Unamuno de, Miguel

Intellettuale, letterato, filosofo, nonché leader spirituale della cosiddetta “generazione del ’98”, U. (Bilbao 1864-Salamnaca 1936) è stato sicuramente uno dei maggiori protagonisti della cultura spagnola tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del secolo successivo, avendo rappresentato un punto di riferimento per tutti coloro che avevano auspicato la palingenesi etica e sociale di un paese in costante declino, come, del resto, la perdita degli ultimi possedimenti coloniali aveva drammaticamente evidenziato.

U. studiò Lettere e filosofia all’Università di Madrid e nel 1890 venne chiamato a insegnare Lingua e letteratura greca presso l’Università di Salamanca. Sin dal 1880 aveva iniziato un’intensa attività giornalistica, che lo aveva portato a collaborare con vari periodici e a scrivere articoli che spaziavano dalla letteratura alla filosofia e alla politica, ma risale al 1895 la sua prima opera di grande rilievo, En torno al casticismo. Nel 1900 U. diventò rettore a Salamanca e assunse l’incarico di Filologia comparata di latino e castigliano, cattedra da egli stesso istituita, che in seguito sarebbe diventata “Storia della lingua spagnola”. In virtù di alcune critiche mosse al governo e alla monarchia, nel 1914 U. venne però destituito dalla carica di rettore. Negli anni successivi subì un processo per lesa maestà a causa di nuovi attacchi rivolti al re e fu poi costretto all’esilio durante la dittatura di José Primo de Rivera per la sua opposizione al regime. Con la proclamazione della Repubblica U. poté fare ritorno in patria, dove venne accolto trionfalmente, reintegrato in qualità di rettore a Salamanca ed eletto alle Cortes nel gruppo dei repubblicani e socialisti. Morì nel 1936, l’anno di inizio di quella guerra civile che avrebbe segnato la fine di una stagione in cui egli era stato, almeno sul piano culturale, un indiscusso protagonista. Tra i suoi numerosi scritti, che comprendono tra l’altro romanzi, poesie e opere teatrali, ricordiamo i saggi Vida de Don Quijote y Sancho (1905), nel quale il protagonista del capolavoro di Cervantes assurge a emblema del popolo spagnolo, Mi religión y otros ensayos (1910) sul pragmatismo, e Del sentimiento trágico de la vida en los hombres y los pueblos (1913) sui grandi temi esistenziali e sul contrasto tra fede e ragione, nonché il racconto Cómo se hace una novela? (1927), una sorta di trattato di metafisica presentato sotto forma di novella autobiografica.

Non è facile fornire un quadro sintetico del percorso intellettuale di U., sia perché non esiste una esposizione sistematica del suo pensiero, sia perché esso era in continuo divenire e tendeva pertanto a modificarsi sensibilmente nel tempo, sia perché, in ultima istanza, la dimensione politica finiva per sovrapporsi a quella filosofica ed esistenziale. Queste difficoltà di fondo hanno pertanto prodotto interpretazioni differenti, e talvolta perfino contrapposte, della sua Weltanschauung, tanto che U. è apparso ad alcuni un moderato e ad altri un progressista o addirittura un rivoluzionario. Analoghi problemi esegetici presenta inoltre la sua riflessione sull’Europa, che pur costituisce un nucleo importante del suo pensiero.

Animato in gioventù da profonde convinzioni religiose, U. approdò via via a posizioni agnostiche grazie agli studi filosofici madrileni: questa fase del suo pensiero viene generalmente definita fase del “razionalismo umanista”. Parallelamente, dal punto di vista politico, egli maturò idee liberal-radicali, intrise di venature libertarie. L’interesse per Francisco Pi y Margall, il massimo teorico del Federalismo spagnolo, gli indicò quindi la strada per poter risolvere il problema basco e, almeno in prospettiva, il problema dell’unità europea.

Negli anni Novanta U. provò a coniugare il liberalismo con il repubblicanesimo e con il socialismo, militando anche per un paio d’anni nel Partido socialista obrero español (PSOE), mentre a livello teorico si occupò principalmente della tematica dell’identità nazionale, individuando nel rigetto del nefasto spirito dell’Inquisizione, nella riaffermazione della coesione nazionale e nell’apertura all’Europa, auspicata solo a condizione che non implicasse il ripudio delle radici culturali autoctone, i principali rimedi per uscire dalla gravissima crisi nella quale il paese era da tempo sprofondato. Come per Joaquín Costa, anche per U. l’Europa rappresentava in primo luogo lo strumento per risolvere un problema interno spagnolo, il mezzo più appropriato per purificare il paese dalle scorie del passato, aiutarlo a rigenerarsi e, in ultima istanza, a ritrovare se stesso. Allo stesso modo devono essere letti i riferimenti al cosmopolitismo nei suoi scritti dell’epoca, che senza tradursi in un progetto politico esprimevano la consapevolezza del carattere angusto assunto ormai dalle entità nazionali.

A partire dalla crisi spirituale del 1897, che sarebbe poi sfociata nell’adesione al protestantesimo liberale, U. sviluppò una concezione tragica dell’esistenza, individuando nel don Chisciotte di Cervantes, incarnazione del pessimismo trascendentale oltre che dell’idealismo etico, una sorta di emblema nazionale di tale condizione. Questa impostazione si ripercuoteva sul piano politico nel rifiuto dell’Europa del positivismo e del progresso scientifico e nel recupero dei valori più tradizionali, tanto che nel celebre saggio Sobre la europeización (1906) i termini della questione venivano paradossalmente ribaltati rispetto all’impostazione precedente: non si trattava cioè più di “europeizzare la Spagna”, ma di “ispanizzare l’Europa”. Questo obiettivo poteva essere conseguito grazie al fatto che la Spagna rappresentava una sorta di “promontorio spirituale” del continente e, in quanto tale, a essa spettava il compito di salvare un’Europa alla deriva a causa dell’Illuminismo e dei rivoluzionarismi. Ne scaturì in proposito una dura polemica con Ortega, che lo invitò allora ad abbandonare il suo “misticismo energumeno”.

Il periodo successivo è contrassegnato principalmente dalla lunga gestazione dell’opera Del sentimiento trágico de la vida e dal prevalere degli interessi filosofici su quelli politici e sociali. In questo volume U. rifletteva infatti sui grandi temi dell’esistenza, spaziando dalla questione del destino individuale a quella della finalità dell’universo, cercando tuttavia le risposte non nelle pieghe della mente ma nelle “ragioni del cuore”, che spingevano l’individuo verso il trascendente grazie alla sua “fame di immortalità”. Ne conseguiva una pericolosa svalutazione della cosiddetta “cultura secolare”, e, in particolare, dell’idea di progresso, della scienza e perfino della europeizzazione, “rei” di aver fatto perdere agli uomini il senso escatologico-religioso dell’esistenza.

A questo proposito, nell’Agonie du christianisme (1923), e poi nella novella San Manuel Bueno, mártir (1930), U. affermò in modo chiaro il principio dell’estraneità della religione cristiana alle ideologie politiche, anche in polemica con il cattolicesimo che aveva via via assunto i caratteri di una “religione di Stato”. Ciò non gli impedì di opporsi alla dittatura in nome della libertà, e poi di sostenere la Seconda repubblica, battendosi con forza dai banchi parlamentari in favore dell’unità nazionale minacciata dalle spinte centrifughe dei regionalismi e dalle tensioni prodotte dalla lotta di classe. In varie occasioni criticò lo statalismo del presidente Azaña in base ai principi classici del vecchio liberalismo, ma al momento dello scoppio della guerra civile si limitò a condannare gli opposti estremismi delle parti in conflitto, senza tenere nella giusta considerazione la realtà fattuale di un governo legittimo, democraticamente eletto, contrapposto a forze militari golpiste. Ebbe però modo di riscattarsi dall’infamante accusa di simpatizzare per la causa falangista in nome della difesa della civiltà cristiana quando, il 12 ottobre 1936, al momento dell’inaugurazione dell’anno accademico all’Università di Salamanca, pronunciò un discorso che faceva esplicitamente riferimento al carattere “incivile” della guerra in corso: le sue parole vennero bruscamente interrotte dal generale José Millán Astray e U. fu posto agli arresti domiciliari. Morì poco più di due mesi dopo, mentre il suo paese stava precipitando nel baratro e con esso, di lì a poco, l’Europa intera.

Guido Levi (2012)




Ungheria

Le relazioni dell’Ungheria con l’Occidente durante la Guerra fredda

Dopo la Seconda guerra mondiale, l’Ungheria entrò nella sfera d’influenza sovietica e di conseguenza aderì al Consiglio di mutua assistenza economica (COMECON), caratterizzato da economia centralizzata, produzione e scambi pianificati, e al Patto di Varsavia, l’organizzazione di difesa militare del blocco comunista.

Il ruolo dell’Ungheria all’interno del blocco orientale dominato dall’Unione Sovietica fu ampiamente determinato dalla rivoluzione del 1956. In particolare, alcuni anni dopo che la Rivoluzione era stata repressa e le rappresaglie erano terminate, il governo comunista cambiò politica. Gli anni Sessanta furono contrassegnati dallo sviluppo economico e dall’introduzione di maggiore libertà. Venne realizzata una certa liberalizzazione del mercato e in seguito fu addirittura possibile creare piccole imprese private (una cosa inaudita nel sistema socialista). Allo stesso tempo, gli ungheresi godettero di maggiore libertà di spostamento verso l’altra parte della cortina di ferro anche se con qualche restrizione (ad esempio disponibilità limitate di valute occidentali).

Durante la Guerra fredda, l’Ungheria cercò anche di entrare in organizzazioni internazionali fondate dal mondo occidentale, quali l’Accordo generale sulle tariffe e il commercio (General agreement on tariffs and trade, GATT) e il Fondo monetario internazionale (FMI) e la Banca mondiale. L’Ungheria aderì a queste organizzazioni rispettivamente nel 1973 e nel 1982.

Per quanto concerne l’integrazione europea, per quasi trent’anni dalla fondazione della Comunità economica europea (CEE), l’Unione Sovietica e il blocco comunista non riconobbero ufficialmente la CEE e di conseguenza non esistevano rapporti istituzionali tra le parti a livello governativo. Inoltre i paesi del COMECON furono definiti dalla CEE paesi “a commercio di Stato” e ciò comportò discriminazioni commerciali. Tuttavia, in questo contesto, l’Ungheria cercò di migliorare la sua posizione all’interno del Mercato comune riuscendo a giungere a un accordo su ragioni di scambio più favorevoli riguardo ad alcuni prodotti. Tra il 1968 e il 1971 si conclusero i cosiddetti accordi tecnici o di garanzia dei prezzi (in conformità con la regolamentazione dei prezzi agricoli comunitari) tra la Commissione europea e le principali aziende esportatrici ungheresi del settore della carne suina, del vino e del formaggio. In seguito, tra il 1978 e il 1981 si giunse ai cosiddetti accordi settoriali o di autolimitazione nel settore siderurgico, tessile e dell’abbigliamento nonché riguardo a prodotti ovini e caprini. A tale riguardo, l’Ungheria fu uno dei paesi che svolsero un ruolo pionieristico nello sviluppo di legami di natura economica con la CEE (v. Balázs, 2006).

Riavvicinamento e istituzionalizzazione delle relazioni

Negli anni Settanta le relazioni tra i due blocchi iniziarono a essere più distese e sembrò realizzarsi il riconoscimento politico della CEE da parte del COMECON con alcuni tentativi di riavvicinamento. Ci furono due chiari esempi a testimonianza di ciò. Il primo fu la firma congiunta dell’Atto finale di Helsinki nel 1975 da parte dei paesi socialisti e della Comunità, che attestò la condivisione di una serie di valori da entrambe le parti. Il secondo fu l’avvio dei negoziati su un auspicato accordo quadro CEE-COMECON sul commercio, che proseguirono fino al 1981. Sebbene le trattative non sfociarono in un accordo, le periodiche riunioni di esperti segnarono di per sé un cambiamento importante nelle relazioni (v. Balázs, 2006).

Pur in qualità di membro del COMECON, l’Ungheria cercò di stabilire legami più stretti con la CEE. Il governo ungherese iniziò le trattative e alla fine firmò un Accordo di commercio e di cooperazione nel 1988 (a cui Mosca non si oppose). L’accordo aveva l’obiettivo principale di fornire una regolamentazione generale delle relazioni commerciali, tra cui l’abolizione graduale delle misure discriminatorie entro il 1995, l’instaurazione di un reciproco riconoscimento politico e l’estensione della cooperazione oltre il settore commerciale.

Poco dopo, l’Europa orientale fu attraversata da cambiamenti rivoluzionari, politici, sociali ed economici. Nell’agosto 1989 venne aperta la frontiera tra Ungheria e Austria consentendo a centinaia di cittadini della Germania Est di fuggire verso Ovest (v. anche Riunificazione tedesca). L’evento ebbe luogo con il patrocinio di Otto von Habsburg e del ministro riformista Imre Pozsgay (v. Nemes, 1999). Il mese dopo i confini vennero ufficialmente aperti dal governo ungherese e in novembre cadde il Muro di Berlino provocando un effetto a catena sull’intero blocco comunista. Pertanto le rivolte più o meno pacifiche delle società dell’Europa orientale abbatterono rapidamente il vecchio regime mettendo anche fine alla precedente divisione tra Est e Ovest. Tutto ciò non sarebbe certamente accaduto senza il presidente sovietico Michail Gorbačëv che aveva una visione più liberale del futuro dell’Unione Sovietica e del regime comunista.

La Comunità europea riconobbe e sostenne subito tali cambiamenti rivoluzionari adottando tre misure nel 1989-1990: abolì le discriminazioni commerciali nei confronti di questi Stati, estese anche a loro il Sistema di preferenze generalizzato (SPG) e infine offrì un pacchetto di aiuti non rimborsabili, il Programma di aiuto comunitario ai paesi dell’Europa centrale e orientale (Poland, Hungary aid for the reconstruction of the economy, PHARE), che fu avviato inizialmente per aiutare questi due paesi e presto esteso a tutti i paesi dell’Europa centro orientale allo scopo di fornire assistenza alle giovani democrazie in transizione politica ed economica. Nel frattempo l’Ungheria divenne membro del Consiglio d’Europa, nel 1996 entrò a far parte dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) e dopo preparativi più lunghi nel 1999 aderì all’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) insieme alla Polonia e alla Repubblica Ceca, primi paesi dell’area orientale. L’Ungheria si prefisse inoltre l’obiettivo di aderire alla Comunità europea entro il 1995, ma gli eventi ritardarono questo momento di almeno un decennio.

Il processo di associazione: 1990-1994

Già nel 1990-1991 furono avviati negoziati di associazione alle Comunità europee per i primi tre paesi dell’Europa centrale, e nel dicembre 1991 furono firmati gli speciali accordi di associazione, i cosiddetti Accordi europei, da Polonia, Ungheria e Repubblica Cecoslovacca (a seguito della divisione di quest’ultima federazione nel 1993, la Repubblica Ceca e la Slovacchia dovettero rinegoziare e firmare un nuovo Accordo lo stesso anno).

Gli Accordi europei furono divisi in due parti, il testo principale del trattato e il cosiddetto Accordo provvisorio sulla liberalizzazione degli scambi. Nel caso dell’Ungheria il primo entrò in vigore soltanto nel 1994, ma grazie al più semplice processo di ratifica, l’Accordo provvisorio poté già diventare effettivo nel 1992. Da quell’anno in poi ebbe inizio l’asimmetrica liberalizzazione degli scambi tra le parti: nei primi cinque anni la CEE e negli altri cinque l’Ungheria dovettero gradualmente abolire tutte le barriere doganali al commercio industriale e introdurre tariffe ridotte in settori delicati (quali l’agricoltura). Nel 2001 venne così creata un’area di libero scambio dei prodotti industriali tra l’Ungheria e la CEE dei Quindici, l’area di scambio più importante per l’Ungheria, e vennero anche decisamente migliorate le condizioni degli scambi agricoli. Il documento regolamentò anche i movimenti di capitali (liberalizzazione graduale) e le modalità di stabilimento (introducendo il trattamento nazionale) mentre per quanto riguarda i servizi questi non furono liberalizzati e la libera circolazione dei lavoratori dipese soprattutto dagli accordi bilaterali tra i singoli Stati membri e i paesi associati.

L’intero Accordo europeo, che entrò in vigore nel 1994, fornì un quadro per un regolare dialogo politico e istituzionale, previde l’Armonizzazione legislativa, introdusse nuove aree per la cooperazione e garantì la continuazione del programma di assistenza PHARE sostenendo finanziariamente il processo di adesione, in aggiunta ai prestiti erogati dalla Banca europea per gli investimenti (v. Van den Bempt, Theelen, 1996). Tuttavia, gli Accordi europei limitarono le aspettative dei paesi dell’Europa centrale riguardo a un aspetto in particolare: questi Stati intendevano includere nel Preambolo la prospettiva di un’adesione a pieno titolo, un impegno che non era ancora condiviso dagli Stati membri (i quali si stavano preparando innanzitutto all’importante approfondimento previsto dal Trattato di Maastricht). Il Preambolo, quindi, fece solo riferimento alla volontà dei paesi associati di ottenere in futuro l’adesione.

L’approccio dell’Unione europea verso questa regione mutò nel giugno 1993, quando durante il Consiglio europeo di Copenaghen gli Stati membri dichiararono il loro impegno a favore dell’Allargamento a Est e stabilirono i famosi criteri “tre più uno” a questo riguardo. I criteri di Copenaghen (v. Criteri di adesione), vale a dire democrazia parlamentare stabile, Stato di diritto, rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali (v. anche Diritti dell’uomo), economia di mercato affidabile e capacità di applicare l’Acquis comunitario, furono ben accolti dall’Ungheria, sebbene il quarto criterio potesse ancora interrompere il processo di adesione vale a dire che l’allargamento a Est non rallentasse l’Approfondimento dell’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).

Dopo la svolta compiuta a Copenaghen, l’Unione e i paesi dell’Europa centrale e orientale (PECO) si avvicinarono sempre più di anno in anno. Nel 1994, il Consiglio europeo di Essen offrì la possibilità ai PECO di prendere parte ai negoziati del Consiglio in modo da acquisire esperienza e farsi un’idea dell’attività quotidiana dell’UE (dialogo strutturato). Nel 1995, il Consiglio europeo di Cannes approvò il Libro bianco – una raccolta di direttive europee che regolamentavano il mercato interno da trasporre nelle legislazioni nazionali dei paesi associati (v. Libri bianchi).

In realtà, all’epoca (e precisamente nel 1996), la formula degli Accordi europei fu estesa a 10 PECO: Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Bulgaria e Slovenia. Ciò comportò per l’Ungheria (e per gli altri tre paesi cosiddetti di Visegrad ossia Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia) che lo status iniziale di precursori svaniva e la speranza di un allargamento anticipato che comprendesse solo pochi paesi diminuiva.

