici della sinistra in Spagna. Quindi fu tra i rappresentanti del PCE che nell’ottobre 1977 parteciparono ai negoziati per i cosiddetti Patti della Moncloa. È necessario ricordare che la transizione spagnola verso la democrazia fu resa più difficile dalla grave crisi economica che dal 1973 aveva colpito i paesi occidentali. Oltre a questa congiuntura, altri problemi ostacolavano il passaggio dal regime dittatoriale a quello democratico: fra gli altri, la recrudescenza del terrorismo, le gravi tensioni sociali e il malessere dei settori franchisti che promossero iniziative reazionarie.

In questo contesto i Patti della Moncloa rappresentarono una risposta delle forze politiche in due importanti direzioni: da un lato, per fronteggiare la difficile situazione politica, dall’altro, per adottare una serie di misure drastiche in grado di attenuare la grave crisi economica. La Unión de centro democrático (UCD) contò sul deciso appoggio del PCE, che sul piano economico si concretizzò nella presenza di T. nella commissione incaricata di formalizzare i punti sui quali si basavano i suddetti Patti.

Ma questa politica di collaborazione, che comportava la ricerca di un’immagine più moderata da parte dei comunisti, non portò alcun beneficio al PCE che, al contrario, inaugurò allora una stagione caratterizzata da duri scontri interni e subì la defezione di un notevole numero di aderenti. T. era uno dei giovani militanti critici che, insieme a Pilar Bravo e Alfonso Carlos Comín, non apparteneva alla generazione che aveva vissuto la guerra civile spagnola e pretendeva di “mandare in pensione la vecchia guardia comunista” che in quel momento aveva in mano la direzione del partito guidato da Santiago Carrillo.

Alle prime elezioni comunali democratiche, tenutesi in Spagna nell’aprile 1979, T. fu eletto consigliere comunale a Madrid. I risultati elettorali del Partito comunista non erano stati però molto soddisfacenti, avendo conquistato un solo capoluogo di provincia, e più precisamente la città andalusa di Córdoba. Tuttavia la coalizione fra i due grandi partiti di sinistra, il Partido socialista obrero español (PSOE) e il PCE permise di ottenere il governo di altre città importanti: il caso più significativo fu quello della capitale spagnola. L’accordo fra i due partiti consentì infatti di conferire la carica di sindaco al socialista Enrique Tierno Galván, mentre T. venne nominato vicesindaco.

Tuttavia i mediocri risultati elettorali ottenuti dal Partito comunista nel suo complesso aggravarono la difficile situazione all’interno della formazione, che si deteriorò a causa dello scontro, sempre più aspro, tra i vecchi dirigenti che erano stati in esilio e i giovani militanti formatisi nei movimenti sociali nati nell’ultimo periodo della dittatura franchista. In particolare, a partire dal 1980 molti militanti cominciarono ad abbandonare il PCE: in aprile uscì l’avvocato José Maria Mohedano, e poi fu la volta dell’ingegnere Eugenio Triana, che aderì al PSOE.

T. lasciò il partito nel maggio 1981 dopo un duro scontro con il segretario Santiago Carrillo. Alcuni mesi prima egli aveva presentato al Comitato centrale una proposta di riforma degli statuti del partito in base alla quale la Segreteria generale non avrebbe potuto essere assunta da una persona di oltre sessantacinque anni, età appena compiuta proprio da Carrillo. Quella di T. non fu comunque l’ultima defezione subita dalla formazione comunista spagnola e nel corso del suo X Congresso, nel luglio 1981, le divisioni emersero con virulenza ancora maggiore. Così, alla fine dello stesso anno i dirigenti comunisti scelsero la via disciplinare e più drastica per risolvere il problema interno al partito: furono perciò espulsi diversi dissidenti, tra cui Pilar Bravo, Manuel Azcárate e Carlos A. Saldívar.

T. continuò a svolgere attività politica e contemporaneamente si dedicò agli impegni accademici e professionali. Fra il 1983 e il 1985 fu professore di Economia spagnola nell’ambito della cattedra di Cultura spagnola alla Sorbona di Parigi; insegnò inoltre all’Università di Macao e collaborò con l’Accademia cinese di Scienze sociali.

Nel 1984 fondò un nuovo partito, la Federación progresista. La nuova formazione partecipò attivamente alla campagna che diverse forze di opposizione misero in atto per obbligare il Partito socialista a mantenere una delle sue promesse elettorali, ossia a indire una consultazione popolare sulla permanenza della Spagna nell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO). Felipe González, presidente del governo spagnolo dal 1982, mantenne un atteggiamento ambiguo in merito al periodo e alle modalità con cui il referendum avrebbe dovuto svolgersi. L’esigenza che il referendum innanzitutto avesse luogo, e quindi il fatto che l’esito della consultazione avesse un carattere vincolante, servì da collante fra i partiti e le organizzazioni che si collocavano a sinistra del PSOE.

Allo scopo di imporre lo svolgimento della consultazione nel luglio 1984 fu costituita la Mesa por el referéndum, di cui T. fu presidente. La Mesa annoverava un’ampia rappresentanza di organizzazioni sindacali, movimenti civili e partiti politici: vi aderirono infatti sindacati come le Comisiones obreras (CCOO) o gli anarcosindacalisti della Confederación nacional del trabajo (CNT), ma anche le associazioni per i diritti umani o istituzioni come Justicia y Paz, passando per i partiti maoisti o centristi, come il Centro democrático y social (CDS) fondato dall’ex presidente del governo Adolfo Suárez.

Quando alla fine il governo decise di indire il referendum, la Mesa si trasformò nella Plataforma cívica para la salida de España del OTAN. Questo nuovo organismo, che si batteva per l’uscita della Spagna dalla NATO, si costituì nel dicembre 1985 e ne fecero parte, in pratica, gli stessi membri dell’organizzazione precedente, a eccezione della Unión sindical obrera (USO) e del CDS.

La consultazione popolare si svolse il 12 marzo 1986 e segnò la vittoria delle argomentazioni del partito al potere e, di conseguenza, la permanenza della Spagna nella NATO. Queste organizzazioni, cioè la Mesa por el referéndum e la Plataforma civica, che erano state create per imporre la consultazione referendaria e si erano opposte alle posizioni del governo socialista, costituirono il nucleo iniziale della nuova coalizione, formata da diversi gruppi politici che si aggregarono intorno al Partito comunista, e che assunse la denominazione di Izquierda unida (IU).

In questo progetto confluirono, insieme alla Federación progresista di T., personalità indipendenti, i filosovietici del Partido comunista de los pueblos de España (PCPE) di Ignacio Gallego, un gruppo di socialisti dissidenti, e inoltre carlisti, repubblicani e membri del Partido humanista. La nuova formazione intendeva capitalizzare, nelle elezioni del 1986, l’ampio movimento che era nato in Spagna nei mesi precedenti in relazione alla questione della NATO.

I risultati elettorali del 1986 non furono tuttavia positivi per la nuova coalizione, che non riuscì a raccogliere tutti i voti che erano stati espressi dagli oppositori del governo nel suddetto referendum. Il PSOE ottenne nuovamente la maggioranza assoluta in Parlamento e la coalizione della Izquierda unida, con sette deputati, registrò solo un piccolo incremento rispetto alle elezioni politiche del 1982.

In tale occasione T. fu eletto deputato, ma questa fu la sua ultima esperienza parlamentare. Nel 1989 si verificò poi una svolta significativa nella sua militanza politica: egli infatti aderì a un partito di centrodestra, il Centro democrático y social. Di lì a breve egli abbandonò definitivamente il mondo della politica.