Il processo di adesione: dalla candidatura all’adesione a pieno titolo: 1994-2004

Nella primavera del 1994, l’Ungheria presentò la sua candidatura all’Unione europea seguita, entro la primavera del 1996, da quella degli altri nove paesi sopramenzionati, oltre a Cipro e Malta. Lo stesso anno la Commissione europea sottopose a tutti i dodici governi candidati un questionario molto dettagliato da completarsi entro un paio di mesi. Basandosi sulle risposte ottenute, la Commissione pubblicò i suoi pareri (avis) sul grado di preparazione in vista dell’adesione e inoltrò le sue proposte al Consiglio. Alla fine, il Consiglio europeo di Lussemburgo del dicembre 1997 decise di avviare i negoziati di adesione con cinque paesi più uno, vale a dire Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovenia, Estonia e Cipro. I restanti cinque PECO non furono ritenuti pronti per tali negoziati (Malta aveva all’epoca ritirato la sua candidatura per poi ripresentarla subito dopo). Pertanto nella primavera del 1998 fu inaugurato il “processo di allargamento” e in quel quadro di riferimento furono avviati i negoziati con l’Ungheria e con gli altri cinque paesi.

I negoziati di adesione furono divisi in due fasi. La prima venne denominata processo di “screening dell’acquis” con la quale esperti della Commissione europea e dei paesi candidati si riunirono per esaminare sistematicamente l’intero acquis giuridico dell’Unione. I candidati dovettero indicare per ogni voce se era già stata trasposta nella legislazione nazionale, se lo sarebbe stata al momento dell’adesione, o se riguardo a uno specifico atto giuridico sarebbe stata necessaria una deroga temporanea. La Commissione raggruppò l’acquis in 31 capitoli (29 capitoli settoriali più questioni istituzionali e varie). Nel dicembre 1988, grazie alla presidenza austriaca, il Consiglio europeo decise di accelerare i negoziati consentendo un approccio in parallelo che rendeva non indispensabile lo screening di tutti i capitoli prima di passare alla seconda fase dei negoziati; in tal modo una volta realizzato lo screening di un capitolo si potevano iniziare i cosiddetti negoziati reali. Durante questa seconda fase gli Stati membri e i candidati negoziarono le condizioni concrete dell’adesione e quindi le deroghe temporanee all’acquis (sia in termini di diritti che di doveri) da parte dell’Unione e dei paesi in via di adesione. Questi negoziati si rivelarono ovviamente più complessi e assunsero la forma di una Conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative) tra i Quindici e i rappresentanti governativi dei futuri Stati membri coadiuvati dalla Commissione europea. Contemporaneamente al processo negoziale, la Commissione pubblicò ogni autunno (dal 1998 in poi) le cosiddette Relazioni sui progressi compiuti per prepararsi all’adesione valutando gli sforzi intrapresi da tutti questi paesi.

L’Ungheria creò una struttura amministrativa altamente efficiente a sostegno dei negoziati e si avvalse di diplomatici ed esperti molto preparati nel corso di questi anni (v. Pyszna, Vida, 2002). Il paese compì notevoli sforzi per soddisfare tutti i requisiti dell’Unione, e il governo si prefisse come data di ingresso l’anno 2002 e programmò di conseguenza tutto il lavoro da svolgere. La data prefissata era collegata al pacchetto chiamato “Agenda 2000” adottato dal Consiglio europeo di Berlino nel marzo 1999. In questo documento, l’UE pubblicò il nuovo quadro finanziario per gli anni 2000-2006 e indicò esplicitamente le spese previste per i sei nuovi Stati membri dal 2002 in poi. Ciò nonostante, le speranze per un’adesione anticipata dei sei paesi appartenenti alla “prima ondata” naufragarono velocemente quando il Consiglio europeo di Helsinki nel dicembre 1999 diede via libera agli altri cinque paesi più uno per iniziare i negoziati di adesione. Divenne subito chiaro che il principio dell’Unione di negoziare in base al grado di preparazione dei singoli Stati era stato scalzato da un approccio big bang. Pertanto le due ondate stabilite precedentemente (il gruppo di Lussemburgo e quello di Helsinki) cominciarono a diventare una sola nel 2000-2001; solo per Bulgaria e Romania i negoziati proseguivano a un ritmo più lento.

Nel frattempo, anche l’Unione si preparava per l’allargamento. Dopo aver stabilito il quadro finanziario all’interno di “Agenda 2000”, il Consiglio europeo di Nizza adottò inoltre il quadro istituzionale per adattarsi a 27 Stati membri. Pertanto, dopo la ratifica piuttosto accidentata del Trattato di Nizza, vennero superati anche gli ostacoli istituzionali all’allargamento. Nel giugno 2001, il Consiglio europeo di Göteborg stabilì l’obiettivo dell’Unione di concludere i negoziati con i paesi più preparati entro la fine del 2002 (affinché potessero partecipare alle elezioni del Parlamento europeo del 2004 come membri a pieno titolo) e sei mesi dopo al summit di Laeken fu confermata la prospettiva di accogliere dieci nuovi Stati membri di lì a poco (allargamento big bang approvato).

I negoziati sulle condizioni di adesione si conclusero durante la maratona negoziale del 13 dicembre 2002, quando fu raggiunto l’accordo definitivo. A seguito di contrattazioni bilaterali, l’Ungheria ottenne le cosiddette deroghe, o più precisamente i periodi di transizione in materia di tassazione, trasporti, Politica sociale e concorrenza (v. Politica europea di concorrenza) – la maggior parte dei quali sono già scaduti. I periodi di transizione più importanti e quindi più lunghi furono quelli riguardanti la Libera circolazione dei capitali (vale a dire per l’acquisto di terreni agricoli da parte di persone fisiche o giuridiche dei vecchi Stati membri, una deroga di sette anni e una di cinque per l’acquisto di seconde case), alcuni standard ambientali (fino al 2015), la libera circolazione dei lavoratori (basata su accordi bilaterali e possibili restrizioni per un periodo massimo di sette anni) e il settore dei pagamenti diretti agricoli (gli agricoltori dell’Europa dell’Est, compresi gli ungheresi, avrebbero gradualmente aderito al sistema ricevendo al più tardi entro il 2013 l’ammontare totale delle loro controparti dell’Europa occidentale).

Dopo averlo tradotto in tutte le venti lingue ufficiali, il Trattato di adesione fu firmato ad Atene il 16 aprile 2003. Dopo le procedure di ratifica (in Ungheria l’ingresso fu approvato da quasi l’84% degli elettori, anche se con un’affluenza piuttosto bassa del 45,6%) i dieci nuovi Stati membri entrarono nell’Unione europea il 1° maggio 2004.

L’allargamento del 2004 significò per l’Unione un aumento della popolazione e del territorio di circa un quinto. Al contempo, la povera “sposa” portò al “matrimonio” solo il 5% del PIL dell’UE dei Quindici e il livello di vita medio (PIL pro capite) dei dieci nuovi membri non raggiungeva la metà di quello medio dei vecchi Stati membri (nel 2004 questa cifra era solo del 46%). Al di là delle statistiche, bisogna tuttavia sottolineare che l’allargamento a Est dell’Unione (compresa l’adesione della Bulgaria e Romania nel 2007 e anche in prospettiva del futuro ingresso dei paesi dei Balcani occidentali) riveste l’importanza storica di aver riunito l’Europa e aver fornito un quadro di riferimento migliore per la cooperazione pacifica, la solidarietà e la prosperità.

Primi passi come Stato membro: 2004-2007

L’Ungheria aderì in realtà al suo più importante partner economico. Alla chiusura dei negoziati di adesione (2002), il contributo dell’Unione alle esportazioni aumentò dal 18% del 1989 a più del 75% e alle importazioni dal 21% al 58% nello stesso periodo (v. Palánkai, 2007). Inoltre, la parte più consistente degli investimenti esteri diretti (circa l’80%) giunse dagli Stati membri dell’UE, soprattutto da Germania, Austria, Paesi Bassi e Francia. Tale riorientamento economico da Est a Ovest fu certamente consolidato dal processo di adesione che eliminò gradualmente le barriere agli scambi. Analogamente, l’Ungheria “riorientò” il suo sistema giuridico per allineare sistematicamente la sua legislazione all’acquis (v. anche Ravvicinamento delle legislazioni). Già durante i negoziati di adesione la pubblica amministrazione ungherese fu in grado di ristrutturarsi e organizzarsi secondo le logiche interne dell’attività quotidiana dell’UE (elaborazione rapida delle posizioni nazionali, partecipazione ai negoziati multi-attore, ricerca di alleati, imparare a fare compromessi, ecc.). Allo stesso tempo, l’Ungheria si fece un’idea del funzionamento del sistema di finanziamento dell’Unione, grazie al PHARE e successivamente all’Instrument for structural policies for pre-accession (ISPA) e allo Special accession program for agriculture and rural development (SAPARD). Questi cosiddetti fondi di preadesione (pari a 3 miliardi di euro all’anno) prepararono i dieci PECO candidati, compresa l’Ungheria, ad avvalersi degli strumenti di assistenza. Attraverso tali fondi, tra il 2000 e il 2004 l’Ungheria ricevette circa 220 milioni di euro all’anno, diretti soprattutto all’armonizzazione legale e allo sviluppo istituzionale, alle infrastrutture di trasporto e agli investimenti ambientali, nonché al settore agricolo e allo sviluppo rurale.

All’atto dell’adesione, l’Ungheria intraprese un lungo processo di apprendimento e di adattamento diventando un membro dell’Unione europea molto ben preparato. Riguardo alla performance ungherese come Stato membro, tuttavia, gli ultimi tre anni e mezzo hanno dato risultati contrastanti e l’Ungheria non può ancora essere definita un membro di pieno successo.

Innanzitutto, diversamente dagli altri nuovi Stati membri, l’Ungheria non ha sperimentato quello slancio alla crescita dopo l’adesione all’UE ma, al contrario, il tasso di crescita è diminuito dal 4,8% del 2004 al 3,9% del 2006 per poi rallentare e scendere al di sotto del 3% nel 2007. Questo è certamente un risultato negativo in termini di miglioramento del tenore di vita, che rappresenta uno dei principali motivi per aderire all’UE. Con un tasso del 63,1%, in relazione al PIL pro capite (a parità di potere d’acquisto) e su una media di 100 nell’UE-25, alla fine del 2006 l’Ungheria ha perso il terzo posto diventando il quarto paese dopo Slovenia (83,8%), Repubblica Ceca (76,1%) ed Estonia (64,8%). Per un recupero più veloce l’Ungheria avrebbe bisogno di una crescita economica più dinamica e sostenibile.

Nel 2004, quando l’Ungheria e gli altri nove paesi aderirono all’Unione doganale e al mercato interno, si osservò un interessante fenomeno. Poiché già esisteva il libero scambio industriale tra i PECO e l’UE, l’espansione commerciale non si verificò con i vecchi Stati membri; gli scambi esplosero invece con quelli nuovi soprattutto nel primo anno dopo l’adesione. Inoltre si assistette a un maggiore dinamismo nel commercio agricolo sia con i vecchi che tra i nuovi Stati membri dal momento che il settore agricolo non era stato completamente liberalizzato prima dell’allargamento.

I nuovi Stati membri beneficiarono anche dei sussidi dell’UE alle esportazioni verso paesi terzi, che potevano essere utilizzati soprattutto con i loro vicini orientali.

Per quanto riguarda il settore delle esportazioni, l’Ungheria mantiene la sua competitività nel mercato interno. La maggior parte delle esportazioni industriali ungheresi avviene verso i vecchi Stati membri (in particolare la Germania) e riguarda prodotti lavorati ad alto valore aggiunto (ad es. macchinari, prodotti elettronici). Negli ultimi anni l’Ungheria ha cercato di migliorare la performance delle esportazioni (ma la sua bilancia commerciale complessiva è ancora negativa). Il suo punto debole rimane il fatto che circa l’80% delle esportazioni proviene da società estere con sede in Ungheria da cui il paese dipende fortemente.

A parte gli eccellenti risultati ottenuti dall’Ungheria nel commercio di prodotti industriali, nel settore agricolo si è verificata la situazione opposta. In realtà l’intero settore (per tradizione molto importante per l’Ungheria) aveva subito una grave recessione e contrazione: all’inizio del nuovo millennio, la produzione agricola era scesa a circa il 60% del livello raggiunto nel 1989 – e questo non era il peggior risultato tra i paesi in via di adesione (v. Pálankai, 2007). Mentre rendeva il settore agricolo più competitivo, l’Ungheria perdeva la discreta posizione guadagnata nel mercato interno nel settore delle esportazioni con un’eccedenza commerciale sempre più ridotta. Il paese è intenzionato a recuperare il dinamismo in questo settore prestando particolare attenzione alla crescente richiesta di prodotti alimentari a livello mondiale. A questo riguardo, l’Ungheria (pur sostenendo i principi della Politica agricola comune) vorrebbe avviare una revisione dell’attuale politica di riduzione della produzione.

Un’altra importante libertà nel mercato interno è la Libera circolazione delle persone e dei lavoratori. Per quanto riguarda la prima, l’Ungheria e gli altri nuovi Stati membri sono stati gradualmente integrati nell’area Schengen e l’adesione completa è prevista per il 1° gennaio 2008. Ciò riveste particolare importanza per l’Ungheria, considerata la presenza di minoranze ungheresi in tutti i paesi limitrofi. Da quando sono iniziati i cambiamenti strutturali, una delle priorità della politica estera ungherese è stata quella di riunire gli ungheresi del bacino carpatico attraverso l’adesione nell’Unione europea, dove i confini scompaiono. Certamente un altro importante traguardo per i cittadini ungheresi è quello di poter viaggiare in Europa con un semplice documento d’identità e senza controlli interni alle frontiere.

La circolazione di lavoratori, tuttavia, non è avvenuta in tempi così rapidi. Come detto prima, il Trattato di adesione affidò agli Stati membri il compito di risolvere individualmente tale questione. Da un lato Austria e Germania, i due potenziali paesi più importanti per gli ungheresi in cerca di lavoro, non hanno liberalizzato i loro mercati del lavoro e sembrano attenersi alla formula del periodo massimo di sette anni (ciò non proibisce di impiegare cittadini dei nuovi Stati membri, ma impone il rispetto di rigide quote che limitano l’afflusso di manodopera). Dall’altro lato Regno Unito, Irlanda e Svezia hanno aperto i loro mercati del lavoro al momento dell’allargamento (ed entro il 2007 più della metà dei vecchi Stati membri liberalizzava la mobilità dei lavoratori). Molti cittadini dei nuovi Stati membri hanno sfruttato questa occasione, in particolare polacchi, lituani e lettoni. In Ungheria, tuttavia, si è assistito a un flusso migratorio relativamente minore di lavoratori e solo 10-15 mila hanno abbandonato il loro paese per trovare lavoro in uno dei sopraccitati Stati (soprattutto nel Regno Unito). La spiegazione principale è la mobilità tradizionalmente scarsa dei lavoratori ungheresi, oltre al fatto che finora il tasso di disoccupazione è stato molto basso (6-7%) rispetto ai tre paesi citati, i quali al momento dell’adesione risentivano di alti tassi di disoccupazione a due cifre. Ciò nonostante, ultimamente questa percentuale di così grande importanza sociale è andata lentamente aumentando in Ungheria, mentre è diminuita in tutti gli altri nuovi membri, e ciò potrebbe contribuire a un’ulteriore emigrazione. Strettamente collegato a questa questione è il tasso di occupazione che è il più basso dopo quello della Polonia: l’attuale percentuale del 57% è molto lontana dall’obiettivo fissato a Lisbona del 70% per il 2010. (Al di là degli effetti positivi della maggiore mobilità dei lavoratori all’interno dell’Europa, bisogna prendere in considerazione e gestire la fuga di cervelli in tutti i nuovi Stati membri).

Esistono probabilità concrete che entro il 2013 l’economia ungherese possa registrare un’importante crescita grazie a un afflusso di circa 3 miliardi di euro dal bilancio europeo destinato allo sviluppo nazionale (v. Bilancio dell’Unione europea). La Commissione europea ha dato il via a 15 programmi operativi (compresi sette programmi regionali e altri settoriali e orizzontali) (v. Programmi comunitari). Si spera che gli imminenti investimenti nelle infrastrutture fisiche e umane, nella tutela dell’ambiente e nello sviluppo rurale possano produrre un effetto benefico sulla crescita, sull’occupazione e sul tenore di vita in genere. In realtà a questo riguardo, l’Ungheria sembra aver iniziato bene dal momento che secondo la Commissione europea ha raggiunto il miglior risultato nell’assorbimento dell’assistenza comunitaria tra i nuovi Stati membri arrivando a un tasso di pagamenti del 63% alla fine del 2006 (contro una media raggiunta dagli otto PECO di circa il 44%).

Un ulteriore slancio e una convergenza reale più dinamica alla media UE dovrebbero essere associati anche a una convergenza nominale più equilibrata e sostenibile. Quando l’Ungheria aderì all’UE, si assunse tutti gli obblighi inerenti, compresa l’adesione all’Unione economica e monetaria e la futura introduzione della moneta unica. Ciò comporta che l’Ungheria dovrà soddisfare gradualmente i due criteri fiscali e i tre monetari (i cosiddetti criteri di Maastricht) per poter accedere all’area dell’Euro. Tuttavia, nei primi tre anni dopo l’adesione (diversamente dagli altri nuovi membri) il paese si è allontanato da questo obiettivo. Nel 2006, l’Ungheria è stato l’unico Stato membro a non soddisfare nessuno dei cinque criteri: ha accumulato (in termini di PIL) un disavanzo di bilancio superiore al 9% e un debito pubblico del 66%, ha raggiunto un tasso di inflazione del 4%, tassi di interesse a lungo termine del 7,1% e inoltre la sua valuta non ha partecipato al Meccanismo di cambio europeo (ERM II). Il governo ungherese ha introdotto severe misure di austerity per diminuire il disavanzo di bilancio. A causa di questi problemi non è stata ancora fissata alcuna data ufficiale in merito all’introduzione dell’euro.

Per quanto concerne le istituzioni e l’applicazione del Diritto comunitario, le prestazioni dell’Ungheria sono positive. Occorre sottolineare che l’allargamento da 15 a 27 Stati membri non ha ostacolato il funzionamento delle istituzioni e l’integrazione dei nuovi Commissari, funzionari europei, membri del Parlamento europeo o giudici è avvenuta senza intoppi. Anche in merito alla trasposizione delle Direttive (v. Direttiva) i risultati che l’Ungheria sta raggiungendo sono positivi e il paese rimane in cima alla classifica degli Stati membri, al terzo posto. Inoltre, finora solo in tre casi l’Ungheria è comparsa davanti alla Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) (su deferimento della Commissione europea) per non aver ottemperato al diritto comunitario.

In sintesi (v. Túry, Vida, 2007) l’Ungheria ha i suoi punti deboli e i suoi punti di forza come membro dell’Unione europea. È in atto in realtà una “pressione diplomatica” sull’Ungheria affinché raggiunga risultati migliori come Stato membro in vista della presidenza dell’UE che nella prima metà del 2011 spetterà all’Ungheria coadiuvata da Spagna e Belgio (detentori della presidenza nel 2010) (v. anche Presidenza dell’Unione europea). In quel periodo l’Ungheria sarà necessariamente alla ribalta e quindi il governo ha già iniziato a prepararsi all’evento.