Fra le sue numerose attività, T. fu consulente del Programa de Naciones Unidas para el desarrollo (PNUD) e dell’Instituto para la integración de América Latina (INTAL), che dipendeva dal Banco interamericano de desarrollo (BID). Dal 1992 ha fatto poi parte del prestigioso Club di Roma e nello stesso anno ha ottenuto una cattedra nell’ambito del programma Azione Jean Monnet della Commissione europea. In ambito europeo ha infine partecipato a studi e lavori dell’Azione Jean Monnet sulla conferenza intergovernativa che ha portato al Trattato di Amsterdam, e ha fatto poi parte del Gruppo euro e del Gruppo di previsione degli scenari economici e sociali dell’Europa. Si è dedicato inoltre a un’importante attività di ricerca e di divulgazione nel campo dell’economia, sia a livello nazionale che internazionale, e ha associato al suo lavoro di analisi economica una particolare attenzione per l’ambiente.

È autore di numerose opere che analizzano soprattutto l’economia spagnola e il processo d’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della), fra cui: Estructura económica de España (1960), La lucha contra los monopolios (1961), Los centros de gravedad de la economía española (1968), El mercado común europeo (1968), Estructura económica internacional (1970), Sistemas de apoyo a la agricultura de España y los países de la Comunidad Económica Europea (1971), Fundamentos de estructura económica (1975), El mercado común europeo: una perspectiva española y latinoamericana (1982), La economía española 1975-1995 (1995), Unión Europea y Euro, la recta final (1998). Per quanto concerne il suo interesse per l’ecologia devono essere invece ricordati: Ecología y desarrollo: la polémica sobre los límites al crecimiento (1979) e La educación ambiental (1982).

Nella lunga lista di riconoscimenti ottenuti da T. si devono menzionare il X Premio España de Ensayo per l’opera La España alternativa (1994), il premio Jaime I per l’economia per il tema “Economía española e integración europea” (1997); il premio de Conservación de la Naturaleza assegnatogli nel 1998 dal governo regionale di Castilla y León per la sua difesa dell’ambiente, il premio Nacional Lucas Mallada de economía y medio ambiente, conferitogli dal ministero dell’Ambiente nel 2003.

T. ha scritto inoltre saggi di storia, filosofia, politica e perfino romanzi, fra cui Historia de Helio (1976), finalista del Premio Planeta di quello stesso anno, ispirato alle sue esperienze personali nella lotta clandestina contro il franchismo. Gli è stato infine concesso dal re Juan Carlos I il titolo di Ingeniero de Montes de Honor por la Escuela superior de Ingenieros de Montes di Madrid.

Il 26 aprile 2001 riceveva anche una laurea honoris causa dall’Università di Buenos Aires. Il suo discorso di investitura affrontava il tema della globalizzazione, di cui è convinto sostenitore, sebbene privilegi un’interpretazione più solidaristica del termine, soprattutto in merito alle problematiche dell’ambiente e della distribuzione della ricchezza.

Attualmente T. partecipa a numerose iniziative accademiche e tiene conferenze nelle università di tutto il mondo, oltre a collaborare assiduamente a giornali e riviste e a intervenire in molte trasmissioni radiofoniche.

Angel Herrerín López (2008)




Taviani, Paolo Emilio

T. (Genova 1921-Roma 2001) è stato definito uno dei padri della Repubblica italiana. Ma certamente la sua attività per l’unificazione europea nei primi anni Cinquanta permette di collocarlo, sebbene la sua azione europeistica non sia stata talora esente da contraddizioni, anche nella piccola schiera dei padri fondatori dell’Europa comunitaria, avendo egli svolto un ruolo di primissimo piano nell’avvio del processo d’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).

Cattolico rigoroso ma al tempo stesso entusiasta di Mazzini, gli anni della formazione intellettuale di T. coincisero con il periodo “‘maturo” del fascismo. Nel 1931, giovanissimo, divenne presidente della Federazione universitaria cattolica italiana (FUCI) genovese, partecipando assiduamente all’attività di un gruppo di studio semiclandestino di giovani cattolici costituitosi in quell’anno sotto la guida dei cardinali Giuseppe Siri, Emilio Guano e Franco Costa. Fu, quello, anche l’anno in cui nel giovane genovese cominciò a svilupparsi un forte interesse per le questioni colombiane, un’avventura intellettuale che lo avrebbe assorbito per tutta la vita. Tra i venti e i trent’anni s’immerse negli studi: conseguì tre lauree, approfondendo in particolare le tematiche del corporativismo (avrebbe ottenuto, nel 1942, la libera docenza in Storia dell’economia e delle dottrine economiche presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Genova), scrisse testi di notevole impegno sui temi economico-sociali, maturò un senso profondo dello Stato. Nel suo cammino formativo si colloca la frequenza, da un lato, dell’Università Cattolica di padre Gemelli, contrassegnata dal consenso ufficiale al regime fascista, da cui derivò la concezione dirigistica dello Stato in economia, dall’altro l’ambiente fucino del cardinale Giovanni Battista Montini (v. Paolo VI), antifascista, aperto sul mondo. Pur appartenendo alla generazione cosiddetta “dei littoriali” – si era iscritto nell’aprile del 1930 al Partito nazionale fascista così come al Gruppo universitario fascista (GUF) genovese – nell’ambiente fucino T. maturò progressivamente la scelta democratica, antifascista, degasperiana, filoamericana, cui sarebbe rimasto fedele nel tempo.

La sua adesione al fascismo emerse soprattutto nel periodo della guerra d’Etiopia. Erano gli anni del grande consenso e dei vaneggiamenti imperialistici che coinvolgevano gran parte della cultura italiana del tempo. T. non seppe sottrarsi alla grande illusione e, anzi, ne rimase affascinato anche dopo il suo distacco dal regime. Continuò ad aderire al fascismo durante la guerra di Spagna, per poi allontanarsene gradualmente a partire dalla seconda metà del 1938, seguendo il travaglio intellettuale che coinvolse gran parte del mondo cattolico. La persecuzione degli ebrei, l’asse con la Germania nazista, ma soprattutto la guerra e il prevalere delle correnti più radicali all’interno del fascismo, contribuirono al suo definitivo distacco dal regime.

Tra il 1941 e il 1943 fece parte del Consiglio nazionale del Movimento laureati cattolici, partecipando allo storico convegno di Camaldoli dei cui enunciati, favorevoli a prospettive di economia “mista”, fece tesoro quando si trovò a collaborare alla stesura, in sede di Assemblea costituente, delle norme costituzionali sulla proprietà.

A partire dal 1941 si avvicinò al Movimento cristiano sociale promosso da Gerardo Bruni, dalla cui confluenza con gli esponenti del disciolto Partito popolare italiano (PPI) nasceva a Genova, il 27 luglio 1943, il Partito democratico sociale cristiano della Liguria, di cui T. avrebbe ben presto assunto la segreteria regionale. Fu solo, tuttavia, dopo l’incontro con Alcide De Gasperi e con il centro democristiano romano, in cui si respirava l’aria del popolarismo internazionalista, che il cristianesimo sociale del giovane uomo politico genovese assunse un’impronta laica e liberale, inserendo fatti e problematiche italiane nella più ampia e ineludibile prospettiva europea e internazionale.

Il 9 settembre 1943, all’indomani dell’armistizio, T. partecipava, nello studio dell’avvocato democristiano Filippo Guerrieri, alla riunione nel corso della quale il Comitato ligure dei partiti antifascisti veniva trasformato in Comitato di liberazione nazionale (CLN) ligure, con competenza anche provinciale. Da questo momento cominciava la sua avventura resistenziale. “Pittaluga” fu il suo nome di battaglia. Rappresentò la Democrazia cristiana (DC) in seno al CLN regionale ligure durante tutto il periodo cospirativo. Tenne i contatti con il Comitato di liberazione nazionale Alta Italia, nonché con le missioni alleate e i macquis francesi. Fu lui a presiedere la riunione del CLN che, nella notte del 23 aprile, decise l’insurrezione di Genova di fronte ai nazisti. Fu ancora lui a diffondere dalla stazione radio sulle alture di Granarolo il messaggio della liberazione della città. Era il 26 aprile 1945.

Il periodo della Resistenza lo avvicinò “moralmente” all’europeismo. In quel periodo sviluppò l’attenzione ai temi internazionali ed europei, attraverso il contatto con esponenti democristiani di formazione diversa dalla sua sia a livello nazionale sia a livello locale (Lazzaro Maria De Bernardis, Vittorio Pertusio, Carlo Russo, Giorgio Bo), ma anche con aderenti al CLN ligure che appartenevano a quel mondo laico, liberale e azionista in special modo, certamente non estraneo alla cultura europeistica. Si pensi per esempio ai liberali Francesco Manzitti, Errico Martino e Bruno Minoletti, agli azionisti Lino Marchisio e Leopoldo Di Renzo, al socialista Alfredo Poggi. Di T. è il documento della DC ligure più significativo nel periodo della Resistenza non solo per le tematiche economico-sociali, ma anche per quanto attiene ai nuovi assetti politici internazionali: le Idee sulla Democrazia cristiana, diffuse in clandestinità a partire dalla fine del 1944. Partendo da una certo non scontata analisi della crisi profonda in cui erano cadute le grandi potenze del passato, il documento metteva in luce l’esigenza di «superare il nazionalismo, coordinandolo – senza negarlo – in un più vasto concetto della comunità statale», prevedendo «la suddivisione dei continenti in unità federative internazionali». Non erano inoltre dimenticati temi cari al personalismo, quali il decentramento amministrativo e il riconoscimento delle autonomie locali, attraverso il rafforzamento delle comunità intermedie fra l’individuo e lo Stato.

Dopo la Liberazione, T. fu designato membro della Consulta nazionale e, nel 1946, venne eletto all’Assemblea costituente, dove fece parte della terza sottocommissione che si occupava di diritti e doveri nel campo economico e sociale. Nel dicembre 1946 entrò a far parte della direzione DC, venendo successivamente nominato vicesegretario del partito. Fu lui a rappresentare l’integrazione della nuova generazione con il gruppo ex popolare.

Nell’aprile 1948 venne eletto per la prima volta deputato, dando avvio in quel momento alla mai interrotta presenza nel Parlamento repubblicano. Politico dall’intelligenza vivace e dalla forte propensione alla gestione del potere, egli non poteva ignorare le trasformazioni politiche ed economiche seguite alla Seconda guerra mondiale. Fu allora che l’apertura internazionalistica agevolmente innestata nella sua formazione cattolica, l’esperienza della guerra e del superamento dei nazionalismi, l’attenzione alla difesa delle autonomie locali di cui la DC si era fatta fautrice, le idee appena abbozzate di federazione già emerse nel periodo della Resistenza, si fusero nel suo pensiero in un disegno unitario di federazione europea (v. Federalismo), destinato a precisarsi negli anni successivi. La chiara percezione della crisi del nazionalismo alimentava in lui una precisa concezione “supernazionalistica”. Alla base dell’integrazione europea egli poneva, per un verso, il superamento dell’unità di misura nazionale, per l’altro l’identità di cultura, di civiltà, l’esistenza di una comune Weltanschauung europea. Non erano però solo le riflessioni teoriche a spingerlo verso l’europeismo. Un contributo di grande rilevanza veniva anche da ragioni “pratiche”: «l’impossibilità di una politica nazionalistica e autarchica per l’Italia», la «convenienza per l’Italia di una integrazione sul piano sopranazionale rispetto alle semplici e tradizionali alleanze militari». Sul piano politico, T. credeva fermamente che soltanto un’Europa unita avrebbe potuto contare nel mondo di domani. Ragioni ideali e ragioni d’opportunità convergevano in lui verso un unico obiettivo.

Nel giugno del 1949, al congresso democristiano di Venezia, fu eletto, nonostante la giovane età, segretario del partito, seppur per un periodo transitorio, dimostrandosi intransigente difensore della linea maggioritaria degasperiana. Lasciata a Guido Gonella la segreteria nell’aprile del 1950, si occupò più direttamente del settore esteri della DC. In quello stesso anno, riprendendo l’antica testata di Filippo Meda, fondò la rivista “Civitas”, in cui il tema dell’Europa unita era trattato con particolare attenzione.

Nel giugno 1950, T. fu nominato alla guida della delegazione italiana che, a Parigi, avrebbe partecipato alla Conferenza per la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA). Lo stretto rapporto che da quel momento istituì con Jean Monnet valse a fargli capire l’importanza delle istituzioni federali e soprattutto l’esigenza di superare all’interno di queste il principio dell’unanimità (v. anche Voto all’unanimità), relativizzando invece il tema delle elezioni dirette (v. anche Elezioni dirette del Parlamento europeo). La coscienza delle novità politiche insite nel Trattato CECA era in lui limpida: «Comincia a vivere, oggi – avrebbe affermato in occasione dell’insediamento a Lussemburgo dell’Alta autorità – la prima comunità sopranazionale: è un esperimento nuovo nella storia, è il primo audace, rivoluzionario tentativo di passare dall’internazionale al sopranazionale».

Nel febbraio 1951 fu chiamato a presiedere la delegazione italiana alla Conferenza per la Comunità europea di difesa (CED). Fu lui a organizzare l’incontro italo-francese di S. Margherita tra De Gasperi, Carlo Sforza, René Pleven e Robert Schuman.

A T., che diventava in tal modo uno dei perni dell’azione federalistica del presidente del Consiglio, De Gasperi affidò i compiti più delicati in merito alle sorti della CED e della Comunità politica europea (CPE). Fu lui a presentare alla stampa il progetto di De Gasperi relativo all’art. 38 e alla procedura di carattere precostituente che esso conteneva. Fu lui a sostituire il presidente del Consiglio nella decisiva Conferenza dei ministri di Parigi, il 19 maggio 1952, che preludeva alla firma del progetto di trattato della CED.

Favorevole alla convocazione di una Costituente europea, nel settembre 1952 fu tra i fautori del progetto governativo franco-italiano che affidava all’assemblea della CECA allargata il compito di redigere un progetto di Statuto della Comunità politica europea. A questo fine, tra il 9 e il 10 settembre 1952, fece parte per l’Italia del Comitato di redazione incaricato di redigere il testo di risoluzione definitivo con il quale i Sei chiedevano che l’Assemblea della CECA allargata (poi denominata Assemblea ad hoc) si costituisse in assemblea costituente.

L’attualità delle sue proposte sull’assetto istituzionale della Comunità è stupefacente (v. Istituzioni comunitarie). Egli poneva l’accento in particolar modo sul superamento del principio dell’unanimità e quindi del veto, che permetteva di mantenere intatta la sovranità. E sottolineava l’importanza del fatto che in assemblea i deputati votassero per testa e non per delegazione nazionale, lasciando intravvedere la possibile formazione di gruppi parlamentari a base ideologica e sovrannazionale.