Conclusioni

Pur appartenendo al blocco d’oltre cortina controllato dai sovietici, l’Ungheria ha sempre perseguito buone relazioni con il mondo occidentale. Come sottolineato prima, durante la Guerra fredda ha aderito al GATT, al FMI e alla Banca mondiale stabilendo buone relazioni anche con la CEE. L’Ungheria ha svolto un ruolo primario nell’abbattimento della cortina di ferro ed è stato tra i primi paesi ad aderire al Consiglio d’Europa, alla NATO e infine all’Unione europea. Sia sotto il profilo politico che quello economico, l’UE ha rappresentato la principale “ancora di salvezza” per l’Ungheria, a partire dai cambiamenti strutturali. L’economia dell’Ungheria è profondamente interconnessa al Mercato interno e il suo sistema giuridico e istituzionale ha raggiunto un alto livello di conformità. Tuttavia, l’Ungheria dovrebbe impegnarsi maggiormente per raggiungere una convergenza sia reale che nominale (espressa in termini di tenore di vita nonché di indicatori fiscali e monetari per poter aderire all’area dell’euro).

A livello politico (a parte alcuni contrasti come accadde ad esempio quando il governo ungherese mostrò la sua esitazione riguardo agli impegni dell’UE in materia di diversificazione delle importazioni di energia) l’Ungheria si è dimostrata un partner collaborativo, impegnato verso riforme istituzionali/costituzionali, verso un ulteriore approfondimento e un ulteriore allargamento. Concretamente ciò significa che l’Ungheria è stata il secondo Stato membro (dopo la Lituania) a ratificare il Trattato costituzionale ed è anche favorevole al Trattato di riforma (v. Costituzione europea). L’Ungheria è anche a favore di una liberalizzazione maggiore nel Mercato interno (ad esempio riguardo alla Libera circolazione dei servizi), di un ulteriore allargamento dell’UE (considerati gli ungheresi che vivono intorno ai confini nazionali) e inoltre vorrebbe promuovere la Politica europea di vicinato dell’UE.

Krisztina Vida (2007)




UNICE

Unione delle industrie della Comunità europea (UNICE)




Union européenne de radiodiffusion

Unione europea di radiodiffusione




Unione delle industrie della Comunità europea

Il Consiglio delle Federazioni industriali europee (CIFE), nato ufficialmente il 22 febbraio 1950 (ma già dal maggio 1949 erano stati stabiliti contatti informali), fu la prima organizzazione ombrello degli interessi industriali creata in Europa nel secondo dopoguerra. Nell’ambito dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) esso riuniva 25 federazioni industriali di 17 paesi diversi. Con la creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), le federazioni industriali dei paesi coinvolti diedero vita, nel 1952, all’Unione degli industriali dei sei membri nella forma di un’articolazione subregionale del CIFE. Nel marzo 1958, dopo l’entrata in vigore dei Trattati di Roma, nacque l’Unione delle industrie della Comunità europea (UNICE) che all’epoca riuniva le otto maggiori federazioni padronali presenti nei sei paesi membri della Comunità economica europea (CEE), più la Federazione industriale greca come membro associato. Nel 2003 l’UNICE contava 35 membri, più quattro con status di osservatori, di 28 paesi diversi.

Dal punto di vista organizzativo l’UNICE ha ereditato lo schema strutturale del CIFE. L’organo gerarchicamente più elevato è il Consiglio dei presidenti, composto dai presidenti delle federazioni affiliate, che si riunisce due volte l’anno (fino al 1973 ogni due mesi), cui spetta la definizione delle linee di azione generali dell’organizzazione e l’elezione del presidente e dei vicepresidenti, in carica per due anni rinnovabili una volta.

Presidenti dell’UNICE 1958-2003

Léon Bekaert (Belgio) 1958-1961 Guido Carli (Italia) 1981-1983
Georges Villiers (Francia) 1961-1962 Ray Pennock (Regno Unito) 1984-1986
H.J de Koster (Paesi Bassi) 1962-1967 Karl-Gustav Ratjen (Germania Federale) 1986-1990
Fritz Berg (Germania Federale) 1967-1971 Carlos Ferrer (Spagna) 1990-1994
Paul Huvelin (Francia) 1971-1975 François Perigot (Francia) 1994-1998
Pol Provost (Belgio) 1975-1980 Georges Jacobs (Belgio) 1998-2003

Fonte: www.unice.org.

Il Comitato esecutivo, creato nel 1973 dopo l’ingresso della Federazione britannica e composto dai direttori generali delle Federazioni affiliate, si riunisce quattro volte l’anno ed è responsabile della gestione generale dell’organizzazione.

Il Comitato dei delegati permanenti, che nell’ambito UNICE svolge grosso modo la stessa funzione del Comitato dei rappresentanti permanenti (COREPER) in ambito comunitario, si riunisce una o due volte al mese ed è composto da rappresentanti delle federazioni nazionali col compito di seguire l’evoluzione delle politiche comunitarie e garantire il coordinamento tra le Federazioni affiliate e l’organizzazione centrale.

Vi è poi l’Ufficio esecutivo, composto dai rappresentanti delle federazioni dei cinque maggiori paesi, del paese che detiene la presidenza dell’Unione e di cinque paesi minori a rotazione. L’Ufficio si riunisce tutte le volte che sia necessario per rispondere a questioni urgenti, assistere il Comitato esecutivo e i delegati permanenti nel fissare l’agenda dell’organizzazione e nel determinare le politiche di applicazione del programma annuale.

Il segretario generale, responsabile della gestione quotidiana dell’organizzazione, è assistito da uno staff che nel 2004 era composto da 45 persone. Spesso la figura del segretario generale ha assunto un ruolo di rilievo. È da ricordare in particolare l’azione di Zygmunt Tysszkyewicz, nominato segretario generale nel 1984, già dirigente della Shell, che si fece promotore di una serie di riforme dirette ad aumentare le capacità di intervento dell’UNICE nella vita comunitaria.

Vi sono infine cinque Comitati (Affari economici e finanziari, Affari industriali, Relazioni esterne, Affari sociali, Affari societari) composti da industriali ed esperti, nominati dalle federazioni affiliate, con ruoli di consulenza e di esecuzione delle politiche adottate dall’Ufficio esecutivo e di coordinamento dell’azione dei Gruppi di lavoro (nel 2004 esistevano 60 Gruppi di lavori a cui prendevano parte 1200 esperti) (v. Comitati e gruppi di lavoro).

Compito dell’UNICE è di monitorare e influenzare, attraverso un’opera di Lobbying coordinata, il decision making a livello europeo. L’UNICE quindi avrebbe dovuto costituire un forum di incontro del padronato europeo, in grado di operare una sintesi delle diverse posizioni, mediare le richieste delle organizzazioni nazionali e incanalarle verso le Istituzioni comunitarie. In realtà non sempre, secondo alcuni molto raramente, tale azione è risultata efficace, per una serie di ragioni. In primo luogo per l’eterogeneità della composizione: nell’UNICE convivono organizzazioni puramente industriali e altre che riuniscono gli interessi non solo dell’industria ma anche del commercio e/o dell’artigianato. In secondo luogo per le differenze negli interessi nazionali delle federazioni rappresentate, che emergono soprattutto nei periodi di crisi economica. Infine, per l’esistenza di una pletora di organizzazioni rappresentanti gli interessi industriali, sia settoriali che nazionali (in genere ogni federazione aderente all’UNICE mantiene un ufficio di rappresentanza a Bruxelles), che svolgono opera di lobbying a Bruxelles, in maniera più efficace dell’UNICE, spesso lenta e impacciata dall’esigenza di mediare tra le sue diverse componenti.

Francesco Petrini (2009)




Unione dell’Europa occidentale

Il 30 agosto 1954, sul voto a una mozione “pregiudiziale”, l’Assemblea nazionale francese bocciava il Trattato istitutivo della Comunità europea di difesa (CED). L’indomani, il ministro degli Affari esteri britannico, Anthony Eden, suggeriva al presidente del Consiglio francese, Pierre Mendès France, di modificare il Patto di Bruxelles, firmato il 17 marzo 1948 da Belgio, Francia, Regno Unito, Lussemburgo e Paesi Bassi e, tolto il riferimento all’eventuale minaccia della «ripresa di una politica di aggressione da parte della Germania» (art. 4), trasformare quella che era l’Unione occidentale in Unione dell’Europa occidentale (UEO). Si garantiva così la Francia pur consentendo il riarmo della Repubblica Federale Tedesca (v. Germania), obiettivo primario per gli Stati Uniti nel progetto di esercito europeo.

La Conferenza di Londra (28 settembre-3 ottobre), che riuniva su invito britannico i Cinque del Trattato di Bruxelles, Italia, Repubblica federale, Stati Uniti e Canada, fissò i principi guida: la fine dello statuto di occupazione della Repubblica federale, che si impegnava a non ricorrere alla forza per realizzare la Riunificazione o modificare le frontiere; l’invito a questa e all’Italia a far parte dell’UEO; il livello delle forze UEO per la difesa comune, integrate nell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), da fissare mediante accordo speciale; la costituzione di una Agenzia di controllo degli armamenti (ACA) per vegliare sul divieto posto alla Repubblica federale di produrre armi nucleari, batteriologiche e chimiche (NBC); l’impegno da parte statunitense, britannica e canadese a mantenere proprie truppe sul continente; il comando esclusivo in Europa del Supreme allied commander Europe (SACEUR) della NATO, evitando in tal modo l’eventuale ritorno a comandi europei autonomi sul modello dello Stato maggiore dell’Unione occidentale a Fontainebleau, sciolto in seguito al trasferimento alla NATO di tutte le funzioni militari (decisione del Consiglio consultivo dei Cinque, 20 dicembre 1950).

Sulla base di questi principi nasceva l’UEO (o WEU secondo l’acronimo inglese: Western European union) con la firma a Parigi di quattro Protocolli (23 ottobre 1954) entrati in vigore il 6 maggio 1955: il primo modificava e completava il Trattato di Bruxelles; il secondo riguardava le forze dell’UEO poste “sotto comando del SACEUR”; il terzo, relativo al controllo degli armamenti, conteneva l’impegno della Repubblica federale (Dichiarazione del cancelliere, Londra, 3 ottobre, Annesso I) a non produrre ordigni NBC (elencati nell’Annesso II) così come altri tipi di armamenti (elencati nell’Annesso III), nonché l’impegno delle altre parti contraenti «che non [avessero] rinunciato al diritto di produrre tali armamenti» di accettare una limitazione dei loro stock sul continente da stabilirsi con voto a maggioranza del Consiglio dell’UEO, e di sottoporsi ad una serie di controlli su alcuni armamenti (elencati nell’Annesso IV), e secondo procedure stabilite dal quarto Protocollo e attuate dall’ACA. La Repubblica federale entrava così, quale quindicesimo membro, nella NATO, con un suo esercito e un suo ministero della Difesa.

A differenza del Patto atlantico (art. 5), il Trattato sull’UEO prevedeva il ricorso automatico alla difesa collettiva (art. V): nel caso in cui uno degli Stati membri fosse fatto «oggetto di una aggressione armata in Europa», gli altri gli forniranno, conformemente all’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite, «aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro potere, militari ed altri». Rispetto alla NATO, destinata a intervenire in una area ben delimitata, l’UEO non era potenzialmente vincolata da limiti geografici. Il Consiglio infatti, a richiesta di uno degli Stati membri, poteva essere «immediatamente convocato» per permettere a questi ultimi «di concertarsi su ogni situazione suscettibile di costituire una minaccia contro la pace, in qualsiasi luogo questa possa prodursi, o che metta in pericolo la stabilità economica» (art. VIII § 3).

Organismi dell’UEO erano il Consiglio, il segretario generale, l’ACA e l’Assemblea parlamentare. Massimo organo politico dell’UEO, il Consiglio, costituito dai ministri degli Affari esteri, affiancato da un Consiglio permanente dove sedevano gli Ambasciatori accreditati alla Corte di San Giacomo, deliberava all’unanimità in tutte quelle questioni per le quali non fossero previste speciali procedure di voto, come ad esempio quelle sottoposte dall’ACA, che richiedevano la maggioranza semplice (art. VIII § 4). Per la preparazione delle riunioni, la formazione dei Gruppi di lavoro, i contatti con l’Assemblea parlamentare, era coadiuvato da un Segretariato generale con funzioni puramente amministrative (Convenzione sullo Statuto dell’UEO, dei rappresentanti nazionali e del personale internazionale, 11 maggio 1955). L’ACA, con il bilancio di spesa più importante, fino a 52 funzionari ripartiti in una Direzione e tre divisioni (Informazione e studi, Ispezioni e controlli, Amministrazione e affari giuridici) non applicò tuttavia i suoi poteri di controllo nel settore nucleare né alla Repubblica federale né a Gran Bretagna e Francia. Il 27 giugno 1984, il Consiglio ministeriale metteva fine alla proibizione per la Repubblica federale di produrre armi convenzionali, mentre il controllo su queste, dopo una prima riduzione (gennaio 1985) venne definitivamente abolito (1° gennaio 1986). Il Consiglio di Erfurt (18 novembre 1997) chiudeva ufficialmente l’ACA.

In sessione ordinaria (giugno e dicembre) a Parigi, e in commissioni permanenti riunite da 8 a 10 volte l’anno (Difesa, Politica, Affari di bilancio e Amministrativa, Regolamento e Immunità, Aerospaziale, Relazioni parlamentari) l’Assemblea parlamentare, formata da delegati dei Parlamenti nazionali – inizialmente parlamentari dell’Assemblea consultiva del Consiglio d’Europa (art. IX) – estese autonomamente le proprie competenze approvando (ottobre 1955) un Regolamento e una Carta costituiva. Secondo tale Carta, l’Assemblea poteva «deliberare su ogni questione attinente al Trattato e su ogni altra questione ad essa sottoposta per richiesta di parere dal Consiglio», e quindi indirizzare allo stesso «raccomandazioni e pareri su ogni questione che rientri negli scopi e nelle competenze dell’UEO», alle quali quest’ultimo doveva unicamente fornire «risposta scritta». Dal Consiglio l’Assemblea riceveva un Rapporto annuale sul controllo degli armamenti che poteva rigettare, senza tuttavia alcuna conseguenza, con una mozione di almeno 10 parlamentari adottata a maggioranza assoluta, cosa tentata due volta, senza (1957) e con successo (1967).

Nel gennaio 1955, quando Mendès France volle riprendere le disposizioni della CED sulla cooperazione nel settore degli armamenti, connotate in senso sopranazionale, venne costituito un primo Gruppo di lavoro. Respinto tuttavia il memorandum francese, nasceva su ispirazione britannica il Comitato permanente degli armamenti (CPA; decisione del Consiglio, 7 maggio 1955). Con sede a Parigi, l’ultimo organismo “sussidiario” dell’UEO aveva pochi funzionari a double casquette, appartenenti cioè anche alla NATO. Riunito due volte l’anno, redigeva un Rapporto annuale per il Consiglio. Suo compito era quello di «ricercare soluzioni comuni che [avrebbero facilitato] i governi dei paesi membri nel soddisfare le loro necessità in fatto di equipaggiamenti», favorendo accordi aperti ai non membri su «studi, standardizzazione, produzione e approvvigionamento degli armamenti». Nessun armamento UEO tuttavia venne prodotto. Standardizzazione e produzione coordinata si svilupparono in seno alla NATO.

Il 10 luglio 1956, il Consiglio ministeriale notava: «all’ora attuale, l’UEO non dovrebbe essere considerata che come il depositario dell’impegno solenne di assistenza reciproca iscritto nell’Art. V del Trattato di Bruxelles modificato e la guardiana della procedura enunciata nel suo art. VIII» (v. Dumoulin, Remacle, 1998, pp. 62-63). Alla vigilia della firma degli Accordi di Parigi, il Consiglio atlantico aveva votato una risoluzione che metteva in guardia dalla “duplicazione” di organismi militari fra NATO e UEO. L’art. IV del Trattato di Bruxelles così modificato oltre a rimarcare la stretta cooperazione con l’Alleanza atlantica precisava: «In vista di evitare qualsiasi doppio impiego con gli Stati maggiori della NATO il Consiglio e l’ACA si rivolgeranno alle autorità militari appropriate della NATO per ogni informazione e ogni parere sulle questioni militari». I Sette rinunciavano così a strutture militari proprie.

Dietro questo paravento politico-istituzionale, l’UEO, a partire dalla proposta del ministro degli Esteri britannico John Profumo del 2 dicembre 1959 (accettata dal Consiglio ministeriale, 4 febbraio 1960) di far seguire regolarmente delle consultazioni UEO alle riunioni politiche decise in novembre a Strasburgo dai ministri degli Esteri dei Sei, la Gran Bretagna poté presentare le proprie posizioni affrontando il primo (14 gennaio 1963) e il secondo (27 novembre 1967) veto del generale Charles de Gaulle, sullo sfondo del confronto fra sopranazionalità e via intergovernativa alla cooperazione politica europea a partire dal Piano Fouchet (1961-1962), e fino al Piano Harmel. Il 3 ottobre 1968, il ministro degli Esteri belga Pierre Harmel proponeva infatti l’istituzionalizzazione delle riunioni UEO a Sette per coprire i settori esclusi dal Trattato di Roma (v. Trattati di Roma): difesa, politica estera, tecnologia, moneta. Il 5 febbraio 1969, il governo italiano suggeriva una consultazione obbligatoria in seno all’UEO sulla politica internazionale. De Gaulle si oppose, e il 14 gli altri Sei dell’UEO decisero di attuare egualmente la cooperazione in politica estera. Cinque giorni più tardi, il rappresentante francese lasciava il Consiglio. Le riunioni continuarono allora senza la Francia (la cosiddetta crisi della “sedia vuota” all’UEO).

Con l’ingresso britannico nella Comunità economica europea (CEE, 1° gennaio 1973), il Consiglio ministeriale non si riunì più. Lo sviluppo di una cooperazione politica europea poteva essere affrontato in seno alla Comunità ormai a Nove. La “Bella addormentata” nel bosco dei Trattati, come ci si era abituati a chiamare l’UEO, non doveva risvegliarsi che undici anni più tardi, a Roma. Di nuovo convocato il Consiglio, vi partecipavano per la prima volta i ministri della Difesa. La Dichiarazione e il documento annesso sulle riforme istituzionali, adottati in quell’occasione (27 ottobre 1984), avviavano un periodo di “rivitalizzazione” che si sarebbe concluso entro il 31 dicembre 1987. Il movimento era iniziato a Parigi. Il presidente François Mitterrand aveva presentato (4 febbraio 1984) un memorandum volto appunto a “rivitalizzare” l’UEO quale unica organizzazione europea “completa” nel settore della difesa fra la CEE e la NATO; a rilanciarne il Consiglio, ma soprattutto l’Assemblea per riavvicinare alle problematiche della difesa un’opinione pubblica mobilitata contro l’installazione degli “euromissili” (il 20 gennaio 1983 Mitterrand aveva sostenuto davanti al Bundestag la decisione del neocancelliere Helmut Josef Michael Kohl per il loro dispiegamento); a fare del CPA espressione della volontà di cooperazione nel settore degli armamenti (come reazione alla Strategic defence initiative). Mitterrand voleva riavviare il motore franco-tedesco dell’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della) con l’obiettivo storico di controllare la Germania e porsi, di fronte all’irrigidimento statunitense, come l’interlocutore europeo dell’URSS. Il 10 febbraio, a Brema, il ministro degli Esteri tedesco Hans-Dietrich Genscher sosteneva l’iniziativa francese. Il 13 marzo, il governo belga presentava a sua volta un memorandum: da una UEO ad influenza britannica a una a conduzione franco-tedesca quale quadro di una cooperazione europea in materia di sicurezza e dunque via per l’“europeizzazione” dell’Alleanza atlantica, con un ritorno a riunioni trimestrali di un Consiglio coadiuvato da rappresentanti politico-militari.