A latere delle iniziative governative, T. svolse anche un’importante funzione di promozione e divulgazione dei nuovi orientamenti federalistici all’interno dei movimenti per l’unità europea. Militò nelle file delle Nouvelles équipes internationales (NEI), collaborando attivamente anche alle iniziative del Movimento federalista europeo (MFE) e dell’Unione europea dei federalisti (UEF). Fu particolarmente attivo nella campagna per la Costituente europea.

Nel luglio del 1953, lasciò Palazzo Chigi per assumere la carica dapprima, per un brevissimo periodo, di ministro del Commercio con l’estero nell’ottavo gabinetto De Gasperi e poi, dal 17 agosto, di ministro della Difesa nel nuovo governo guidato da Giuseppe Pella. Continuò a seguire da vicino le vicende della CPE, nel corso delle diverse conferenze durante le quali il progetto fu studiato. In particolare, nell’agosto del 1953, venne chiamato a presiedere in rappresentanza del governo dimissionario la Conferenza dei sei ministri degli Esteri che si tenne a Baden-Baden.

Nel governo Pella, che accantonava la CED per dedicarsi quasi esclusivamente alla soluzione del problema di Trieste, T. cercava di conciliare europeismo e nazionalismo: sosteneva il governo nella sua azione, mantenendosi nel contempo favorevole alla CED. Dalla certezza che la Francia non avrebbe mai ratificato, traeva il convincimento che non convenisse all’Italia affrontare una battaglia lacerante senza prospettive di successo. Temeva in particolare che la caduta della CED in Francia, unita all’irrisolta questione di Trieste, potesse costituire un “terremoto” per l’intera politica estera italiana. Nel febbraio del 1954 T. veniva confermato da Mario Scelba ministro della Difesa.

La sua lettura del dopo CED era pacata, nel solco di quel realismo che lo contraddistingueva: non si era trattato del crollo di un’illusione e nemmeno dell’ultimo atto di un processo 1954, a sostenere l’Unione dell’Europa occidentale (UEO), pur riconoscendone i limiti. Osservava in particolare come l’UEO fosse un’alleanza dal classico carattere internazionale, ma sottolineava anche come essa colmasse un vuoto, non pregiudicando ulteriori passi sulla via dell’integrazione e rappresentando un vincolo ulteriore tra le nazioni europee occidentali, che andava ad aggiungersi a CECA, Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE), Consiglio d’Europa, Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO).

Nel 1956 T. studiò con il collega francese, Jacques Chaban-Delmas, e quello tedesco, Franz-Joseph Strauß, un progetto trilaterale di “atomica europea” che avrebbe consentito, da un lato, d’ancorare la Francia ai destini europei, in un momento in cui, dopo Suez, all’interno della IV Repubblica cominciavano ad affiorare tentazioni eccentriche rispetto a quelle continentali sul tema della difesa, dall’altro, di scongiurare la costruzione di una bomba atomica tedesca. La trattativa entrò nel vivo nell’autunno del 1957, intrecciandosi con i piani americani di difesa europea dopo gli esperimenti nucleari e spaziali sovietici. Mantenne anche in questo caso una posizione europeista, avversando qualunque ipotesi di atomica semplicemente francese o tedesca e mantenendo una certa prudenza circa le avances britanniche. Pensava che l’accordo tripartito potesse rinsaldare l’Europa dei Sei. Non avrebbe mancato, ex post, d’individuare i punti deboli dell’accordo, evidenziando in particolare la mancanza di chiarezza sulla “struttura politica portante” e sull’impianto sovrannazionale.

Nei confronti dei Trattati di Roma T. si rivelò molto tiepido, dimostrando di non aver perso il suo fervore federalista. «Grande tripudio – scriveva il 26 marzo 1957 – per la firma dei Trattati europei del Mercato comune e dell’Euratom. Lo si considera un successo della politica europeistica. Non lo è affatto. È tutto internazionale. Non c’è niente di sopranazionale». Affermava che la Conferenza di Messina e i lavori della Commissione guidata da Paul-Henri Charles Spaak (v. Comitato Spaak) a Bruxelles testimoniavano come gli europeisti non avessero disarmato. Ma ammoniva anche gli europei a non ripetere l’esperienza del Consiglio d’Europa, una semplice “accademia”. Il vero pericolo – affermava –, non è «che finalmente si faccia l’Europa unita, ma invece che non si faccia sul serio l’Europa, bensì soltanto una sua larva: qualcosa che presenti una spolverata di europeismo, tale da appagare momentaneamente le opinioni pubbliche, che in grande maggioranza reclamano l’unità europea, ma non tale da costruire quel solido edificio che gli europeisti più approfonditi e maturi attendono e intendono costruire».

Dal giugno del 1958, quando abbandonò il ministero della Difesa, T. fu assorbito dalla politica interna, ma sempre con un occhio rivolto alle tematiche europee.

Daniela Preda (2010)




Teitgen, Pierre-Henri

La vita di T. (Rennes 1908-Parigi 1997), figlio di un presidente del collegio forense, militante del Sillon di Marc Sangnier, giurista cattolico dalle convinzioni umaniste, è segnata innanzitutto dalla sua lotta per la difesa europea dei Diritti dell’uomo: è considerato a pieno titolo il vero padre della Convenzione e della Corte europea dei diritti dell’uomo. Fervente pioniere della causa europea, questo illustre docente universitario dedica gran parte del suo insegnamento alla conoscenza e alla diffusione del Diritto comunitario.

In un primo tempo insegna all’Università di Nancy, circondato da amici prestigiosi: Georges Vedel, André de Laubadère, Jean Rivero, Roger Pinto e Paul Reuter. Qui incontra il suo amico di sempre, François de Menthon, come lui fautore di una concezione spiritualista del diritto, come lui mobilitato e prigioniero durante la guerra. T. riesce a evadere grazie a un professore di diritto tedesco. Nel settembre 1940 si impegna nella Resistenza creando la rete Liberté, di cui diventa uno dei principali dirigenti. Il movimento, costituito da numerosi universitari, si fonde con Combat nel novembre 1941. Professore a Montpellier fino al luglio 1942, in seguito T. entra in clandestinità.

Dopo la Liberazione T. è una personalità di primo piano e durante la IV Repubblica è deputato, ministro (6 volte) e vicepresidente del Consiglio (3 volte). Gli vengono affidati portafogli delicati: il generale Charles de Gaulle lo sceglie come ministro dell’Informazione (settembre 1944-giugno 1945), incaricato di ristabilire la libertà di stampa e di creare anche nuovi quadri. Poi è ministro della Giustizia fino al dicembre 1946, nel pieno dell’epurazione. Infine è ministro delle Forze armate del governo presieduto da Paul Ramadier (novembre 1947-luglio 1948), poi della Francia di oltremare nel governo di Edgar Faure (febbraio 1955-febbraio 1956).