Sulla base di quanto stabilito dai Consigli di Roma (27 ottobre 1984) e Lussemburgo (13-14 novembre 1986), vennero così istituzionalizzate le riunioni dei direttori degli Affari politici dei ministeri degli Esteri, da soli o con i Rappresentanti permanenti (gli Ambasciatori a Londra) e i rappresentanti dei ministeri della Difesa. Tale Consiglio permanente era trimestrale, semestrale quello dei ministri degli Esteri e della Difesa assistito per preparare le proprie sessioni da due gruppi di lavoro principali: quello sulla SDI venne trasformato in Gruppo di lavoro speciale sull’insieme dei problemi della sicurezza europea, e avrebbe poi elaborato la Piattaforma dell’Aia, e quello dei Rappresentanti dei ministri della Difesa; entrambi affiancati da gruppi ad hoc, come quello sul Mediterraneo animato da Francia e Italia. Abolito il Segretariato internazionale del CPA, per realizzare gli obiettivi della Dichiarazione di Roma nascevano a Parigi tre nuove Agenzie (operative dal 1986): Controllo e disarmo, Sicurezza e difesa, Impulso alla cooperazione degli armamenti.

A Reykjavick (11-12 ottobre 1986), Ronald Reagan e Michail Gorbačëv avevano di poco fallito un accordo sugli “euromissili” che avrebbe lasciato inalterata la superiorità sovietica in Europa quanto a armamenti convenzionali ed effettivi. Occorreva una risposta “europea”. In dicembre, il primo ministro francese Jacques Chirac all’Assemblea dell’UEO, e Mitterrand in gennaio a Londra, proponevano l’elaborazione di una solenne Carta dei principi della sicurezza europea che affermasse una identità europea nel settore della sicurezza centrata sull’UEO. Da questa proposta scaturiva la Piattaforma sugli interessi europei in materia di sicurezza approvata dal Consiglio dell’Aia (27 ottobre 1987) che mirava ad assicurare la piena difesa convenzionale e nucleare di una Europa della difesa tutta da costruire seppur rafforzando il “pilastro europeo” della NATO.

Il 20 agosto 1987, all’Aia, la presidenza olandese aveva convocato il Consiglio ex art. VIII § 3 del Trattato di Bruxelles modificato. Si decideva di partecipare alle operazioni di sminamento nel Golfo, primo intervento “fuori area” dell’UEO dopo l’entrata in vigore dell’Atto unico europeo e dell’adozione della Piattaforma dell’Aia, ma anche primo caso di concertazione fra i Sette e gli Stati Uniti. L’8 dicembre, Reagan e Gorbačëv firmavano il Trattato di Washington sull’eliminazione degli “euromissili”. Il 22 gennaio 1988, con l’istituzione del Consiglio di sicurezza e difesa franco-tedesco nasceva la Brigata franco-tedesca. Il 18-19 aprile, il Consiglio dell’Aia invitava Spagna e Portogallo ad avviare i negoziati per l’adesione (nuovi membri il 1° marzo 1990). Gli avvenimenti del 1989 smorzarono però questa corsa al rafforzamento e all’allargamento. Nel febbraio 1990, un memorandum del sottosegretario di Stato statunitense Reginald Bartholomew invitava a rafforzare la “gamba europea” della NATO salvaguardando tuttavia la centralità dell’Alleanza atlantica, senza quindi pensare a una integrazione a termine dell’UEO nella Comunità europea. Doveva essere questa la linea tenuta dalle amministrazioni americane lungo quel processo che doveva portare l’UEO dalla “rivitalizzazione” al trasferimento all’Unione europea (UE) (Consiglio UEO di Marsiglia, 13 novembre 2000) delle funzioni di gestione delle crisi (le c.d. “missioni Petersberg”) (v. anche Missioni di tipo “Petersberg”).

“Ponte” fra i Dodici, «incaricati della politica estera, della politica di sicurezza, e la NATO, incaricata della difesa» (Douglas Hurd, ministro degli Esteri britannico, The Churchill Memorial Lecture, 19 febbraio 1991), “pilastro” europeo dell’Alleanza (Dichiarazione anglo-italiana, 4 ottobre 1991), e “braccio armato” dell’UE (Lettera Kohl-Mitterrand, 14 ottobre 1991), al servizio di obiettivi definiti dal Consiglio, le c.d. missioni di Petersberg (19 giugno 1992), l’UEO entrava nel Trattato di Maastricht (art. J.4.2: «Parte integrante dello sviluppo dell’Unione», incaricata «di elaborare e di realizzare le decisioni e le azioni […] che hanno implicazioni nel settore della difesa»), e in particolare nella prima Dichiarazione annessa sui rapporti con NATO e UE. La seconda Dichiarazione su partecipazione e associazione di Stati membri dell’Alleanza e/o dell’Unione estendeva all’UEO la “geometria variabile”, i “quattro cerchi” (Dichiarazione del Kirchberg, 9 maggio 1994): membri (Grecia, 1995), osservatori (Danimarca, Irlanda, Austria, Finlandia e nel 1995 Svezia), associati (Islanda, Norvegia e nel Turchia), partner associati (Bulgaria, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, 1995, e Slovenia, 1996).

Trasferito a Bruxelles (aprile 1993) con il Segretariato generale, il Consiglio venne affiancato da Gruppi di lavoro, alcuni ad hoc (per esempio Mediterraneo, Raggruppamenti di forze multinazionali, Iugoslavia) e, oltre al Gruppo speciale e a quello dei rappresentanti dei ministri della Difesa, da sei Gruppi permanenti: del Consiglio (per prepararne le riunioni); Politico-militare (PolMil) su questioni operative con rappresentanti dei ministeri di Esteri e Difesa); Spazio, sull’attività del Western European Union satellite centre (WEUSC) attivato il 1° gennaio 1999 a Torrejon in Spagna, e passato poi nel 2001 all’UE; Comitato bilancio e organizzazione; Comitato politico e di sicurezza (semestrale, con rappresentanti della sicurezza nazionale e del Bureau de sécurité dell’UEO). Infine, il Gruppo di lavoro dei delegati militari costituito dai rappresentanti dei capi di Stato maggiore della Difesa, incaricato di prepararne le riunioni che il Consiglio istituzionalizzava trasformandole il 13 maggio 1997 in Comitato militare, semestrale e affiancato da delegati permanenti. Consulente militare e interfaccia con gli Stati maggiori nazionali e le Euroforze, esso sarebbe stato sostituito – Consiglio europeo, decisioni (v. Decisione) 14 febbraio 2000 e 22 gennaio 2001 – dall’European union military committee (EUMC) con il suo braccio operativo, l’European Union military staff (EUMS), entrambi collegati al segretario generale del Consiglio dell’UE divenuto anche Alto rappresentante per la Politica europea di sicurezza comune (PESC) e segretario generale dell’UEO (Javier Solana dall’ottobre 1999).

Organo sussidiario del Consiglio, la Cellula di pianificazione militare (installata il 1° ottobre 1992 e operativa dal 22 giugno 1993) veniva incaricata dei piani generici e operativi per le Forces relevant de l’UEO (FRUEO); delle raccomandazioni in materia di comando, condotta delle operazioni e comunicazioni; del censimento delle unità disponibili. Fra i suoi dipartimenti, la Sezione informazioni trattava le informazioni confidenziali, e il Centro situazione (SITCENT) quelle “aperte” in relazione alle zone instabili selezionate dal Consiglio, entrambi operative dal maggio 1996, sotto l’autorità del segretario generale ma, a seguito del trasferimento di funzioni all’UE, passate sotto il controllo del Comitato politico e di sicurezza che, «sotto la responsabilità del Consiglio, esercita il controllo politico e la direzione strategica delle operazioni di gestione delle crisi» (Trattato di Nizza, art. 25; firmato il 10 marzo 2002; in vigore il 1° febbraio 2003).

Al vertice informale dei capi di Stato e di governo dell’UE a Pörtschach, Austria (24-25 ottobre 1998), il premier Tony Blair anticipava l’“evoluzione del Regno Unito” in materia di difesa europea, evoluzione poi confermata nell’incontro franco-britannico di Saint-Malo (3-4 dicembre) con l’impegno a dotare l’UE di una «capacità di azione autonoma, sorretta da credibili forze militari». L’11 gennaio 1999, il presidente Jacques Chirac e il cancelliere Gerhard Schröder proponevano un piano per l’ingresso dell’UEO nell’UE secondo quanto stabilito dal Trattato di Amsterdam (firmato il 2 ottobre 1997; in vigore il 1° maggio 1999) sulla «definizione progressiva di una politica di difesa comune» che avrebbe potuto «portare a una difesa comune» (art. 17 § 1), e a Tolosa (24 maggio) ribadivano «l’integrazione dell’UEO nell’UE» sostenuta dalla «pianificazione dello sviluppo in comune degli armamenti» e da un futuro «corpo di reazione rapida».

La Western european armaments organisation (WEAO), organismo sussidiario dell’UEO, con il compito di gestire i soli programmi di ricerca era stato voluto (19 novembre 1996) dal Consiglio del Western european armaments group (WEAG), al quale erano state trasferite (22 maggio 1993) le funzioni dell’Independent European armaments group (IEPG), organismo informale creato (febbraio 1976) dai membri europei della NATO con la Francia. Senonché per la gestione dei programmi di cooperazione vi era l’Organisation conjointe de coopération en matière d’armement (OCCAR) costituita (12 novembre 1996) al di fuori di UEO e UE da Francia, Germania, Italia e Gran Bretagna. Quanto all’European rapid reaction force (ERRF), anticipato dal Consiglio UEO di Lussemburgo (Audit of assets and capabilities for European crisis managenent operations, 23 novembre 1999), il Consiglio europeo di Helsinki (10-11 dicembre) stabiliva il c.d. Headline goal: la costituzione entro il 2003 di una ERRF di 50-60.000 uomini operativi in 60 giorni, e per un anno. Si costituivano così le “Forze dipendenti dall’UEO” (prima Dichiarazione annessa al Trattato di Maastricht), Forces relevant de l’UEO (FRUEO) o Forces answerable to WEU (FAWEU), divenute Euroforze con il trasferimento, e costituite nel solco dell’esperienza franco-tedesca, ma con divagazioni “meridionali” (Eurofor Italia, Spagna, Francia, Portogallo, 1995) e proiezioni marittime (Euromarfor Italia, Spagna, Francia, Portogallo, 1995) e aeronautiche (Euroairgroup, EAG, dal Franco-British EuroAirGroup 1995, con Germania, Belgio, Spagna, Italia, Olanda nel 1998-1999). Si trattava peraltro di gusci operativi, e non di forze permanenti.

Il Consiglio europeo di Colonia (3-4 giugno 1999) invitava il Consiglio Affari generali a «preparare le misure necessarie alla definizione delle modalità per l’inclusione nell’Unione di quelle funzioni dell’UEO necessarie all’UE per far fronte alle sue nuove responsabilità nell’ambito dei compiti di Petersberg». Il 13 novembre 2000, a Marsiglia, il Consiglio ministeriale UEO approvava le modalità così elaborate, e assunte dal Consiglio permanente (28 giugno 2001).

Le funzioni “residuali” dell’UEO attengono dunque agli articoli V e IX (dialogo istituzionale con l’Assemblea) del Trattato di Bruxelles modificato; al supporto amministrativo, finanziario e linguistico al WEAG e alla WEAO research cell; alla riorganizzazione e alla futura apertura al pubblico degli archivi; alla gestione delle pensioni. Teoricamente, il Consiglio ministeriale può essere ancora convocato ex art. VIII § 3 del Trattato di Bruxelles modificato. Il segretario generale, come già ricordato, lo è anche del Consiglio dell’UE, oltre che Alto rappresentante per la PESC (v. anche Politica europea di sicurezza e difesa).

David Burigan (2007)




Unione doganale

Introduzione al concetto

L’unione doganale (Customs union, nella letteratura di lingua inglese) rappresenta una forma di integrazione economica internazionale che investe l’interscambio di beni e di servizi di due o più paesi, il quale risulta agevolato rispetto ai flussi commerciali con il resto dell’economia mondiale. Si tratta di una forma di integrazione alquanto diffusa, data l’estensione che la liberalizzazione degli scambi ha assunto nel quadro della globalizzazione. Quest’ultima, ai nostri fini, può essere semplicemente considerata come una forma avanzata di integrazione economica quando, come accade in misura crescente a partire dagli ultimi decenni, i processi produttivi vengono condotti e riferiti non più al singolo mercato nazionale, ma a quello dell’intera economia del mondo.

La globalizzazione, o mondializzazione, utilizzando l’espressione privilegiata nella letteratura di lingua francese, aumenta in misura rilevante le interdipendenze economiche fra paesi attraverso molteplici canali, e soprattutto attraverso gli scambi di beni e di servizi, i trasferimenti di fattori produttivi, con un rilievo particolare per la circolazione dei capitali, e infine mediante il canale della formazione delle aspettative, cui concorrono i flussi informativi che si diffondono istantaneamente a livello mondiale. In questo contesto, in linea generale, l’efficacia delle politiche economiche condotte dai singoli paesi si attenua, e in alcuni casi al limite si annulla. Da parte delle autorità nazionali sorge pertanto l’esigenza di fornire soluzioni a questa forma generalizzata di fallimento dello Stato. Fra gli strumenti adatti a tale scopo troviamo il protezionismo, da un lato, e il coordinamento delle politiche mediante l’integrazione economica, dall’altro. Con l’avvertenza che in un quadro di globalizzazione crescente la prima soluzione risulta sempre meno efficace e in grado, al più, di fornire solamente un tempo di riflessione aggiuntivo ai decisori nazionali.

In via del tutto preliminare, possiamo classificare le forme di integrazione in base a due dimensioni: il numero di paesi partecipanti, da una parte, e il numero delle politiche e dei mercati integrati, dall’altra. Sotto il primo profilo, abbiamo una prima forma embrionale di integrazione costituita dai trattati di commercio, che possono interessare anche due soli paesi, quindi gli accordi di integrazione regionale, riguardanti tipicamente una pluralità di paesi situati nella medesima regione dell’economia mondo, e infine l’integrazione economica mondiale (worldwide integration), che coincide in senso spaziale con la globalizzazione. Lungo l’altra dimensione, al di là dei trattati di commercio, che possono avere per oggetto anche la liberalizzazione degli scambi al limite di un solo prodotto, troviamo gli accordi commerciali preferenziali, che investono più prodotti e alcune politiche e, come forma più completa, l’unione economica, la quale integra tutti i mercati e tutte le politiche, inclusa la politica monetaria. Combinando le due dimensioni troviamo i due casi estremi dell’assenza completa di integrazione, vale a dire la forma teorica del mercato nazionale del tutto isolato, e dell’unione economica mondiale, sul fronte opposto.

Questo schema generale consente di collocare in modo appropriato nel quadro delle forme di integrazione economica internazionale gli accordi commerciali preferenziali, di cui si conoscono due versioni principali: l’area (o zona) di libero scambio e l’Unione doganale (UD). L’area di libero scambio consiste in un accordo preferenziale che consente il libero scambio dei prodotti fra i mercati dei paesi partecipanti, senza che questi ultimi rinuncino all’autonomia delle loro politiche commerciali nei confronti del resto del mondo. Ciò significa che i paesi partecipanti eliminano i dazi e gli altri ostacoli equivalenti negli scambi reciproci, ma mantengono tariffe doganali differenziate verso i paesi terzi. Si tratta di una forma elementare di integrazione, che comporta l’inconveniente di fare del paese a più bassa tariffa l’economia di transito virtuale delle importazioni provenienti dal resto del mondo: gli importatori liquideranno il costo della tariffa nel paese che pratica i dazi minori e quindi riesporteranno la merce in esenzione tariffaria nel resto dell’area. Per evitare questo fenomeno si può ricorrere a un sistema di certificati di origine, il quale comporta tuttavia un onere amministrativo aggiuntivo.

La UD, per contro, associa il libero scambio all’interno dell’area preferenziale con l’esistenza di una Tariffa esterna comune (TEC), che sostituisce quelle iniziali dei paesi membri. La politica commerciale nei confronti dei paesi terzi, che ha appunto come strumento essenziale la TEC, diventa così una politica comune e viene sottratta alla sfera di competenza dei singoli paesi partecipanti. Il gettito della tariffa viene poi ripartito fra i paesi membri in base ad accordi particolari, oppure viene destinato al finanziamento delle politiche comuni, come accade all’interno della Comunità europea.

L’Unione doganale e il processo d’integrazione europea

Nell’esperienza dell’integrazione economica europea troviamo due esempi salienti di formazione di accordi preferenziali, con la nascita, rispettivamente, dell’Associazione europea di libero scambio (European free trade association, EFTA) e della Comunità economica europea (CEE). La forma meno avanzata di integrazione (v. anche Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), la European free trade association, costituiva un’area di libero scambio nata nel 1960, la quale raggruppava inizialmente il Regno Unito, l’Austria, il Portogallo, la Svizzera e i tre paesi nordici. Essa vide la luce per iniziativa principalmente della Gran Bretagna e venne intesa come una sorta di modello alternativo a quello della Comunità economica europea, lanciata nel 1956 dai sei paesi fondatori di Francia, Germania, Italia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo, in base allo schema di integrazione più impegnativo della UD. La sfida fra i due modelli fu vinta dalla CEE, e con l’adesione progressiva a quest’ultima di numerosi paesi un tempo ad essa aderenti, a cominciare dalla Gran Bretagna nel 1973, l’EFTA fu relegata al rango di esperienza di integrazione secondaria, che oggi riguarda soltanto la Svizzera, la Norvegia, l’Islanda e il Liechtenstein. Nel contempo, la CEE si trasformava nell’Unione europea (UE), che sotto il profilo economico si può definire una forma di integrazione sui generis, a metà strada fra la UD e l’unione economica in senso stretto (v. anche Unione economica e monetaria). Peraltro, a partire dal 1994 l’EFTA e la Comunità formano congiuntamente lo Spazio economico europeo, vale a dire una grande area di libero scambio estesa all’intero continente.

Nel quadro della CEE il passaggio alla UD avvenne per tappe lungo un periodo transitorio che in origine doveva durare dodici anni. Progressivamente, venne condotto un duplice processo: da un lato vennero eliminati gli ostacoli al libero scambio delle merci all’interno dei Sei; dall’altro, nei confronti del resto del mondo, venne costituita la TEC destinata a sostituire le tariffe iniziali dei paesi membri. Il processo descritto avvenne in tre tappe, a partire dal 1° gennaio 1959, dopo la firma del Trattato di Roma (v. Trattati di Roma) istitutivo della CEE il 25 marzo 1957. Per quanto concerne gli ostacoli tariffari ai commerci reciproci, i dazi nei confronti dei paesi membri furono ridotti mediamente del 10% all’anno, mentre per i contingentamenti, i quali si traducevano in restrizioni quantitative ai commerci, si procedette a un progressivo ampliamento, fino alla loro abolizione totale già alla fine del 1961. Sull’altro fronte, i sistemi tariffari nazionali furono gradualmente trasformati nella TEC attraverso tre ravvicinamenti, i quali si conclusero alla metà del 1968, in concomitanza con l’avvenuta eliminazione delle restrizioni tariffarie e quantitative agli scambi intracomunitari. La TEC venne a sua volta stabilita sulla base di una media aritmetica semplice dei dazi esistenti prima della liberalizzazione, con qualche eccezione che riguardava i cosiddetti prodotti sensibili, vale a dire le merci che uno o più paesi membri ritenevano opportuno proteggere in modo più accentuato, mantenendo picchi di protezione tariffaria più elevata. Procedimenti analoghi di passaggio per tappe al regime commerciale comune furono anche adottati per l’adesione di altri paesi alla Comunità, al di là della cerchia iniziale dei Sei.