La sua avventura nella nascita del Mouvement républicain populaire (MRP) appare come il corollario del suo impegno europeo. Membro fondatore, assume la presidenza del partito democratico-cristiano dal 1952 al 1956. Fervente difensore della causa europea, la sua azione si iscrive soprattutto nel quadro del Consiglio d’Europa. Dopo aver partecipato al Congresso dell’Aia (7-10 maggio 1948) i dirigenti europei decidono – prima ancora della creazione del Consiglio d’Europa – di costituire una commissione giuridica di studi incaricata di elaborare un progetto preparatorio di convenzione a garanzia dei diritti dell’uomo. La presidenza è affidata a un socialista belga e T. è designato come relatore. Proprio in veste di relatore della commissione sulle questioni giuridiche e amministrative presenta all’Assemblea consultiva del Consiglio d’Europa, il 5 settembre 1949, un rapporto sull’“Organizzazione di una garanzia collettiva delle libertà essenziali e dei diritti fondamentali”, rapporto in base al quale viene stabilita la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Esso include l’enumerazione di tutta una serie di diritti civili e politici, ma soprattutto definisce un sistema idoneo a garantire il rispetto, da parte degli Stati contraenti, degli obblighi da essi assicurati. Questa Convenzione europea dei diritti dell’uomo, firmata nel novembre 1950, entra in vigore nel settembre 1953. La Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) è istituita a Strasburgo nel 1959 e T. ne è giudice, succedendo a René Cassin, dal 1976 al 1980. Partecipa all’approvazione di sentenze molto importanti, come per esempio quella emanata nella controversia fra Irlanda e Regno Unito sulla tortura.

Nel 1952, su proposta di Robert Schuman e Alcide de Gasperi i sei governi della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) incaricano l’Assemblea di definire un progetto di comunità politica europea. T. è membro dell’assemblea ad hoc e uno dei suoi relatori. Il Consiglio dei ministri dei Sei non dà seguito al progetto, che viene insabbiato contemporaneamente alla Comunità europea di difesa (CED) il 30 agosto 1954.

Dopo il ritiro dalla vita politica T. dedica i suoi corsi universitari all’Europa e dal 1964 al 1978 è direttore del Centre universitaire d’études des communautés européennes (CUECE) a Parigi, incaricato di stimolare la ricerca e l’insegnamento sui temi europei. Alla fine della sua vita trovava confortante «constatare che la potenzialità della Convenzione abbia potuto esprimersi pienamente alla prova del tempo».

Christine Manigand (2012)




Telička, Pavel

Nato il 24 agosto 1965 a Washington, DC, negli Stati Uniti, T. si laurea presso la facoltà di Giurisprudenza della Università Carlo di Praga, e intraprende poi la carriera di funzionario pubblico ricoprendo diverse cariche nell’amministrazione ceca. Entrato al ministero degli Affari esteri nel 1986, alla fine degli anni Ottanta aderisce al Partito comunista, suscitando non poche polemiche. Nel 1990 diventa consulente per la delegazione incaricata delle trattative dell’Accordo europeo (v. Accordi europei) tra la Federazione cecoslovacca e l’Unione europea (UE). In precedenza, T. aveva lavorato nel Dipartimento di diritto internazionale del ministero degli Affari esteri, occupandosi sia di diritto pubblico sia di diritto privato. Nel 1993 diventa vicecapo della missione della Repubblica Ceca presso le Comunità europee e successivamente, lo stesso anno, capo della missione. Nel 1995 viene nominato responsabile dell’Unità per le Comunità europee del ministero degli Affari esteri. Aderisce altresì al Partito socialdemocratico ceco (Česká strana sociálně demokratická, ČSSD), prendendo le distanze dalla sua precedente affiliazione comunista. Nel 1999 diventa direttore generale della sezione per l’Integrazione del ministero degli Affari esteri. Successivamente, nello stesso anno, è promosso viceministro degli Affari esteri e capo negoziatore per l’ingresso della Repubblica Ceca nell’UE e riveste tale carica fino all’adesione. Diventa poi segretario di Stato per gli Affari europei. Inoltre, viene nominato ambasciatore e capo della missione ceca per le Comunità europee, uno sviluppo relativamente raro nella carriera di un burocrate.

Nel 2004 il governo ceco offre a T. l’incarico di primo commissario europeo della Repubblica Ceca. La promozione arriva dopo la rinuncia del primo candidato, Miloš Kuzvart. La sua nomina peraltro viene contestata dai due principali alleati della coalizione, l’Unione cristiano-democratica (Křesťanská a demokratická unie, KDU) e il Partito popolare cecoslovacco (Československá strana lidová, ČSL) a causa della precedente appartenenza di T. al Partito comunista. Essi si oppongono risolutamente a T. in quanto ritengono inopportuno che un funzionario di partito e burocrate possa arrivare a ricoprire una carica così elevata. Anche il ČSSD è contrario a T. in ragione della sua giovane età (38 anni) e del fatto che non ha mai detenuto cariche politiche. il presidente Václav Klaus, dal canto suo, lo considera arrogante e troppo favorevole all’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). La stessa popolarità di cui T., pur essendo un burocrate, gode presso l’elettorato ceco sembra giocare a suo sfavore (v. Kononczu, 2004). Una mediazione su tale problema nel governo di coalizione viene raggiunta nel maggio 2004, allorché Vladimir Spidla rassegna le dimissioni da primo ministro e assume l’incarico di commissario europeo. T. fa le spese di un cambiamento di rotta nel direttivo del ČSSD per quanto riguarda la sua nomina alla Commissione europea. Tale decisione contribuisce a stabilizzare la coalizione di governo e a migliorare i rapporti tra il governo e il presidente Klaus, fattori importanti in un momento in cui la coalizione al potere è politicamente vulnerabile.

Insieme a Cyril Svoboda, T. ha formato un gruppo molto competente e compatto al centro del processo di integrazione della Repubblica Ceca nell’Unione europea. Europeista convinto, T. dissente fortemente dal presidente Klaus sulla Costituzione europea e sulle questioni relative all’integrazione. Al pari di Václav Havel e Cyril Svoboda, T. ritiene che la Costituzione europea sia una componente necessaria dell’integrazione conferendole una legittimazione democratica. Per il presidente Klaus, per contro, la Costituzione europea è un passo verso un’unione politica indesiderata. T. attualmente è attivo come consulente e accademico.

Christian C. van Stolk (2008)




TEMPUS

Programma transeuropeo di cooperazione per l’istruzione (TEMPUS)




Tesauro, Giuseppe

T. (Napoli 1942) diventa nel 1965 assistente ordinario e nel 1969 libero docente di Diritto internazionale. Suo primo maestro può considerarsi Rolando Quadri e suoi primi argomenti di studio quelli classici del diritto internazionale (dalla rinuncia alla belligeranza nella costituzione giapponese al sistema di finanziamento delle organizzazioni internazionali). Dai primi anni Settanta iniziò a dedicarsi ai temi comunitari per poi rivolgersi dai primi anni Ottanta quasi esclusivamente al diritto dell’Unione europea (UE).

Professore ordinario di Diritto internazionale nella facoltà di Scienze politiche di Napoli dal 1975 al 1981, nella facoltà di Economia e commercio dell’Università “La Sapienza” di Roma dal 1982 al 1994, è stato direttore della scuola di specializzazione in diritto delle comunità europee dell’università di Roma dal 1984 al 1988. Politica industriale comunitaria, liberalizzazione dei capitali e profili di responsabilità del banchiere sono i campi d’indagine preferiti nei suoi saggi, nei suoi interventi a convegni, nella sua collaborazione alle riviste scientifiche: un’attività intellettuale e saggistica che gli valse il ruolo di avvocato generale della Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) dal 6 ottobre 1988 al 4 marzo del 1998.