Per completezza va aggiunto che nell’ambito della TEC i dazi sui prodotti agricoli vennero sostituiti dai cosiddetti prelievi, in ragione del fatto che nel frattempo, nel corso degli anni Sessanta, veniva varata la Politica agricola comune (PAC), che dava vita a una unione economica nel settore dell’agricoltura, con un sistema di prezzi unici e di politiche di intervento decisi a livello europeo. I prelievi costituivano un dazio a scala mobile, pari alla differenza fra i prezzi mondiali e i prezzi di riferimento europei, di norma più elevati di quelli internazionali, in conseguenza del carattere decisamente protezionistico della PAC. Con l’avvertenza che a fronte dei prelievi, che colpivano le importazioni, le esportazioni di prodotti agricoli sul mercato mondiale venivano agevolate da restituzioni, ovvero da premi calcolati in modo analogo, ma ovviamente di segno opposto.

Il criterio della media aritmetica fu adottato allo scopo di uniformarsi all’art. IV dell’Accordo generale sulle tariffe e il commercio (GATT), il trattato nel cui ambito veniva perseguito in quegli anni l’obiettivo del libero scambio mondiale, mediante una serie successiva di trattative tariffarie multilaterali, denominate rounds. Tale articolo prevedeva che in caso di costituzione di una UD il livello di incidenza della protezione nei confronti dei paesi terzi non dovesse superare quello vigente prima della nascita del nuovo accordo commerciale preferenziale. E fu appunto tale articolo che venne utilizzato dai paesi terzi, principalmente gli Stati Uniti, per chiedere compensazioni economiche in seguito al processo di Allargamento della Comunità, da essi giudicato lesivo dei loro interessi commerciali. Sempre con riferimento al GATT, occorre osservare che successivamente alla sua costituzione la TEC fu ridotta in varie riprese, per effetto delle trattative tariffarie multilateriali condotte al suo interno: dal Kennedy round degli anni Sessanta sino all’Uruguay round degli anni Novanta, la cui conclusione nel 1994 doveva segnare il passaggio dal sistema del GATT a quello dell’Organizzazione mondiale del commercio (World trade organization, WTO), istituita il 1° gennaio 1995.

In tal modo, la nascita della UD nel caso dell’integrazione economica europea avvenne il 1° luglio 1968, con un anno e mezzo di anticipo sui tempi inizialmente previsti. A partire da quel momento il mercato comune europeo (v. Comunità economica europea) divenne una realtà. Da un lato i prodotti industriali e agricoli potevano circolare al suo interno in esenzione da dazi e da ostacoli quantitativi; dall’altro la CEE acquisiva una sua personalità economica autonoma verso i paesi terzi e la competenza della Politica commerciale comune veniva trasferita dagli Stati membri alle Istituzioni comunitarie, mentre il gettito della TEC si avviava a finanziare direttamente il bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea).

Tuttavia, gli scambi fra paesi membri, nonostante il completamento della UD, rimasero ancora a lungo frenati dalla presenza di ostacoli non tariffari: l’insieme delle misure di protezione tecniche e fiscali che assumono forme diverse da paese a paese. Solo il lancio successivo del programma del mercato interno, con il raggiungimento dei primi importanti risultati nel 1993, doveva portare a un inizio di smantellamento di tali ostacoli, oggi peraltro ancora parzialmente esistenti nel settore dei servizi.

Contrariamente a quanto doveva avvenire nel corso degli anni Settanta del XX secolo, quando lo scardinamento del sistema dei cambi fissi di Bretton Woods e le crisi petrolifere fecero registrare un arretramento del processo di integrazione economica, facendo fallire il primo tentativo di dar vita all’unificazione monetaria, la fase di creazione della UD e del varo della PAC fu coronata da importanti successi. Nonostante gli ostacoli residui, gli scambi intracomunitari si espansero a ritmi mediamente doppi rispetto a quelli che riguardavano i paesi terzi e l’integrazione delle economie dei Sei registrò progressi tali da agevolare il processo di allargamento progressivo della Comunità, ancora in corso a cavallo della metà del primo decennio del XXI secolo. Un risultato saliente di questa prima fase di liberalizzazione degli scambi nel contesto europeo fu anche costituito dalla spinta alla modernizzazione fornita a un paese strutturalmente in ritardo come l’Italia, il quale visse una profonda trasformazione economica e sociale che lo portò a entrare nel club dei paesi più industrializzati del mondo. Tutto ciò avvenne nonostante i freni esercitati all’inizio del processo di liberalizzazione dal mondo imprenditoriale italiano, timoroso di dover competere con le imprese europee, mediamente più efficienti. Alla base di quello che fu definito a suo tempo il miracolo economico italiano vi fu anche, se non soprattutto, la creazione della UD in sede europea.

Modelli, caratteristiche e funzionamento di un’unione doganale

Sotto il profilo economico, in effetti, una UD produce tutta una serie di effetti che possono contribuire a innalzare i tassi di crescita dei paesi partecipanti. L’esame e lo studio di tali effetti vengono effettuati nell’ambito della teoria delle unioni doganali, un nuovo filone di studi sviluppatosi a partire dalla seconda metà del XX secolo. Con l’avvertenza che nel suo ambito vengono esaminati sia gli effetti della costituzione di questa particolare forma di accordo preferenziale commerciale su categorie standard dell’analisi economica, quali la produzione, i consumi, le correnti di scambio, sia gli effetti che vengono esercitati sul benessere degli agenti partecipanti agli scambi e sull’efficienza dei sistemi produttivi.

Inizialmente, la creazione di una UD venne considerata come un progresso rispetto al protezionismo, dato che promuoveva il libero scambio fra i paesi membri, producendo a livello regionale i vantaggi illustrati dalla teoria dei costi comparati. In tal modo, come aveva messo in luce oltre un secolo prima David Ricardo, ogni paese poteva specializzarsi nella produzione dei beni in cui aveva il vantaggio maggiore (o lo svantaggio minore), con benefici per tutti i paesi scambisti. Tuttavia una UD comportava anche un elemento di discriminazione nei confronti dei paesi terzi, dato che questi ultimi erano esclusi da tali benefici, a causa dell’esistenza della TEC, la quale ostacolava i loro scambi con i paesi membri.

In un secondo tempo, pertanto, l’attenzione degli economisti si concentrò sulla natura ambigua della UD, promotrice di libertà degli scambi all’interno dell’area di commercio preferenziale, ma nel contempo anche ostacolo al libero scambio nei confronti del resto del mondo. L’opera fondativa della teoria moderna delle unioni doganali, The customs union issue, pubblicata nel 1950 da Jacob Viner, ebbe il merito di affrontare entrambi gli aspetti della questione, fornendo anche un criterio per valutare quando una UD potesse essere giudicata welfare increasing, vale a dire generatrice di benessere.

Il modello di Viner è uno schema di carattere statico, nel senso che non considera esplicitamente i possibili effetti di ristrutturazione del sistema economico dei paesi scambisti che possono modificarne i tassi di crescita. Al suo interno vengono definiti due tipi di effetti di commercio radicalmente distinti: da una parte gli effetti di creazione (trade creation) e dall’altra gli effetti di diversione dei traffici (trade diversion). Supponiamo, per semplicità, che esistano tre soli paesi: l’Italia e la Francia, da un lato, e gli Stati Uniti, dall’altro. Se ora i primi due paesi formano una UD, l’abolizione dei dazi sui loro scambi reciproci porterà alla nascita di nuovi flussi di traffico, assenti in precedenza. Ad esempio, i consumatori francesi smetteranno di comprare scarpe prodotte in Francia ad alto costo e importeranno scarpe fabbricate in Italia a costi minori; e viceversa i consumatori italiani preferiranno acquistare vini francesi, anziché vini prodotti in Italia. Questi scambi un tempo non esistevano e sono generati dal venir meno della protezione doganale, che consente di sostituire fornitori nazionali meno efficienti con fornitori esteri che producono a costi minori: si tratta quindi di nuovi flussi commerciali dovuti all’effetto di creazione dei traffici. Può anche accadere, tuttavia, che prima della UD l’Italia si rifornisse di grano dagli Stati Uniti e che ora, a causa ad esempio della politica agricola europea, la protezione doganale nei confronti delle merci di quel paese renda più conveniente cessare l’importazione dagli Stati Uniti e sostituirla con acquisti effettuati in Francia. E ciò nonostante il fatto che al netto dei dazi i produttori statunitensi siano più efficienti di quelli francesi. Qui ci troveremmo di fronte a un effetto di diversione dei traffici.

Dagli esempi fatti risulta chiaro che mentre gli effetti di trade creation producono vantaggi per le economie dei paesi partecipanti all’unione, gli effetti di trade diversion generano costi aggiuntivi. Più precisamente, la creazione dei traffici comporta un aumento della rendita del consumatore, da una parte, e una riduzione dei costi di produzione nazionali, dall’altra. Nel primo caso, i consumatori acquistano beni a prezzi inferiori a quelli che dovevano sostenere prima dell’unione e il loro benessere aumenta; nel secondo, le risorse produttive nazionali cessano di essere utilizzate in produzioni ottenute in condizioni di efficienza inferiori a quelle del paese partner e si ottiene un beneficio a vantaggio dell’intero paese. In tal modo vengono definiti gli effetti di consumo e gli effetti di produzione di una UD, che nel loro insieme misurano i benefici a essa imputabili.

Per contro, la diversione dei traffici dà vita a una perdita, che è misurata dalla differenza fra i costi più elevati del paese partner e quelli più bassi del fornitore iniziale, esterno all’unione, moltiplicata per il volume delle importazioni che sono state dirottate.

Definiti e misurati in tal modo gli effetti di efficienza e di benessere delle unioni doganali, il modello elementare di Viner conclude che una UD può essere giustificata sotto il profilo del benessere soltanto quando gli effetti di creazione dei traffici, ovvero i suoi benefici, superano gli effetti di deviazione delle correnti commerciali, vale a dire i suoi costi. Solo a tale condizione, infatti, una UD può essere considerata come generatrice di benessere in termini netti.

L’analisi di Viner, chiarendo la natura ambigua della UD, che costituisce un passo in direzione del libero scambio, ma genera anche una discriminazione tariffaria nei confronti del resto del mondo, si collegava alla posizione dell’art. IV del GATT, che nella versione del 1994 entrava successivamente a far parte delle disposizioni della WTO, attualmente vigenti. In base a esse, per quanto costituisca un’eccezione alla regola del trattamento della nazione più favorita su cui l’Organizzazione mondiale del commercio si fonda, la UD continua a essere consentita, purché i dazi e le altre barriere nei confronti delle importazioni dei paesi terzi non risultino nell’insieme più elevati o più restrittive ex post. È evidente, infatti, che se in media dopo la sua costituzione la UD non eleva il livello della protezione esterna, la probabilità che si producano effetti di trade diversion diminuisce. Tuttavia, come vedremo più avanti, la posizione della WTO viene meglio rappresentata da alcuni degli sviluppi successivi della teoria delle UD, più che dall’analisi di Viner in senso stretto.

Per completare il quadro va aggiunto che lo statuto teorico della UD in realtà risulta ancora più complicato di come lo abbiamo appena descritto. Se in un mondo ideale in cui siano presenti tutte le condizioni che caratterizzano la concorrenza perfetta confrontiamo il libero scambio globale, da una parte, e una UD, dall’altra, non vi è dubbio che la prima situazione sia preferibile alla seconda. Nel linguaggio tecnico tale situazione ideale si denomina ottimo paretiano, dal nome del grande economista neoclassico Vilfredo Pareto: in sintesi una condizione in cui non è possibile migliorare il benessere di qualcuno senza diminuire quello di qualcun altro. D’altro canto è intuitivo che una UD sia preferibile all’autarchia. Tuttavia ciò è vero solo se si ipotizza l’esistenza di una sola distorsione rispetto al libero scambio mondiale, considerato come una situazione di ottimo o di first best. Ma il mondo reale è un mondo subottimale o di second best, nel senso che le distorsioni dalle condizioni ideali che caratterizzano la concorrenza perfetta a livello dell’intera economia mondo sono molteplici, e non è detto che eliminando una singola distorsione la situazione necessariamente migliori. Ne segue che nel mondo reale non sempre è vero che una UD sia preferibile all’autarchia. È questo il contenuto della teoria del second best, formulata inizialmente da James Meade, alcuni anni dopo la pubblicazione del lavoro di Viner.

Gli sviluppi successivi della teoria delle unioni doganali ricalcarono in parte l’approccio statico seguito da Viner e in parte seguirono un’impostazione dinamica, finalizzata a mettere luce in modo puntuale gli effetti di ristrutturazione delle economie dei paesi partner esercitati nel lungo termine dalla creazione di una UD. È solo in quest’ultimo contesto, infatti, che è possibile fornire una risposta convincente al quesito del perché si costituiscano queste particolari forme di accordi commerciali preferenziali. In un quadro di natura statica, si dimostra in effetti facilmente che per un singolo paese è meglio smantellare unilateralmente le protezioni doganali che entrare a far parte di una UD. Nel primo modo si ottengono i benefici del libero scambio mondiale, accedendo ad una situazione di ottimo, nel senso appena descritto, mentre con la UD si partecipa ad una condizione di second best. In altri termini, risulta più conveniente ottenere un effetto di creazione dei traffici attraverso una riduzione tariffaria unilaterale che mediante un abbinamento di effetti di trade creation e di trade diversion, come avviene con una UD.

Tra i modelli che individuano alcune delle possibili ragioni che spiegano la costituzione di una UD, alcuni sottolineano l’argomento dei beni pubblici, ossia la produzione di beni che esercitano una funzione (o esternalità) positiva a beneficio dell’intero sistema economico e che sono di norma prodotti dalle autorità statali, nelle loro diverse articolazioni. Come esempio di bene pubblico, che risulta rilevante in questo contesto, si può citare il caso delle produzioni industriali che i governi ritengono di dover proteggere, anche al di là di ciò che sarebbe giustificato da semplici considerazioni di efficienza, perché si ritiene che la loro presenza generi effetti esterni positivi per l’economia nazionale. In questa situazione, fra due paesi dove è presente una preferenza collettiva per la manifattura la creazione di una UD attraverso una riduzione reciproca dei dazi può produrre effetti di benessere superiori a quelli che si potrebbero ottenere con una abolizione delle tariffe su base non discriminatoria, vale a dire nei confronti di tutti i paesi del mondo. Ciò avviene, in particolare, perché ogni paese membro dell’unione utilizza gli effetti di diversione dei traffici per far spazio alle esportazioni del partner, pur mantenendo inalterata la propria produzione industriale. Il risultato di questi modelli è che sarebbe possibile formare una UD miglioratrice del benessere anche in presenza di un determinato livello di protezione tariffaria per i prodotti industriali o per altri tipi di beni pubblici. Questo, tuttavia, richiede che gli individui danneggiati dai dazi possano ottenere una serie di compensazioni da parte di coloro che ne hanno ottenuti i benefici, ad esempio grazie ai maggiori prezzi che hanno potuto spuntare per i loro prodotti o servizi produttivi.

Un’altra spiegazione parziale che giustifica la costituzione di una UD riguarda le economie di scala: la riduzione dei costi che si verifica in presenza di investimenti fissi rilevanti, quando la quantità prodotta aumenta. È noto che la quota dei costi fissi che deve essere recuperata con il prezzo del prodotto è tanto minore, quanto più estesa è la produzione su cui tali costi si ripartiscono. Può così accadere che un paese particolarmente efficiente, entrando a far parte di una UD in cui opera un partner caratterizzato da costi maggiori, riesca a catturare in tutto o in parte la domanda di quest’ultimo, rifornendo al limite l’intero mercato della UD. L’aumento della sua produzione potrà così tradursi in una riduzione dei costi medi, e forse pure dei prezzi, andando così a vantaggio anche dei consumatori del paese meno efficiente.

Ma forse la ragione più importante che sta alla base della creazione di una UD ha a che vedere con la possibilità di modificare a vantaggio dei paesi dell’unione la ragione di scambio internazionale. Un gruppo di paesi che, singolarmente considerati, hanno un peso irrilevante nel quadro dei traffici mondiali, aggregandosi possono aumentare la loro capacità contrattuale nei confronti del resto mondo. Grazie al maggiore peso contrattuale potranno in tal modo modificare a proprio vantaggio la ragione di scambio internazionale, vale a dire i prezzi praticati con i paesi terzi per quanto riguarda le importazioni e le esportazioni. Più precisamente, essi avranno la possibilità di migliorare il rapporto fra i prezzi delle esportazioni e i prezzi delle importazioni, appunto la ragione di scambio internazionale in senso tecnico. È chiaro che se, fermi rimanendo i prezzi delle merci esportate, i prezzi dei beni e dei servizi importati diminuiscono, un paese registrerà un aumento di benessere.

Dal punto di vista analitico, la costituzione di una UD trasforma la forma di mercato in cui i paesi membri operano. Nel passaggio dalla condizione di “paese piccolo” a quella di “paese grande” nel senso dell’economia internazionale, la loro capacità di determinare i prezzi internazionali è mutata. In precedenza si trovavano in un mercato di concorrenza perfetta, in cui il singolo agente non può modificare il prezzo, ma lo deve assumere come un dato (in altri termini erano price taker); ora, grazie alla UD si trovano in un contesto di mercati imperfettamente concorrenziali, e possono modificare i prezzi a loro vantaggio (sono quindi price maker).

Per chiarire le conseguenze della formazione di una UD sulla ragione di scambio internazionale dei paesi dell’unione, supponiamo che la domanda di importazioni della UD rappresenti una quota sensibile delle esportazioni del resto del mondo. Il potere contrattuale di cui dispone la UD farà sì che, dopo la sua costituzione, il prezzo mondiale delle importazioni registri una diminuzione. L’unione espanderà di conseguenza i propri acquisti dai paesi terzi e otterrà un vantaggio misurato dalla quantità di importazioni accresciute moltiplicata per la riduzione del prezzo. Tale vantaggio andrà tuttavia depurato dalle inefficienze e dai costi a carico della produzione e dei consumi interni della UD a causa della protezione doganale associata all’esistenza della TEC verso il resto del mondo.

Conclusioni

Quanto appena visto ci fa capire che i paesi della CEE, nel dar vita alla UD che ne ha rafforzato il peso economico rispetto ai grandi protagonisti della scena economica mondiale, un tempo gli Stati Uniti, i paesi dell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (OPEC), e l’Unione Sovietica, e oggi i primi di questi paesi o raggruppamenti di economie, unitamente alla Cina, l’India, il Brasile e gli altri paesi emergenti, sono stati in grado di modificare a proprio beneficio molti prezzi internazionali, e in ogni caso di ottenere condizioni di scambio migliori di quelle su cui avrebbero potuto fare affidamento se avessero agito in maniera isolata, con vantaggi che presumibilmente superano di gran lunga i costi associati alle protezioni che hanno attivato nei confronti del resto del mondo tramite i dazi comunitari, soprattutto per quanto riguarda le produzioni maggiormente protette, e in specie quelle del settore agricolo. Con l’aggiunta che nell’ambito delle grandi trattative tariffarie degli ultimi decenni, dall’Uruguay Round al Doha development round (quest’ultimo peraltro in una situazione di stallo a metà del primo decennio del XXI secolo), i paesi europei possono presentarsi con un fronte unito che ne salvaguarda gli interessi come un tutto.