Tale ruolo portò T. a cimentarsi su materie più ampie (diritto del lavoro, diritto commerciale, aiuti agli Stati) e su aspetti un po’ meno teorici e metodologici di quelli riconducibili all’attività accademica. Non per questo però ritenne di escludere dal suo impegno alla Corte di giustizia i grandi temi sugli ordinamenti giudici, se si vuole sulla filosofia del diritto comunitario. In particolare, la disapplicazione del diritto nazionale in contrasto con quello comunitario lo vide partecipe di riforme importanti del modo di concepire l’Europa in Italia. Dopo qualche ritardo e inadempienza, il paese si inoltrò anche grazie a T. lungo la via che vide dal 1989 in poi applicarsi e consolidarsi l’impianto della legge La Pergola. Anzi, forse proprio Antonio La Pergola gli fu in questa stagione grande riferimento di europeismo autentico.

Dall’approccio mai arido seppur sempre rigoroso di T. al Diritto comunitario può considerarsi testimonianza il suo manuale (1995), teso a guardare e a garantire, senza contrapporli, l’individuo titolare di diritti e doveri e la collettività che si organizza secondo sentimenti politici radicati e procedure nitide e trasparenti. Di qui l’attenzione di T. verso gli sforzi compiuti nella Carta di Nizza nel 2000 (v. Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea) e soprattutto ai principi e alle dinamiche della concorrenza (v. anche Politica europea di concorrenza).

Non è un caso che dal 9 marzo del 1998 all’8 marzo del 2005 T. fosse presidente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato: quasi un riconoscimento alla sua attività di professore di diritto pensata e vissuta nella continuità di una tradizione di studio del diritto internazionale che risale nella storia d’Italia alla figura di Pasquale Stanislao Mancini. La stessa tradizione e la stessa vocazione probabilmente che portarono il Presidente della Repubblica a nominarlo giudice della Corte costituzionale l’8 novembre del 2005.

Luigi Compagna (2012)




Thatcher, Margaret

T. (n. Roberts, Grantham 1925-Londra 2013) si laureò in chimica al Somerville College, Oxford, e lavorò come ricercatrice chimica fino al suo matrimonio con Denis Thatcher, che la incoraggiò a intraprendere gli studi di giurisprudenza. Nel 1958 fu scelta per rappresentare Finchley e conquistò il seggio parlamentare nel 1959, mantenendolo fino al suo ritiro nel 1992, quando divenne pari a vita con il titolo di baronessa Thatcher di Kesteven.

Nel 1961 fu nominata sottosegretario al ministero delle Pensioni. Dopo la vittoria dei conservatori nel 1970, fu segretario di Stato per l’Istruzione e le scienze.

Nel 1974, dopo la sconfitta elettorale dei Conservatori, T., candidata outsider per la leadership del partito, ottenne inaspettatamente più voti di Edward Heath, determinandone le dimissioni. Vinse il ballottaggio contro William Whitelaw diventando leader del partito conservatore, posizione che mantenne fino a quando si dimise nel 1990. Nel 1979, 1983, 1987, il suo partito vinse le elezioni politiche e T. divenne il primo ministro del XX secolo che rimase più a lungo in carica.

Dotata di una forte personalità, T. dimostrò approccio insolito e piuttosto semplicistico alla politica. Diretta, intollerante verso il dissenso, ostile verso la burocrazia e determinata, non aveva le comuni doti diplomatiche e raramente si serviva della forza di persuasione. La combinazione di ciò queste caratteristiche la rese una temibile negoziatrice negli ambienti comunitari e, pur procurandole qualche successo, le attirò scarsa simpatia da parte degli altri intimoriti capi di governo. Il suo stile le fece guadagnare un certo potere all’interno della Comunità, ma scarsa influenza.

È facile ripercorrere lo sviluppo del pensiero di T. riguardo alla Comunità, ma difficile spiegarlo. Nel 1975 (v. Gamble, 1993, p. 120) aveva sostenuto la permanenza britannica nella Comunità economica europea (CEE) e prima delle elezioni politiche del 1979 insieme ai suoi colleghi si era adoperata con determinazione per presentare i conservatori come europeisti, al contrario dei laburisti al potere. La dichiarazione politica del partito, The right approach (1976), condannava l’accento posto dai laburisti sulle difficoltà all’interno della Comunità invece che le opportunità che essa offriva, mentre sia la bozza di manifesto inutilizzata del 1978 che il manifesto conservatore del 1979 mostravano entusiasmo per la collaborazione con il resto della Comunità e apprezzamento per i vantaggi della cooperazione. Le stesse aspettative della T., prima di diventare primo ministro, erano incentrate sui vantaggi che tale cooperazione avrebbe potuto offrire nel settore della politica estera piuttosto che sulle prospettive economiche del Regno Unito all’interno della CE. Tuttavia, quando la T. iniziò a incontrare gli altri capi di governo al Consiglio europeo, il suo approccio mutò. Aveva ereditato una situazione in cui il contributo del Regno Unito al bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) era sproporzionato, soprattutto in considerazione del fatto che il paese non beneficiava della Politica agricola comune (PAC; v. Gamble, 1994, p. 120). La T. era fermamente decisa a modificare tale situazione e ne fece la sua crociata. Gli altri capi di governo furono presi alla sprovvista non dai suoi fini, bensì dai modi utilizzati che erano particolarmente intransigenti (v. Harris, 1988, p. 98). Era talmente ostinata su tale argomento da non essere disposta a discutere di altro fino alla soluzione definitiva del problema della compensazione per il Regno Unito. Tuttavia, un simile approccio risulta efficace finché gli altri negoziatori non lo imitano. Un vertice europeo dove ogni membro perseguisse ostinatamente i propri obiettivi individuali provocherebbe il crollo della Comunità con una perdita per tutti i membri. Gli altri capi di governo si resero conto di ciò, tanto che alla fine cedettero alle sue richieste. Gli stessi ministri thatcheriani e i funzionari del ministero degli Esteri rimasero sorpresi quando fu chiaro che il primo ministro britannico era disposta anche a rompere con la Comunità piuttosto che cedere (v. Harris, 1988, pp. 186 e 188). Dopo cinque anni in cui la T. non si scostò dalla sua posizione, rifiutando qualsiasi compromesso o soluzione temporanea, ottenne una concessione. Al Vertice di Fontainebleau del 1984, con l’intervento di François Mitterrand (v. Wallace, 1997, p. 680), la questione fu risolta e la T. ottenne la compensazione economica richiesta, ma non la riforma delle finanze comunitarie da lei voluta, in particolare il meccanismo di finanziamento della PAC (v. Thatcher, 1993, p. 728) (v. Accordi di Fontainebleau).

Fu una vittoria di Pirro che ebbe due principali conseguenze. In primo luogo danneggiò i rapporti della T. con gli altri capi di governo (v. Harris, 1988, p. 98; Riddell, 1995, pp. 211 e 214; Young, 1989, p. 386; Stevens, 2001) e in secondo luogo, con l’appoggio dei media britannici, preparò lo scenario per le future relazioni tra Regno Unito e Unione europea (UE). In termini molto risoluti, la T. adottò un approccio negoziale basato sulla contrapposizione tra “loro” e “noi” che irritò gli altri leader della Comunità e incoraggiò sentimenti nazionalistici tra i cittadini britannici. Legittimò inoltre sentimenti simili tra alcuni membri conservatori (v. Gamble, 1993, pp. 120 e 178), provocando per molti anni delle divisioni nel partito sulla “questione europea”.

In sintesi, la T. sostenne l’idea comunitaria, ma a parte la cooperazione in politica estera, limitatamente a una comunità di libero scambio (v. Thatcher, 1993. P. 537). In questo senso condannò l’idea di un “super Stato europeo”, sostenendo che la difesa dell’identità nazionale avrebbe dovuto essere il principio fondamentale di una Comunità basata sull’impresa e la deregulation, e ribadì la necessità di un coordinamento delle politiche di difesa.

Ciò nonostante, si può affermare che la T., firmando l’Atto unico europeo (AUE), diede una spinta verso una Comunità integrata più di tutti gli altri leader britannici, eccetto Heath. L’Atto aprì la strada a diverse politiche integrative quali quelle strutturali, ambientali (v. Politica ambientale), per la ricerca e lo sviluppo tecnologico (v. Politica della ricerca scientifica e tecnologica) e di coesione economica e sociale (v. Politica di coesione), nonché a una maggiore integrazione istituzionale attraverso il potenziamento dei poteri del Parlamento europeo (PE) e all’estensione del voto a Maggioranza qualificata.

Sui motivi che spinsero la T. a firmare l’AUE vi sono diverse ipotesi. Secondo alcuni si trattò di un compromesso consapevole – accettare una fusione di sovranità molto ampia in cambio di una liberalizzazione commerciale di vasta portata (v. Kaldor, 2000; McLean, 2003); per raggiungere il suo obiettivo principale, la T. Sarebbe stata disposta a sacrificare i suoi principi anti integrazionisti. Secondo altri (v. Stevens 2001, p. 143; Fallace, 1997; Walkins, 1991), i ministri della T. e Lord Cockfield (v. Cockfield, Francis Arthur), all’epoca Commissario britannico della CE, riuscirono a presentarle l’AUE come «un’affermazione dei valori thatcheriani».

La prima spiegazione sembra la più plausibile, poiché, una volta letto l’AUE, è improbabile che la T. si sia lasciata fuorviare dai suoi ministri. Lei stessa, nelle sue memorie afferma che era pronta a pagare il prezzo di una maggiore integrazione istituzionale (v. Thatcher, 1993, p. 554). Tuttavia, scrive ancora la T., dopo la ratifica dell’Atto i burocrati di Bruxelles, guidati da Jacques Delors, avrebbero sfruttato l’AUE per aumentare l’autorità della Commissione europea nei nuovi ambiti politici, soprattutto in direzione dell’Unione economica e monetaria (UEM). Resta comunque difficile capire perché non avesse previsto tale esito o perché non avesse accettato il livello di integrazione e di regolamentazione necessario per giungere a un Mercato europeo che fosse realmente unico (v. Mercato unico europeo). L’AUE includeva i nuovi ambiti politici sopra elencati proprio per questa ragione e l’UEM era stato l’obiettivo dell’UE sin dal Vertice dell’Aia del 1969. Un’altra spiegazione possibile del motivo per cui la T. Accettò l’AUE è che si fosse illusa che quei risultati pur prevedibili, se non addirittura necessari, non si sarebbero realizzati.

Quando si realizzarono, la T. osservò che non era cambiata lei o le sue opinioni, bensì la Comunità, guidata da una Commissione iperentusiasta e fuorviata. Tuttavia, sempre secondo quanto riferito dalla stessa T., l’evidente cambio di rotta della Comunità coincise con il calo di influenza del primo ministro britannico all’interno della stessa. Dopo la firma dell’AUE, la T. non ebbe altri effetti di rilievo sulla Comunità per il resto del suo mandato, salvo consolidare la reputazione del Regno Unito di “partner difficile” (v. George, 1998) e continuare a guidare l’antieuropeismo tra la popolazione britannica e nel suo stesso partito. Il primo ministro britannico fu costretta dal suo governo ad aderire al Meccanismo di cambio, pur senza smettere mai di disapprovarlo, ma non fece altri passi positivi all’interno della CE. Furono Delors, la sua Commissione e i leader più integrazionisti a indirizzare la Comunità, secondo la T., verso un futuro communautaire, se non federale. Per sua stessa ammissione, la Commissione, guidata da Jacques Delors, aveva presentato la sua agenda con il programma del mercato unico del 1992 e quindi si trovava in una buona posizione per poter far valere il proprio metodo integrazionista.

Le posizioni di T. nei confronti dell’integrazione europea presentano varie contraddizioni. Essenzialmente nazionalista, riteneva che lo scopo della Comunità fosse quello di beneficiare il Regno Unito – un approccio peraltro ampiamente condiviso dagli altri capi di governo europei. Il nazionalismo della T. contemplava anche il separatismo. Il Regno Unito era unico; aveva la sua lingua, la sua moneta e i suoi valori e non era disposto ad amalgamarsi nella Comunità (v. anche Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).

In secondo luogo, la T. riteneva che fosse compito suo difendere gli interessi britannici all’interno dell’UE. Le rotture da lei provocate ai vertici europei e il successo ottenuto con la compensazione del bilancio dimostravano l’efficacia del suo approccio intransigente. Tuttavia, la questione su cui la T. si batté era relativamente poco importante, ed ebbe successo solo perché in primo luogo gli altri capi di governo furono colti di sorpresa e secondariamente perché in gioco non vi erano questioni di principio rilevanti. Dopo tutto, erano già preparati a fare delle concessioni sin dal principio e lo stesso valeva per la Commissione. La T., a quanto sembra, non ottenne molte altre concessioni dai leader europei, ma a suo avviso ciò accadde perché molti di loro sostenevano l’approccio del nemico per eccellenza del permier britanno, l’eurocentrico Delors, il quale li trascinò in un percorso “non britannico” verso un Federalismo protezionistico e burocratico.

L’istintiva ostilità della T. verso la Comunità così trasformata si spiega altresì con la sua innata avversione per la burocrazia. Secondo il suo ideale piuttosto semplicistico del processo politico, le decisioni avrebbero dovuto essere prese in modo fermo dalla persona preposta a farlo e quindi attuate direttamente e con efficienza. Ignorando le complessità della governance, capiva soltanto il concetto di governo. Quindi, per lei tutti i funzionari pubblici rappresentavano, con la loro mentalità burocratica, un ostacolo, trovando problemi dove non ne esistevano e cercando di imporre la loro opinione su quella dei loro “referenti” politici, indebolendo pertanto le politiche che dovevano attuare.

La T. applicò questa visione dei funzionari pubblici anche alla Comunità. Non tenendo conto delle caratteristiche del Trattato, che dispone che la Commissione assuma un ruolo politico attraverso i suoi poteri di iniziativa (art. 211 TCE) e ignorando il fatto che il Collegio dei commissari fosse composto da ex politici e non da burocrati, la T. riteneva che la Commissione non avesse un ruolo nello sviluppo della Comunità, ma dovesse limitarsi a mettere in atto le decisioni prese dal Consiglio dei ministri. Malgrado la sua avversione per i burocrati, quindi, la sua principale obiezione alla Comunità era il modo in cui il Collegio dei commissari agiva politicamente. Tale avversione aumentò dopo la nomina di Delors, di cui la T. disapprovava le idee e le iniziative, pur riconoscendone l’intelligenza, l’energia e la determinazione nel raggiungere gli obiettivi. Il problema non era solo che i loro obiettivi erano conflittuali, ma anche che Delors era in una posizione migliore per poterli raggiungere.

Non sorprende quindi che l’approccio della T. verso la Comunità sia mutato da un iniziale euroentusiasmo per un’Europa liberoscambista all’ostilità, dovuta dalla sua avversione per la burocrazia in generale e al suo dissenso con Delors in particolare, riguardo alla visione globale della Comunità. Allo stesso modo non sorprende che l’atteggiamento della Comunità nei confronti del primo ministro britannico, nel corso degli anni Ottanta, fosse dapprima pieno di speranza, quando sostituì James Callaghan, poi di disperazione quando iniziò a battagliare fino a diventare di relativa indifferenza quando propose la sua visione alternativa di una Europe des patries.