La teoria delle unioni doganali si è occupata anche della determinazione della TEC e dei suoi effetti, mettendo in luce come di norma essa venga scelta in base al criterio di rendere massimo il benessere dell’unione nel suo insieme, e con possibili trasferimenti di ricchezza da parte dei paesi membri maggiormente avvantaggiati a favore dei partner in ipotesi danneggiati, ma anche utilizzando approcci diversi.

In particolare, potrebbe essere adottato il criterio proposto da Martin Kemp e Henry Y. Wan, noto come criterio di Kemp-Wan, secondo il quale la TEC dovrebbe essere stabilita in modo da non modificare i rapporti di scambio con i paesi terzi. In tal caso, sarebbero assenti gli effetti di trade diversion, la UD risulterebbe sempre generatrice di benessere e, aggregando a una ipotetica UD a due paesi un numero via via crescente di partner, si arriverebbe all’obiettivo del libero scambio mondiale. In altri termini, secondo questo approccio, il libero scambio a livello regionale costituirebbe non tanto un ostacolo quanto uno strumento per dar vita all’integrazione economica a livello globale. In ultima analisi, è questa la logica che sta alla base dell’art. IV del GATT-WTO, che abbiamo illustrato in precedenza.

Franco Praussello




Unione economica e monetaria

Premesse storiche (1947-1969)

L’espressione “Unione economica e monetaria” e il relativo acronimo (UEM) furono introdotti alla fine degli anni Sessanta nel Trattato dell’Unione europea (TUE) per indicare il passaggio dal livello nazionale al livello comunitario europeo dei principali poteri in materia economica e monetaria. L’UEM designa anche il progetto politico nato con il Rapporto Werner nel 1970 e avente come obiettivo l’unificazione economica e monetaria della Comunità europea (v. Comunità economica europea). Tale progetto ha impresso una notevole accelerazione al processo storico, pur già avviato, di unificazione economica dell’Europa occidentale, cosicché oggi l’UEM indica anche il processo culminato nel 2002 con l’adozione della moneta unica europea (l’Euro) e la realizzazione di un’unica politica monetaria da parte della Banca centrale europea (BCE), nonché di uno stretto coordinamento delle politiche economiche nazionali.

L’idea di un’unione in campo economico e monetario non era affatto nuova per l’Europa degli anni Settanta. Già dopo la fine della Seconda guerra mondiale, tra il 1947 e il 1949, di fronte all’esigenza di stimolare la ripresa del commercio intereuropeo e di risolvere i problemi relativi ai pagamenti internazionali, vennero formulate molteplici proposte, sia da parte americana, sia da parte dei paesi europei percettori degli aiuti del Piano Marshall, per una più stretta cooperazione a livello monetario, fino a prevedere, in alcuni casi, formule vicine all’unificazione monetaria e alla creazione di una unica autorità monetaria europea. Questi progetti portarono alla creazione, nel 1950, della prima istituzione europea del settore, l’Unione europea dei pagamenti (UEP), che rappresentò, fino al 1958, l’unica sede in cui era possibile confrontare e in alcuni casi coordinare le politiche economiche e monetarie nazionali, permettendo la gestione multilaterale delle situazioni di crisi nei paesi dell’Europa occidentale. L’UEP non arrivò a creare una moneta unica ma introdusse, per la prima volta, un’Unità di conto europea, la European currency unit (ECU). L’ECU era una unità di conto definita con una precisa parità aurea che la rendeva equivalente al dollaro americano.

Con l’esaurirsi della spinta americana verso l’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), alla fine degli anni Cinquanta, l’eredità dell’UEP venne raccolta dai sei paesi (Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi) che firmarono il Trattato di Roma (1957) (v. Trattati di Roma). In esso, infatti, sebbene non si prendesse in considerazione un’Unione economica e monetaria, ma solo la creazione di un mercato comune (v. Comunità economica europea), fu mantenuto il riferimento all’ECU come unità di conto per il bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea), fu prevista la creazione di un Comitato monetario e di una Banca europea per gli investimenti (BEI) e venne individuato l’obiettivo della progressiva liberalizzazione dei movimenti di capitale (v. Libera circolazione dei capitali).

Del resto emerse ben presto la necessità di dare anche un volto monetario al mercato comune: la crescente instabilità valutaria degli anni Sessanta, contrassegnati da forti speculazioni, continue svalutazioni e rivalutazioni dovute al progressivo cedimento del Sistema monetario internazionale (SMI), cominciava a danneggiare seriamente le economie europee. Col varo, nel 1962, della Politica agricola comune (PAC), il mercato comune si dotava di nuovi strumenti per loro natura estremamente esposti alle negative ripercussioni dell’instabilità monetaria, e che quindi richiedevano protezione nei confronti dalle fluttuazioni valutarie. In questo contesto si aprì, nel corso degli anni Sessanta, un vivace confronto politico tra le diverse posizioni nazionali e quelle della Comunità. Nel 1962 la Commissione europea individuava come possibile obiettivo da realizzarsi nella fase finale della costruzione del mercato comune proprio l’unione monetaria: non si trattava di un progetto ben definito, ma a esso fece seguito, nel 1964, l’istituzione del Comitato dei governatori delle banche centrali.

La Commissione fu spinta a proporre una sempre più stretta integrazione monetaria anche dalla posizione francese riguardo ai problemi monetari. È noto che Charles de Gaulle, di fronte alle tensioni cui era sottoposto lo SMI, proponeva un generalizzato ritorno all’oro con l’intento di porre fine all’egemonia monetaria del dollaro, contemporaneamente rivendicando un ruolo più autonomo per i paesi europei. Il progetto, teso a rafforzare le nazionalità più che la Comunità europea, ebbe però l’effetto di costringere la Commissione a interrogarsi, nel 1965, davanti al Parlamento europeo, sulla validità del Sistema monetario internazionale. In quell’occasione la Commissione individuava nel progetto di unione monetaria della Comunità europea (CE) una positiva risposta alla situazione di crisi. Nonostante queste dichiarazioni di principio, però, per tutti i restanti anni Sessanta, le proposte elaborate dalla CE in ambito monetario non furono particolarmente incisive, e si dovette aspettare l’inizio del decennio successivo perché venissero prese decisioni di rilievo.

Nel mutato clima politico europeo dovuto all’uscita di scena di de Gaulle, la Francia di Georges Pompidou prese l’iniziativa convocando per il 1 e 2 dicembre del 1969 un vertice dei capi di Stato e di governo (v. Vertici) della CE all’Aia. La presenza di Willy Brandt al cancellierato tedesco facilitò il compito di trovare forti posizioni comuni anche sul piano monetario. Il Vertice dell’Aia, infatti, fece dell’UEM un obiettivo dell’azione della Comunità e chiese al Consiglio dei ministri della CE di elaborare, in collaborazione con la Commissione, un piano per la creazione di un’unione economia e monetaria, da attuarsi a tappe successive e basata sull’Armonizzazione delle politiche economiche.

Il Consiglio, però, dovette constatare, già nei primi mesi del 1970, che i paesi comunitari sostenevano posizioni assai distanti tra loro. La Francia, interessata soprattutto alla stabilità dei cambi in quanto maggior beneficiaria della PAC, proponeva, col sostegno di Belgio e Lussemburgo, che venissero prese immediatamente concrete misure in ambito monetario, lasciando ad un secondo tempo le discussioni sugli aspetti del coordinamento o dell’armonizzazione delle politiche economiche. La Germania federale, al contrario, preoccupata di dover finanziare senza limiti i disavanzi delle bilance commerciali dei paesi partner, aveva chiesto che si affrontassero prima di tutto i nodi relativi al coordinamento delle politiche economiche, per procedere solo successivamente alle misure monetarie. Nel tentativo di ricondurre a unità queste distanti posizioni, il Consiglio diede vita a un gruppo di esperti, il cosiddetto “gruppo Werner”, ovvero un comitato presieduto da Pierre Werner, allora primo ministro e ministro delle Finanze del Lussemburgo. Al Comitato prendevano parte, oltre a un rappresentante della Commissione, anche i presidenti di tutti i Comitati della Comunità che si occupassero di problemi monetari (v. Comitati e gruppi di lavoro).

Dal Rapporto del comitato Werner al “serpente” monetario (1970-1977)

Il Rapporto del gruppo Werner venne presentato nell’ottobre del 1970 col titolo Rapporto al Consiglio e alla Commissione sulla realizzazione per fasi dell’Unione economica e monetaria della Comunità. In esso si prevedeva la creazione dell’UEM nell’arco di dieci anni attraverso tre fasi successive. Gli obiettivi ultimi erano l’irrevocabile convertibilità reciproca delle valute europee, la fissazione permanente dei tassi di cambio e la libera circolazione dei capitali. Il gruppo di esperti attribuiva grande importanza al coordinamento economico che doveva accompagnare il progressivo restringimento dei margini di fluttuazione dei tassi di cambio, nonché alla ricerca di posizioni comuni per armonizzare i sistemi fiscali, per coordinare le politiche strutturali e regionali, e per dare regole comuni alle politiche di bilancio nazionali e alle modalità di finanziamento dei deficit pubblici. A questo scopo veniva auspicata, alla fine del processo, la creazione di un centro decisionale unico per la politica economica europea e di un sistema comunitario di banche centrali.

Stabiliti questi obiettivi generali, il Rapporto si limitava ad approfondire la prima fase, che avrebbe dovuto prendere il via il 1° gennaio del 1971 e durare tre anni. In questo spazio di tempo si prevedeva di comparare le voci, sincronizzare i calendari e rendere omogenea la strumentazione delle politiche di bilancio nazionali; inoltre si considerava opportuno avvicinare i tassi delle imposte indirette e armonizzarne l’incidenza. Nel medesimo tempo, il Comitato dei governatori delle banche centrali avrebbe definito in modo coordinato la condotta in materia di tassi d’interesse e di liquidità bancaria. Per quanto concerne i cambi, secondo il Rapporto Werner si poteva procedere, all’inizio della prima fase, limitando le fluttuazioni di fatto, senza prendere impegni formali. Solo in un secondo tempo le limitazioni sarebbero state ufficializzate. Nel corso di questo periodo iniziale sarebbero stati rimossi anche i primi ostacoli alla libera circolazione dei capitali.

Nel Rapporto Werner la delineazione della seconda e della terza fase non era così dettagliata: i tempi e i contenuti non erano indicati, solo si sosteneva che al massimo nel corso della seconda fase avrebbe dovuto essere istituito il Fondo europeo di cooperazione monetaria (FECOM), destinato a trasformarsi poi nell’organo di gestione del sistema comunitario delle banche centrali. Il Rapporto Werner, dunque, faceva dell’idea di UEM un progetto politico concreto, articolato in fasi successive e graduali, secondo un’impostazione che verrà mantenuta anche nel Trattato di Maastricht.

In base a quanto previsto nel Rapporto, i progressi nel coordinamento delle politiche e l’adozione di misure in ambito monetario si sarebbero realizzati parallelamente. Questo “parallelismo”, come allora fu chiamato, nasceva dall’impossibilità di conciliare la visione francese e quella tedesca del processo di integrazione monetaria: ne nasceva un progetto tanto funzionalista (v. Funzionalismo) e gradualista che già allora venne spesso criticato per la mancanza di una visione politica complessiva. In effetti l’UEM veniva considerata come semplice “fermento” di una più profonda integrazione politica e non come parte di essa, e gli stessi organi decisionali previsti dal Rapporto sarebbero nati solo alla fine del processo indicato. In generale mancò, già al Vertice dell’Aia, un progetto politico di ampio respiro per il futuro della Comunità europea all’interno del quale collocare il processo di unificazione monetaria, che venne per lungo tempo (cioè fino al 1986) gestito in gran parte dagli accordi fra le banche centrali come fatto meramente tecnico.

I sei paesi membri si trovarono concordi sul primo passo da compiere in direzione della UEM: il Consiglio della CE, nel marzo del 1971, propose la riduzione delle fluttuazioni delle monete europee intorno alla loro parità dal ±0,75% al ±0,60% e alcune misure per armonizzare le politiche fiscali (v. anche Politica fiscale nell’Unione europea). Purtroppo, le tensioni monetarie che cominciarono a scatenarsi già in quei mesi, determinarono il fallimento di questo primo tentativo di procedere sulla strada dell’UEM. La crisi del dollaro, con le conseguenti forti speculazioni sul marco tedesco e poi sul franco francese, impose al contrario di allargare i margini di fluttuazione delle monete, mentre a livello politico i paesi comunitari si dimostrarono incapaci di concordare una strategia adeguata, mostrando tutta la fragilità delle basi politiche del progetto elaborato dal gruppo Werner. La dichiarazione americana circa l’inconvertibilità del dollaro il 15 agosto di quell’anno eliminò la possibilità di riprendere, nei mesi immediatamente successivi, il discorso interrotto a marzo.

Fu così che il Rapporto Werner si concretizzò in specifiche misure adottate dalla Comunità solo un anno più tardi, nel marzo del 1972. I paesi della Comunità reagirono al crollo dello SMI creando il cosiddetto “Serpente monetario”, in virtù del quale le Banche centrali europee sarebbero intervenute, in valuta europea, a sostegno delle monete comunitarie, al fine di mantenere fra esse una banda di oscillazione del 2,25%. Di fronte al forte attacco speculativo ai danni della sterlina inglese, però, alla Comunità non restò altro da fare che autorizzare, dopo soli due mesi, la fluttuazione libera della moneta britannica, seguita da quella irlandese e da quella francese. Una sorte simile seguì la lira italiana, che nel febbraio dell’anno successivo uscì dal serpente monetario. Nonostante le evidenti difficoltà, dal vertice dei capi di Stato e di governo di Parigi alla fine del 1972 venne una forte dichiarazione a favore dell’Unione politica e dell’Unione economica e monetaria: i paesi europei riaffermavano la loro volontà di procedere speditamente sulla strada tracciata da Werner e stabilivano che nel 1973 avrebbe visto la luce il Fondo europeo per la cooperazione monetaria.

Effettivamente creato il 3 aprile di quell’anno, il Fondo era gestito dai governatori delle banche centrali secondo le direttive impartite dal Consiglio della CE; esso aveva il compito di facilitare il meccanismo del serpente monetario, permettendo la necessaria concertazione tra banche centrali, fungendo da camera di compensazione per i debiti e i crediti che derivavano dagli interventi sul mercato valutario, finanziando a brevissimo termine tali interventi. La sede del FECOM venne collocata a Lussemburgo, e la contabilità venne tenuta in ECU.

Nonostante questo risultato concreto, il serpente monetario fu fondamentalmente un fallimento. Rispetto al momento in cui l’UEM era stata proposta, i margini di fluttuazione delle monete erano stati ampliati, la libertà dei movimenti di capitali era stata ulteriormente limitata, le politiche congiunturali, di bilancio, fiscali e regionali non erano state armonizzate. In un periodo travagliato da una profonda crisi del sistema monetario internazionale era mancata in Europa la volontà politica necessaria per procedere sulla strada dell’unione economica e monetaria e al momento di passare alla seconda fase dell’UEM, il progetto si perse nei continui rinvii da un organo all’altro della Comunità. La crisi energetica nell’ottobre del 1973 complicò ulteriormente la situazione, per cui l’obiettivo dell’UEM venne aggiornato, in parte per fattori imprevisti intervenuti sulla scena internazionale, ma anche per le divergenti politiche nazionali, una strategia economica abbozzata e una debolissima volontà politica dei suoi partecipanti.

Va comunque sottolineato che questo fallimento non fece diminuire l’interesse per l’idea che il serpente monetario incarnava. Nel 1976 il ministro olandese Wim Duisenberg si fece promotore di un piano per riprendere la concertazione sui tassi di cambio; esso incontrò, allora, l’opposizione di quei paesi, come il Regno Unito e l’Italia, che non volevano legarsi al marco tedesco in costante rialzo contro il dollaro. Il vero rilancio dell’unione economica e monetaria avvenne verso la fine del 1977, quando l’allora presidente della Commissione CE Roy Jenkins tenne un importante discorso all’Università europea di Firenze, nel quale chiedeva che nuovi e precisi impegni venissero assunti dagli Stati europei in ambito monetario.

Questo invito intendeva porre un freno all’instabilità monetaria che danneggiava notevolmente il commercio, gli investimenti e la crescita economica europea; si trattava cioè di rafforzare economicamente e politicamente l’Europa, specie in un momento in cui la potenza degli Stati Uniti risultava sempre più debole. La forza del marco tedesco cominciava a divenire fonte di preoccupazione per le stesse autorità tedesche, che quindi erano estremamente interessate a veder rientrare nel serpente monetario paesi come l’Italia, la Gran Bretagna e la Francia, anche a costo di dover aumentare gli aiuti concessi per sostenere le parità. In questo quadro si inserì la proposta del cancelliere tedesco Helmut Schmidt, presentata al Vertice di Copenaghen del 7 e 8 aprile 1978, per una rinnovata integrazione economica e monetaria.

Dal sistema monetario europeo al Rapporto Padoa-Schioppa (1978-1987)

I paesi che allora erano fuori dal serpente monetario posero come condizione essenziale, oltre a un sostanziale aumento dei fondi destinati al sostegno dei cambi, che si tenesse debitamente conto dei rapporti monetari con i paesi terzi, in modo che fosse posto un limite alla pressione che il marco tedesco, apprezzandosi sul dollaro, poteva esercitare sulle altre monete europee. Nacque così, dopo la forte dichiarazione uscita dal Consiglio europeo di Brema del 6-7 luglio del 1978 a favore di una maggiore integrazione monetaria, l’idea di agganciare le divise europee a un’unità di conto definita come paniere.

Il Sistema monetario europeo (SME) si definì dunque come accordo internazionale di cambio fra le monete dei paesi membri della Comunità, sancito da una risoluzione del Consiglio europeo del 4-5 dicembre 1978. Esso entrò in vigore solo il 13 marzo del 1979 a seguito di un accordo tra i governatori delle banche centrali dei paesi aderenti. Le monete che parteciparono all’accordo furono il marco tedesco, il franco francese, il fiorino olandese, il franco belga, la lira italiana, la sterlina irlandese, la corona danese, il franco lussemburghese. Il Regno Unito non partecipò inizialmente allo SME, ma ottenne che la sterlina fosse introdotta nel paniere dell’ECU, legandosi dunque solo informalmente al sistema. Successivamente entrarono nel sistema anche la peseta spagnola, lo scellino austriaco, lo scudo portoghese e il marco finlandese. La lira italiana abbandonò il sistema il 17 settembre 1992, rientrandovi il 26 novembre 1996.

Il sistema elaborato per lo SME prevedeva un’innovazione considerevole rispetto a quanto già sperimentato col serpente monetario. Il principio era quello di tassi di cambio stabili ma aggiustabili, basati su un cambio centrale stabilito in relazione all’ECU. L’ECU veniva ora sganciato dal valore del dollaro e definito non più con una parità aurea che rimandava alla moneta statunitense, bensì come media ponderata delle singole monete partecipanti allo SME. Crollato il sistema fondato a Bretton Woods, l’ECU diveniva insomma un’unità di conto basata sulle valute europee. Venne costruita una rete di tassi di cambio bilaterali, fissati rispetto all´ECU, e venne stabilito un margine di fluttuazione tra le valute compreso tra +/-2,25%, con l’eccezione dei paesi a forte inflazione, come l’Italia, cui fu concessa una banda di oscillazione di +/-6%. Era ciò che venne definito Exchange rate mechanism (ERM): una volta fissate le parità e i margini di fluttuazione, se una valuta contro ECU usciva dai margini delle rispettive bande, le autorità monetarie avevano l’obbligo di intervenire a favore di questa moneta debole, evitando, se possibile, il riallineamento della valuta, che veniva visto come ultima possibilità. Le modifiche delle parità non erano escluse a priori, ma si decise che esse avrebbero dovuto incontrare l’approvazione unanime degli Stati membri e della Commissione CE.

In questo modo, per la prima volta una parte del potere decisionale in materia monetaria veniva delegata a un’istituzione sovranazionale europea (v. anche Istituzioni comunitarie). La Comunità europea diventava così la prima responsabile nella gestione dei problemi di cambio e di pagamenti tra paesi comunitari, vincolando quindi indirettamente anche le altre scelte di politica economica nazionale.

I riallineamenti monetari erano disincentivati dal nuovo meccanismo di cambio e, sebbene già il 24 settembre 1979 vi fosse un ritocco delle parità stabilite, col tempo i tassi si dimostrarono sempre più stabili. Nel corso degli anni Ottanta il Sistema monetario europeo si rivelò dunque un positivo tentativo di concertazione europea in materia di tassi di cambio, che spingeva a guardare con favore alla prospettiva di una liberalizzazione dei movimenti dei capitali.

La commissione presieduta da Jacques Delors (v. anche Presidente della Commissione europea) presentò nel 1985 un libro bianco (v. Libri bianchi) sull’obiettivo del completamento del mercato comune, che implicava anche la liberalizzazione dei movimenti di capitale. Con la firma dell’Atto unico europeo veniva finalmente “comunitarizzato” il Sistema monetario europeo e si stabiliva che il mercato interno unico avrebbe visto la luce il 1° gennaio 1993 (v. Mercato unico europeo). Al fine di preparare le condizioni adeguate, gli Stati si impegnavano a cercare una forma di maggiore coesione economica e di più stretta cooperazione monetaria.

Nel 1985 il tema dell’unione economica e monetaria emerse anche in relazione all’Allargamento della Comunità a Spagna e Portogallo. In un importante documento della Comunità, voluto dalla Commissione nel 1986 e redatto da un comitato di studio presieduto da Tommaso Padoa-Schioppa, si analizzavano gli effetti dell’allargamento sul progetto di mercato interno senza frontiere, giungendo a formulare indicazioni importanti sulle questioni economiche e monetarie. Il comitato di studi presentò, nell’aprile del 1987 un rapporto dal titolo Efficienza, stabilità ed equità. Una strategia per l’evoluzione del sistema economico della Comunità economica europea (v. Padoa-Schioppa, 1988) nel quale si notava come la microeconomia europea fosse ormai caratterizzata dalla complementarietà, e come fosse necessario cercare la compatibilità dei sistemi economici piuttosto che la loro armonizzazione; in questo senso il rapporto indicava chiaramente la necessità, per l’Europa comunitaria di una guida politica economica che avrebbe dovuto permettere agli Stati membri tra il 1986 il 1992 di costruire le condizioni necessarie per l’avvento del mercato unico. In primo luogo, per assicurare la stabilità monetaria sarebbe stato necessario un maggior coordinamento delle politiche macroeconomiche e un potenziamento del Sistema monetario europeo: la liberalizzazione dei movimenti di capitali, infatti, avrebbe progressivamente dato origine ad una struttura finanziaria unitaria, i cui shock di dimensioni europee non avrebbero potuto essere gestiti dalle singole autorità nazionali. In secondo luogo, sarebbe stato opportuno avviare politiche economiche a livello comunitario in grado di allocare le risorse economiche in modo efficiente. Infine, sebbene il rapporto non analizzasse il problema in modo dettagliato, si affermava che comunque il sistema necessitava di maggiori capacità di redistribuzione, per rendere l’intero meccanismo più equo. Il richiamo a una più incisiva guida economica europea veniva accompagnata da un acceso sostegno al Principio di sussidiarietà, che avrebbe dovuto impedire gli aberranti effetti di un accentramento eccessivo.

Contemporaneamente al Rapporto Padoa-Schioppa, anche i positivi sviluppi del mercato unico spingevano da tempo i paesi europei ad adottare una strategia per migliorare ulteriormente queste performance. Gli elevati costi di transazione valutaria erano ormai considerati un ostacolo non trascurabile, in grado di impedire, con il passare del tempo, la completa realizzazione della libera circolazione di capitali, Libera circolazione delle merci e Libera circolazione dei servizi. Inoltre, l’autonomia monetaria dei singoli Stati membri si stava dimostrando incompatibile con gli obiettivi della Comunità, specie quello dei tassi di cambio fissi.

Dal comitato Delors alla realizzazione delle prime due “fasi” dell’UEM (1988-1998)

Nel 1988, durante il Consiglio Europeo che si tenne a Hannover il 27 e 28 giugno, venne ribadito l’impegno della Comunità a creare una unione economica e monetaria e fu nominato un comitato per studiarne modalità e tempi. Il comitato fu presieduto dall’allora presidente della Commissione, Jacques Delors, e vide la partecipazione dei governatori delle banche centrali degli Stati membri e di Alexandre Lamfalussy, direttore generale della Banca dei regolamenti internazionali, di Niels Thygesen e Miguel Salvador Boyer, rispettivamente professore di economia in Danimarca e presidente del Banco exterior de España. Le conclusioni unanimi cui esso pervenne nel Rapporto sull’unione economica e monetaria presentato il 12 aprile 1989, definirono l’“obiettivo UEM” come già lo aveva definito il comitato Werner: in ambito monetario si prevedeva la completa liberalizzazione dei movimenti di capitali, la totale e irrevocabile convertibilità delle monete comunitarie, i tassi di cambio fissi con l’eliminazione delle bande di fluttuazione. Nel Rapporto Delors veniva infine individuato l’obiettivo possibile di una sostituzione delle monete nazionali con un’unica valuta europea per permettere l’integrazione del mercato finanziario. In ambito economico il rapporto chiedeva la creazione del mercato unico, accompagnato dal coordinamento delle politiche economiche, delle politiche strutturali e regionali, sostenute da più incisive politiche per la concorrenza (v. anche Politica europea di concorrenza). Inoltre, il Rapporto Delors considerava necessario un energico impegno da parte dei governi nazionali perché venisse tenuta sotto controllo la spesa pubblica, soprattutto in materia di deficit di bilancio, al suo ammontare e ai metodi di finanziamento. Il comitato individuava tre fasi successive per conseguire i traguardi indicati, passando dallo stretto coordinamento economico e monetario alla moneta unica e a un ancora ipotetico Istituto monetario europeo (IME). Quest’ultimo avrebbe dovuto essere, secondo gli esperti, assolutamente indipendente dalle autorità nazionali nell’esercizio delle sue funzioni.

Discusso nel corso del Consiglio europeo di Madrid, tenutosi il 26 e 27 giugno 1989, il Rapporto Delors venne infine approvato. In base a quanto deciso allora dai capi di Stato e di governo dei dodici membri della Comunità il 1° luglio 1990 iniziò la prima fase dell’UEM, durante la quale i movimenti di capitali tra paesi comunitari furono liberalizzati. Vennero inizialmente esclusi da queste misure il Portogallo, la Spagna, la Grecia e l’Irlanda che non avevano ancora raggiunto sufficienti livelli di integrazione finanziaria. Per quanto concerne le scelte di politica economica fu attivato un meccanismo che permetteva lo stretto coordinamento delle politiche economiche nazionali. Ogni Stato aveva l’obbligo di attenersi alle regole del libero mercato e tendere a una convergenza economica con gli altri paesi europei, considerando le proprie politiche economiche come politiche di interesse comune. Il Consiglio europeo, a Maggioranza qualificata, stabiliva gli indirizzi economici di massima, che dovevano guidare l’azione dei singoli governi nazionali. Contemporaneamente il Consiglio attuava un meccanismo di sorveglianza multilaterale: tutti i paesi erano infatti tenuti a trasmettere i propri dati economici alla Commissione perché essa potesse controllarne periodicamente l’andamento. Qualora un paese si fosse trovato in difficoltà, il Consiglio poteva approvare raccomandazioni o misure di sostegno finanziario.

La prima fase, conclusasi il 31 dicembre 1993, fu dunque caratterizzata principalmente dallo smantellamento delle barriere interne alla libera circolazione dei capitali. Questo tipo di processo, inserendosi nel quadro delle liberalizzazioni interne al mercato europeo voluto dall’Atto unico, non rappresentò un salto di qualità rispetto a quanto già definito dai Trattati comunitari (v. Trattati) e quindi non richiese particolari legittimazioni. Con l’avvicinarsi, però della fine del 1993, i governi europei si resero conto che, se si intendeva proseguire lungo la strada indicata dal Rapporto Delors era necessario modificare i trattati in modo da inserire l’Unione economica e monetaria come nuovo obiettivo comunitario. Spingeva positivamente in questa direzione il successo registrato per più di un decennio dallo SME. Esso aveva assicurato all’Europa una sostanziale stabilità valutaria, favorendo la convergenza verso un’inflazione generalmente più bassa. Anche nel fronteggiare la severa crisi economica del 1992-1993, che portò all’ampliamento della banda di oscillazione al 15% e alla temporanea uscita dell’Italia dal sistema, lo SME si dimostrò capace di reggere, mantenendo un ruolo stabilizzatore per le monete europee.

Il Consiglio europeo di Strasburgo, tenutosi l’8 e 9 dicembre 1989 stabilì dunque che venisse convocata una Conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative) per l’inserimento dell’UEM nel quadro istituzionale della Comunità. La conferenza iniziò i suoi lavori il 15 dicembre del 1990, contemporaneamente a un’altra Conferenza intergovernativa che aveva il compito di gettare le basi per l’unione politica. Il 2 febbraio 1992 venne firmato il Trattato sull’Unione europea (TUE), più noto come Trattato di Maastricht, dal nome della località olandese in cui venne firmato. Esso apportò varie e profonde modifiche al Trattato di Roma del 1957, del quale purtroppo non ha il nitore e la scorrevolezza: risultato dei lavori di due distinte conferenze, esso risulta spesso di difficile lettura.

Il Trattato di Maastricht istituì un’Unione europea con un’implicita vocazione federale (v. Federalismo). Ma mentre attribuì un ruolo modesto ai cosiddetti due nuovi pilastri dell’unione politica (v. Pilastri dell’Unione europea), ovvero la Politica estera e di sicurezza comune (PESC) e la cooperazione nel settore della Giustizia e Affari interni (GAI), in ambito economico e monetario introdusse un impegno formale alla realizzazione dell’Unione, fissando un termine ultimo per l’adozione della moneta unica (il 1999) e definendo un processo articolato in tre fasi per il raggiungimento dell’obiettivo.

Il Trattato entrò in vigore il 1° novembre 1993, dopo un laborioso processo di ratifica da parte degli Stati membri durato quasi due anni. A Maastricht l’Inghilterra e la Danimarca ottennero la facoltà di opt-out, che prevede la possibilità di entrare nella terza fase dell’UEM in seguito a una decisione presa dai rispettivi governi e parlamenti.

L’UEM, oltre all’instaurazione di un mercato comune e all’attuazione di politiche e azioni comuni, aveva il fine, secondo il Trattato di Maastricht, di promuovere uno sviluppo armonioso ed equilibrato delle attività economiche dell’insieme della Comunità, una crescita sostenibile, non inflazionistica e rispettosa dell’ambiente, un elevato grado di convergenza dei risultati economici, un elevato livello di occupazione e protezione sociale, il miglioramento del tenore di vita, la coesione economica e sociale, la solidarietà tra Stati membri. L’UEM prevedeva la realizzazione di una politica monetaria unica in ambito europeo come logico completamento del mercato interno.

L’Unione economica e monetaria si realizzava in tre fasi, delle quali la prima, conclusasi il 31 dicembre 1993, era in corso al momento della firma del TUE, essendo iniziata il 1° luglio 1990. Essa richiese soprattutto un maggior coordinamento delle politiche monetarie, che significò di fatto per i paesi europei adeguarsi alla politica dei tassi tedeschi, che era la più stabile.

La seconda fase iniziò il 1° gennaio 1994 e terminò il 31 dicembre 1998; con essa venne vietato alle banche centrali degli Stati membri, all’Istituto monetario europeo, alle Istituzioni comunitarie e a ogni altro ente pubblico di agevolare gli Stati membri con facilitazioni di credito. Venne richiesta, inoltre, la convergenza su alcuni parametri ben precisi, ovvero: un disavanzo pubblico non superiore al 3% del PIL e un debito pubblico non superiore al 60% del PIL. Su questi aspetti il Consiglio mantenne il sistema di sorveglianza multilaterale: nel caso in cui un paese deviasse dai parametri stabiliti veniva emessa una Raccomandazione che, qualora non fosse stata accolta, poteva essere resa pubblica, con le immaginabili conseguenze per il prestigio e rispettabilità internazionale dello Stato incriminato.

Con il 1° gennaio 1994, e l’avvio della seconda delle tre fasi dell’UEM, in base a quanto previsto dal Trattato di Maastricht, fu creato l’Istituto monetario europeo (IME). Le principali finalità dell’IME furono due. Da un lato vi era il rafforzamento della cooperazione fra le autorità monetarie europee, che permise un maggior coordinamento delle politiche monetarie; dall’altro l’IME doveva creare le condizioni per il passaggio alla fase finale dell’Unione economica e monetaria, quando sarebbe entrata in funzione la Banca centrale europea e il Sistema europeo di banche centrali (SEBC). A questo scopo l’istituto creò il quadro regolamentare, organizzativo e logistico ereditato poi dalla BCE e dal SEBC.

Per il periodo in cui visse, l’IME controllò anche il buon funzionamento dello SME, gestì i meccanismi di sostegno finanziario tra gli Stati membri e amministrò quella parte di riserve ufficiali che le singole banche centrali nazionali avevano trasferito all’Istituto al momento della sua creazione. Le banche centrali dei paesi aderenti all’UE, infatti, avevano contribuito, come previsto dall’articolo 16.2 dello Statuto dell’IME, alle risorse proprie dell’Istituto. L’Istituto pubblicò ogni anno un rapporto sui progressi verso la convergenza, nonché studi e rapporti sulla preparazione alla terza fase. Svolse anche una funzione consultiva; il Consiglio infatti si è spesso rivolto all’IME per le proposte di atti comunitari concernenti la sua sfera di competenza.

Dal punto di vista monetario, però, la seconda fase non fu caratterizzata solo dalla creazione dell’Istituto monetario europeo, ma soprattutto dall’obbligo per gli Stati partecipanti di convergere sui tre criteri fissati dal TUE: cambi stabili, bassa inflazione, tassi d’interesse stabili. Lo Stato candidato, per essere ammesso alla unione monetaria vera e propria, doveva aver fatto parte del Sistema monetario europeo per almeno due anni senza procedere a svalutazioni o rivalutazioni. Inoltre, la sua inflazione media annuale non poteva superare più dell’1,5% quella dei tre paesi partecipanti con inflazione più bassa. I tassi medi d’interesse a lungo termine, infine, non potevano superare più del 2% quelli dei tre paesi con inflazione più bassa. In questo modo, venivano poste le basi per quella convergenza economica e monetaria che avrebbe permesso il passaggio all’ultima fase.

La “terza fase” dell’UEM e la nascita della moneta unica europea (1999-2002)

Nel Trattato di Maastricht l’inizio dell’ultima fase era previsto per il 1997, con la possibilità di posticiparlo al 1999. In realtà, già nel 1995 ci si rese conto che la prima data era irrealistica, dato che nessuno dei paesi firmatari del TUE adempiva allora ai criteri di convergenza. Nel corso del Consiglio europeo di Madrid, tenutosi il 15 e 16 dicembre 1995, venne dunque stabilito che la terza fase sarebbe iniziata il primo gennaio 1999. Contemporaneamente venne scelto il nome “euro” per la nuova moneta europea, vennero stabiliti i tagli delle banconote e le tappe per la sua introduzione. Infine, venne precisato il quadro giuridico dell’euro durante la transizione. L’anno successivo, nel corso del vertice di Dublino del 16 dicembre, vennero approvate anche le misure necessarie a spingere i paesi partecipanti verso i criteri di convergenza fissati a Maastricht. Si trattava del Patto di stabilità e crescita che attribuiva alcuni poteri aggiuntivi al Consiglio economico e finanziario, ovvero il Consiglio europeo riunito a livello dei ministri delle Economie e delle Finanaze dei paesi memebri. Essi avrebbero operato una stretta sorveglianza sulle politiche di bilancio, strutturali e tributarie di ogni singolo paese, e avrebbero formulato gli indirizzi di massima per le politiche economiche di quelli dell’area dell’euro. Il Patto di stabilità riconosceva inoltre al Consiglio economico e finanziario il potere di adottare misure preventive e misure dissuasive nei confronti dei paesi che non presentassero i conti in regola al fine di impedire il definitivo allontanamento dai parametri di Maastricht. Lo Stato che si fosse avvicinato ai limiti dei criteri di convergenza avrebbe subito un primo richiamo, con lo scopo di prevenire lo sfondamento dei parametri. Qualora ciò fosse avvenuto, comunque, il Consiglio poteva stabilire sanzioni, anche pesanti. Nel caso in cui un paese superasse il 3% nel rapporto disavanzo/PIL era tenuto a fare un deposito fruttifero pari allo 0,2% del PIL, più uno 0,1% del PIL per ogni punto percentuale o frazione di sfondamento del tetto del 3%. Se, nell’arco di due anni, la situazione non fosse rientrata nella normalità, il deposito non sarabbe più stato restituito. Ovviamente erano ammesse eccezioni: la regola non si applicava a un paese con una grave recessione in atto e una riduzione del PIL maggiore o uguale al 2%; quando la riduzione del PIL era minore o in altri casi eccezionali, sarebbe stato il Consiglio economico e finanziario a decidere a maggioranza se procedere con le sanzioni.

Come è stato detto, la terza fase dell’UEM era definita dal Trattato di Maastricht solo in modo sommario come fase di passaggio alla moneta unica, fase che avrebbe dovuto iniziare al più tardi nel 1999. Gli aspetti operativi e tecnici del passaggio non erano stati fissati, in modo che, a tempo debito, la Commissione, l’Istituto monetario europeo (IME) e il Consiglio economico e finanziario potessero decidere in base alla situazione contingente. Così, partendo da proposte della Commissione e dell’Istituto monetario europeo, i contenuti e i tempi del passaggio all’euro furono fissati nel 1995 dal Consiglio europeo di Madrid. Anche allora si decise di dividere il restante percorso verso l’euro in tre tappe, che vennero poi effettivamente rispettate. In un primo momento, ovvero nel corso del 1998, furono selezionati i paesi che potevano entrare nell’area dell’euro, attraverso la constatazione dell’aderenza di ciascuno di essi ai criteri fissati nel Trattato di Maastricht. Questo primo periodo fu seguito dalla vera e propria transizione, dal 1° gennaio 1999 al 31 dicembre 2001, nel corso della quale l’euro ebbe esistenza solo come moneta scritturale. Infine, l’ultimo momento fu rappresentato da un breve periodo, ovvero i primi sei mesi del 2002, nel quale euro e monete nazionali convissero.