Nell’ottobre 1990, Geoffrey Howe, leader della Camera dei Comuni e vice primo ministro, si dimise dal gabinetto britannico a causa dell’opposizione espressa così aspramente dalla T. in merito alle proposte di Delors sulla moneta unica europea (v. Euro). Il discorso di dimissioni pronunciato da Howe alla Camera dei Comuni fu talmente ostile da essere interpretato dai suoi colleghi come una chiamata alle armi. In seguito, nel novembre 1990, la T. affrontò la sfida per la leadership del Partito conservatore contro Michael Heseltine, filoeuropeo ed ex ministro, che incarnava l’ostilità crescente del gabinetto verso lo stile di leadership thatcheriano e il suo approccio alla CE. La T. vinse contro il parlamentare conservatore, ma non ottenne il 15% dei voti necessari rispetto a quelli ottenuti dall’avversario per una vittoria assoluta. Dovette quindi andare al ballottaggio. Fermamente decisa a vincere, si consultò con i suoi colleghi di gabinetto, che risposero quasi tutti allo stesso modo: l’avrebbero personalmente sostenuta, ma avrebbe comunque perso l’elezione. La T. si dimise, diventando sempre più ostile verso la CE al punto da essere disposta a sostenere il ritiro se non fosse stato rinegoziato il Trattato.

Si può affermare quindi, in conclusione, che la T. abbia introdotto un nuovo stile di negoziato con la CE, che non sembra sia durato oltre il suo mandato come primo ministro; che abbia contribuito all’integrazione firmando l’AUE, comprendendone o meno le implicazioni; e che abbia costruito, o per lo meno perfezionato, il ruolo della Gran Bretagna come il membro più scettico della Comunità.

Janet Mather (2013)




The “Dilemma Two Plates”

Alla riunione del Consiglio europeo tenutasi a Bruxelles nel dicembre 2003, la delegazione finlandese si trovò in una situazione imbarazzante. Il presidente, il primo ministro e il ministro degli Esteri erano tutti intenzionati a partecipare ai negoziati, ma c’erano soltanto due sedie assegnate a ciascun paese. Alla fine, il primo ministro Matti Vanhanen si avvicinò a Silvio Berlusconi, il primo ministro italiano che rappresentava la presidenza del Consiglio, chiedendogli di aggiungere un’altra sedia nella sala. Si riproponeva così la situazione che ha caratterizzato la politica finlandese dopo l’adesione alla Unione europea: da allora infatti il presidente ha facoltà di prendere parte ai summit assieme al primo ministro, sicché da quel momento si è dovuto aggiungere un altro coperto in tavola (di qui il cosiddetto “problema dei due coperti”).

Questa situazione ebbe origine nel 1994, quando la Finlandia si preparava ad aderire all’Unione europea (v. anche Criteri di adesione). La Commissione per gli affari costituzionali dell’Eduskunta, il Parlamento nazionale finlandese, emanò una disposizione in base alla quale spettava al governo, e non al presidente, rappresentare la Finlandia al Consiglio europeo.

La Commissione per gli affari costituzionali giunse alla conclusione che la decisione sulla partecipazione della Finlandia ai Summit del Consiglio europeo spettasse al governo come stabilito dalla Costituzione. Tuttavia, il presidente Martti Ahtisaari (1994-2000) diede un’interpretazione che differiva dalla posizione assunta dalla Commissione. A suo avviso, per non compromettere la divisione dei poteri in politica estera sarebbe spettato al presidente decidere in merito alla partecipazione alle riunioni del Consiglio europeo. Questa soluzione venne confermata con un accordo tra il primo ministro Paavo Lipponen e Ahtisaari nel 1995 e continua a essere valida tuttora.

Il sistema politico finlandese viene normalmente classificato come semipresidenziale, vale a dire una combinazione di presidenzialismo e democrazia parlamentare, con le funzioni esecutive divise fra un presidente eletto e un governo tenuto a rendere conto al parlamento. La separazione dei poteri è altresì chiaramente sancita dall’articolo 3 della nuova Costituzione finlandese, entrata in vigore nel marzo 2000: «I poteri legislativi vengono esercitati dal Parlamento, il quale delibera anche in materia di bilancio. Il potere esecutivo è esercitato dal presidente della Repubblica e dal governo, i cui membri devono godere della fiducia del Parlamento».

Quando diventò membro dell’Unione, la Finlandia affrontando affrontava una revisione costituzionale di vasta portata. Già allora la partecipazione della Finlandia allo Spazio economico europeo (SEE) avrebbe comportato, in conformità con la rigida interpretazione della Costituzione, l’inclusione dell’intera politica SEE nelle competenze del presidente. La Costituzione dovette, di conseguenza, essere modificata per consentire la partecipazione del governo e del parlamento. Nella nuova Costituzione il governo è chiaramente designato come attore principale della politica di integrazione. Il testo del nuovo art. 93 sulla leadership nella politica estera afferma: «La direzione della politica estera della Finlandia spetta al residente della Repubblica in cooperazione con il governo. Tuttavia, il Parlamento accetta gli obblighi internazionali della Finlandia e la loro denuncia e decide in merito all’entrata in vigore di detti obblighi della Finlandia come previsto dalla Costituzione. Il presidente decide in materia di guerra e di pace, con il consenso del Parlamento.

Il governo è responsabile della preparazione nazionale delle decisioni da prendere in seno all’Unione europea e decide in merito alle concomitanti misure finlandesi, a meno che la decisione non richieda l’approvazione del Parlamento. Il Parlamento partecipa alla preparazione nazionale delle decisioni da prendere in seno all’Unione europea, come previsto da questa Costituzione. La comunicazione di posizioni importanti in politica estera a Stati esteri e a organizzazioni internazionali è di responsabilità del ministro degli Affari esteri».

Recenti cambiamenti costituzionali e politici hanno drasticamente mutato la natura della politica finlandese e in questo contesto il governo e in particolare il primo ministro sono diventati gli attori principali. Ora è il governo a costituire la suprema autorità esecutiva, e non più il presidente, i cui poteri sono più limitati. Il primo ministro è leader diventato il leader indiscusso sia nell’ambito della politica interna sia per quanto riguarda la politica dell’integrazione. Il presidente guida la politica estera, ma lo fa congiuntamente al governo e attraverso la commissione ministeriale del governo. I poteri costituzionali e politici del presidente sono stati ridotti in modo tale che la Finlandia non rientra più a pieno titolo nella categoria dei sistemi semipresidenziali.

Il “problema dei due coperti” continua quindi a sussistere. Il primo ministro resta il principale rappresentante della Finlandia nell’UE; è il primo ministro infatti, e non il presidente, a svolgere il ruolo di attore principale nella formulazione della politica nazionale e a riferire al parlamento sulle questioni dell’UE. Tuttavia, il presidente ha partecipato alle riunioni del Consiglio europeo, a eccezione di qualche riunione straordinaria. Tarja Halonen, eletta nel 2000, ha affermato di non avere alcuna intenzione di rimanere nell’ombra e ha assunto un ruolo attivo nelle politiche di integrazione, almeno in materia di sicurezza (v. anche Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Così la Finlandia continuerà, nell’immediato futuro, a essere rappresentata in seno al Consiglio europeo sia dal governo che dal presidente. Trovare una soluzione a questo problema è altresì importante in termini di governance democratica, poiché il presidente non è tenuto a rendere conto del proprio operato al parlamento.

Tapio Raunio (2012)