Il 1998 fu dunque l’anno delle decisioni più importanti. L’avvenimento decisivo riguardò la designazione dei paesi membri che, avendo rispettato i parametri di convergenza stabiliti, poterono poi accedere alla transizione. Sulla base dei rapporti della Commissione europea e dell’Istituto monetario europeo pubblicati il 25 marzo 1998, il Consiglio di Bruxelles del 2 e 3 maggio 1998, riunito a livello di capi di Stato e di governo individuò i quattordici paesi che avrebbero potuto introdurre l’euro già dal 1° gennaio 1999, venendo dunque a far parte del cosiddetto “primo gruppo”: si trattava di Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Olanda, Portogallo, Spagna, Svezia. L’unico paese a non avere i conti in regola era la Grecia, con un deficit superiore al 4% del PIL, un debito pari al 108,7 del PIL, un’inflazione media del 5,2% contro il 2,7% degli altri paesi e tassi d’interesse medi attorno al 9,8% a fronte del 7,8% di media europea. Altri tre paesi rinunciarono a entrare a far parte dell’euro immediatamente: il Regno Unito, per motivi politici; la Svezia che aveva un’opinione pubblica fortemente contraria e la Danimarca che doveva fare i conti con quel diffuso Euroscetticismo che l’aveva già costretta, dopo l’esito negativo del referendum per la ratifica del Trattato di Maastricht del 2 giugno 1992, a ritardare di un anno (18 maggio 1993) la propria adesione al programma dell’UEM.

Il Trattato di Maastricht prevedeva che una revisione delle candidature fosse possibile ogni due anni, a meno che uno Stato, rispettando i parametri prestabiliti, non ne facesse esplicita richiesta prima dello scadere di questo termine. Era quindi possibile in qualunque momento che i membri non partecipanti si unissero ai paesi che già avevano deciso di adottare l’euro. In ogni caso, la prima scadenza per la revisione delle candidature fu prevista prima dell’introduzione effettiva della moneta unica, nella speranza che tutti e quindici i paesi della Comunità potessero partecipare all’ultima fase dell’UEM. In realtà solo la Grecia sfruttò questa opportunità dimostrando di aver rispettato i parametri di Maastricht ed entrando nel periodo di transizione il 1° gennaio 2001. In Danimarca, un referendum sull’adozione dell’euro tenuto il 28 settembre del 2000 ebbe esito negativo, con il 53,2% di voti contrari. Svezia e Gran Bretagna rimasero volontariamente fuori dall’area dell’euro. Quando, il 14 settembre 2003, venne fissata una consultazione referendaria in Svezia, il 56,1 della popolazione si pronunciò contro la sostituzione della moneta svedese con l’euro.

Nel corso del Consiglio europeo del 2 maggio 1998 vennero stabilite anche le parità bilaterali che si sarebbero trasformate, col 1° gennaio dell’anno successivo, in parità immodificabili tra valuta nazionale ed euro. Nella stessa sede istituzionale venne effettuata la scelta del presidente, del vicepresidente e dei membri degli organi direttivi della Banca centrale europea. Il presidente designato fu Wim Duisemberg e il suo vice Christian Noyer; Jacques Chirac, il presidente francese, pretese però un accordo verbale in base al quale a metà mandato Duisemberg avrebbe lasciato il posto a Jean-Claude Trichet e Noyer a Lucas D. Papademos. A partire dal 1° giugno 1998 la BCE divenne operativa: cominciò a introdurre e testare gli strumenti di politica monetaria e i sistemi di pagamento in euro che sarebbero entrati in funzione di lì a sei mesi, nonché a coniare le nuove monete metalliche e a stampare le nuove banconote di euro. La veste grafica delle nuove monete era stata scelta attraverso un concorso indetto nel 1996; la stampa e il conio materiale vennero realizzato dalle banche centrali nazionali.

Nel corso del 1998 gli Stati membri dovettero provvedere individualmente al recepimento di tutta la legislazione comunitaria in materia monetaria, nonché all’adeguamento di quella nazionale, al fine di rendere possibile l’introduzione dell’euro. Il quadro giuridico che premetteva l’adozione dell’euro era stato varato durante il Consiglio di Madrid del 1995 e si era concretizzato poi in due Regolamenti, uno del 1997 (CE n. 1103/97 del 17/6/1997) e l’altro del 1998 (CE n. 974/98 del 3/5/1998), che definivano lo status delle monete nazionali e dell’euro nel corso del periodo di transizione. Ai governi nazionali, poi, fu attribuita la responsabilità di sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema dell’imminente entrata in circolazione della moneta unica, al fine di facilitare la conoscenza e la familiarizzazione dei cittadini europei con la nuova moneta, prima ancora che essa entrasse in circolazione. Durante questa prima tappa, però, gli sforzi organizzativi più consistenti si concentrarono sull’adeguamento tecnico dei mercati finanziari, del sistema bancario e imprenditoriale, che per primi sarebbero stati coinvolti dal debutto del periodo transitorio.

La transizione, di tre anni di durata, costituì il momento di passaggio vero e proprio, in quanto durante questo periodo l’euro funzionò a ogni livello con la sola esclusione della circolazione materiale. Con il 1° gennaio 1999 vennero fissati irrevocabilmente i tassi di cambio di ciascuna moneta europea nei confronti dell’euro. Precisamente un euro valeva: 40,3399 franchi belgi e lussemburghesi, 1,95583 marchi tedeschi, 166,386 pesete spagnole, 6,55957 franchi francesi, 0,787564 sterline irlandesi, 1936,27 lire italiane, 2,20371 fiorini olandesi, 13,7603 scellini austriaci, 200,482 scudi portoghesi, 5,94573 marchi finlandesi (la parità della moneta greca venne fissata nel 2001; un euro allora valeva 340,75 dracme). A partire da quel momento l’ECU cessò di esistere e fu sostituito dall’euro; con l’ECU morì anche lo SME sostituito da altri accordi di cambio tra area dell’euro e i paesi dell’Unione europea (UE) che avevano scelto di mantenere la valuta nazionale. Entrò quindi in vigore la legislazione sullo status dell’euro che fino al 2001 visse solo come moneta scritturale, mentre circolavano ancora le monete nazionali.

Nella fase di transizione l’euro doveva essere usato obbligatoriamente nel settore creditizio e pubblico. Ogni Stato dovette trasformare il proprio debito estero in euro. Facoltativo, invece, era l’uso dell’euro come moneta scritturale per aziende e famiglie. Per quanto attiene ai sistemi di pagamento quali assegni, trasferimenti, carte di credito, essi furono progressivamente convertiti nella nuova moneta. La gestione e la sorveglianza di questo processo vennero affidate alle banche centrali dei singoli paesi, che agirono in accordo con la BCE. Dal 1999 i mercati finanziari (interbancario, monetario, cambi e capitali) poterono provvedere alla contabilizzazione in euro delle loro attività. Anche le pubbliche amministrazioni cominciarono a redigere un calendario per l’utilizzo dell’euro nelle operazioni che le coinvolgevano direttamente, quali, per esempio, la riscossione delle tasse e la gestione dell’assistenza sociale. In questa seconda fase il singolo cittadino poteva entrare in contatto con la nuova moneta optando per la gestione in euro dei propri conti bancari e dei propri investimenti.

Il ruolo della Banca centrale europea e del Consiglio economico e finanziario

Con la nascita legale dell’euro anche la Banca centrale europea e il Sistema europeo di banche centrali assunsero pienamente le loro funzioni. La sede del Sistema fu fissata a Francoforte sul Meno, nella eurotower. Il SEBC è una struttura di natura federale che riunisce tutte le banche centrali nazionali e la Banca centrale europea. All’interno del Sistema vi è il cosiddetto “eurosistema” che comprende la BCE e le banche centrali nazionali dei soli paesi che hanno adottato l’euro. Il SEBC è dunque un complesso di organismi comunitari e nazionali che ha come primo obiettivo il mantenimento della stabilità dei prezzi. Solo in seconda istanza il Sistema ha il compito di sostenere gli indirizzi generali di politica economica fissati dalla Unione europea. Il Sistema determina la politica monetaria nell’area dell’euro, fissando gli obiettivi intermedi di politica monetaria e manovrando gli strumenti (soprattutto tassi di interesse); esso regola l’emissione di banconote e monete, svolge operazioni sui cambi, detiene e gestisce le riserve ufficiali in valuta estera di tutti i paesi partecipanti, controlla il regolare funzionamento di tutti i sistemi di pagamento, concorre con altre autorità a vigilare sul comportamento degli enti creditizi e sulla stabilità del sistema finanziario. Quest’ultimo compito fu uno dei più controversi in sede di definizione delle funzioni del SEBC, poiché in alcuni paesi la banca centrale non ha poteri di controllo sul settore creditizio e finanziario.

Lo statuto del Sistema garantisce l’indipendenza istituzionale, funzionale, finanziaria e contabile dell’istituzione. All’interno del Sistema un ruolo di primo piano è ricoperto dalla Banca centrale europea, che è a tutti gli effetti una banca centrale, a differenza di quanto accade negli Stati Uniti, dove il Federal reserve system non ha funzioni operative. La BCE ha un capitale di 5 miliardi di euro, versati in quote diverse dai singoli paesi membri. La quota è calcolata tenendo conto della popolazione di ciascuno Stato e del suo prodotto interno lordo. I paesi che fanno parte del sistema ma non dell’area dell’euro, versano il 7% della loro quota (fino al 2004 era solo il 5%) quale contributo alle spese della Banca.

I principali organi direttivi della BCE sono il Consiglio direttivo, il Comitato esecutivo (o Direttorio) e il Consiglio generale. Il Comitato esecutivo è composto da 6 membri, incluso il presidente, scelti dai capi di Stato e di governo dei paesi che hanno adottato l’euro dopo aver consultato il Parlamento europeo e il Consiglio direttivo della Banca centrale europea. Essi restano in carica per 8 anni e il loro mandato non può essere rinnovato. Il presidente e il vicepresidente del Comitato esecutivo sono il presidente e il vicepresidente della Banca centrale europea. Il Comitato attua le politiche monetarie che il Consiglio direttivo ha adottato, si occupa dell’amministrazione della BCE, prepara le riunioni del Consiglio direttivo. Le votazioni avvengono a maggioranza semplice con preponderanza del voto del presidente in caso di parità.

Il Consiglio direttivo è invece formato dai 6 membri del Comitato esecutivo e dai dodici governatori delle banche centrali dei paesi appartenenti all’area dell’euro. Anche quest’organo delibera a maggioranza con voto preponderante del presidente. Il Consiglio direttivo ha il compito di formulare la politica monetaria, di fissare gli obiettivi intermedi e i tassi di riferimento. Stabilisce quale debba essere l’offerta di riserve del Sistema europeo di banche centrali, delibera sulle quote che ogni paese deve versare, controlla il livello di liquidità effettuando operazioni di mercato aperto, fissando la riserva minima obbligatoria, gestendo il credito attraverso i tassi di interesse.

Nel Consiglio generale siedono i governatori di tutte le banche centrali dei paesi dell’Unione europea, il presidente e il vicepresidente della BCE; possono partecipare, senza diritto di voto, gli altri membri del Comitato esecutivo, il presidente della Commissione e quello del Consiglio dell’Unione europea (v. Presidenza dell’Unione europea). Le banche centrali nazionali degli Stati membri della UE ma non aderenti all’area dell’euro beneficiano di una speciale deroga che consente loro di condurre la propria politica monetaria; pertanto, esse non prendono parte alle decisioni riguardanti l’area dell’euro né alla loro attuazione. Il Consiglio generale è un organo transitorio che sarà sciolto nel momento in cui tutti i paesi dell’Unione avranno adottato l’euro. Fino ad allora il Consiglio avrà compiti simili a quelli che furono dell’IME, ovvero quello di coordinare le azioni delle banche centrali nazionali, e quello di raccogliere dati statistici. Ogni anno la Banca centrale europea è tenuta a redigere una dettagliata relazione sulla sua attività.

Se il SEBC, e in particolare la BCE, è l’autorità responsabile in fatto di politica monetaria, in materia di coordinamento economico il massimo organo responsabile a livello comunitario resta il Consiglio economico e finanziario (ECOFIN), composto dai ministri economici e finanziari di tutti i paesi dell’Unione; esso delibera a maggioranza qualificata. Ha il compito di stabilire gli indirizzi di massima relativi alle maggiori scelte di politica economica, di sorvegliare ed eventualmente sanzionare i singoli paesi in base al Patto di stabilità e crescita, e di indicare gli orientamenti da seguire nella politica dei cambi. Immediatamente prima di ogni riunione del Consiglio Ecofin i soli paesi partecipanti all’area dell’euro si riuniscono nel cosiddetto “eurogruppo”, nel quale vengono discussi i problemi di stretta pertinenza euro. I lavori del Consiglio Ecofin sono preparati dal Comitato economico e finanziario che dal 1° gennaio 1999 ha sostituito il Comitato monetario della Comunità europea. Questo Comitato, nel quale siedono 2 rappresentanti della Commissione europea, 2 rappresentati della BCE, e 2 rappresentanti di ciascuno Stato della Unione europea ha, tra l’altro, il compito di monitorare costantemente la situazione economica dei paesi aderenti all’UE, anche se ancora non inseriti nell’area dell’euro.

Nota conclusiva

A partire dal 1° gennaio 2002, ovvero con l’inizio della terza fase, l’euro veniva messo in circolazione, rendendo così definitivi i cambiamenti pianificati o parzialmente introdotti dal 1999. La distribuzione delle nuove monete avveniva nel corso degli ultimi mesi del 2001 partendo dagli istituti bancari fino agli esercizi commerciali. Il 3 gennaio 2002 il 96% degli sportelli bancomat erogava banconote della nuova valuta. Fino al 30 giugno 2002 l’euro circolò accanto alle divise nazionali ma già a marzo la sostituzione poteva dirsi avvenuta. Infine, il 30 giugno 2002, le monete nazionali furono private del loro status legale, e l’euro diventò l’unica moneta di paesi europei, ai quali si aggiunsero, per ovvie ragioni San Marino, Città del Vaticano, Andorra e il Principato di Monaco. Si creò così un’area monetaria seconda solo agli Stati Uniti d’America, che nel 2002 copriva il 15,7% del prodotto interno lordo mondiale.

Restano ancora fuori dall’Unione economica e monetaria il Regno Unito, la Svezia e la Danimarca, oltre ai dieci paesi entrati nell’Unione europea nel 2004. Per costoro vige un accordo di cambio detto Exchange rate mechanism II (ERM II), simile a quello in funzione nel periodo dello SME, che permette un’oscillazione massima delle valute del 15% rispetto all’euro. In questo modo viene tutelata la stabilità valutaria dell’intera area dell’Unione e si pongono le basi per la futura introduzione dell’euro nei paesi per ora esclusi.

Daniela Bianchi (2007)




Unione europea

Introduzione

L’espressione “Unione europea” è, come si vedrà, di uso abbastanza recente. Compare infatti di rado nella storia dei movimenti per l’unità europea prima dell’ultima guerra mondiale, essendo a essa preferite espressioni contenenti una chiara allusione alla auspicata “Federazione europea”, oppure agli “Stati Uniti d’Europa” (v. anche Federalismo), come già da decenni era nei voti di una esigua minoranza di scrittori e politici. Tra i documenti diplomatici del primo dopoguerra, solo il memorandum presentato il 1° maggio 1930 dal ministro degli Esteri francese Briand parla esplicitamente di “Unione europea”. Ricordiamo che esso fu discusso dinnanzi alla Commissione europea della Società delle Nazioni, che lo accolse con molta freddezza e fu “seppellito poi” dall’Assemblea (v. Ducci, Olivi, 1970, pp. 40-56).

Fa eccezione un’iniziativa (una delle prime del dopoguerra) che, seppur limitata, vale la pena di ricordare, perché una delle primissime e perché seguiva di due giorni il famoso discorso di Winston Churchill a Zurigo il 19 settembre 1946. A pochi chilometri da quella città si riunì a Hertenstein, il 21 settembre appunto, un folto gruppo di Federalisti europei (v. Movimento federalista europeo): svizzeri, francesi tedeschi, olandesi. L’ispiratore era Hendrik Brugmans, un professore olandese destinato a diventare un personaggio notevole nelle vicende dei movimenti federalisti europei, che redasse e fece approvare un documento chiamato poi il “Programme d’Hertenstein”, che fu poi all’origine dell’Unione europea dei federalisti nel dicembre 1947. Il programma postulava la creazione, su basi federaliste, di una “Unione europea”, prefigurata come unione regionale nel quadro delle Nazioni Unite mediante cessione parziale di sovranità da parte degli Stati europei (R. Ducci, B. Olivi, 1970, pp. 77-78).

Dopo di allora non si ricordano casi analoghi, tanto meno nei documenti ufficiali nazionali e internazionali, sino al comunicato della Conferenza al vertice (v. Vertici) dei capi di Stato e di governo della Comunità europea (Comunità economica europea) tenutasi a Parigi il 19 e 20 settembre 1972. Esso era preceduto da una “dichiarazione politica” che terminava con la seguente proclamazione: «Gli Stati membri della Comunità, che è l’elemento motore della costruzione europea, affermano il proposito di trasformare, entro la fine del decennio in corso, l’insieme dei loro rapporti in una Unione europea» (v. Olivi, 1979, p. 183). Il Vertice di Parigi era stato voluto dal Presidente francese Georges Pompidou per segnare una svolta “politica” e programmatica alla Comunità alla vigilia dell’entrata effettiva del Regno Unito nella Comunità, esigendo l’approvazione di tutti i nove membri della Comunità allargata. Al tempo stesso, Georges Pompidou intendeva dare l’avvio concreto alla nuova politica europea della Francia, ben distinguendosi dalle idee e dalle azioni del suo predecessore Charles de Gaulle, al tempo stesso mettendo in qualche modo alla prova la discussa “fede comunitaria” dei britannici. Occorre peraltro ricordare che la “dichiarazione politica” e il “comunicato finale” del Vertice di Parigi del 19-20 ottobre 1972 avevano contenuti assolutamente insoliti. Si trattava davvero, nell’insieme, di un vero e proprio “manifesto” sull’avvenire dell’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), formulato quasi per celebrare, con la fine del gollismo, anche l’inizio di un periodo di progresso dell’integrazione europea, con l’indicazione di nuovi obbiettivi anche “politici”, essi pure totalmente nuovi. La Francia voleva riprendere (quasi una sfida alla nuova realtà gravida d’interrogativi, determinata dall’adesione del Regno Unito) la “guida” politica dell’unificazione europea. Il documento era importante, ma il suo contenuto fu presto travolto dalla crisi seguita allo choc petrolifero del 1973 allo scoppio della cosiddetta “guerra del Kippur” che provocò in Europa una lunga e penosa paralisi dell’integrazione.

In ogni caso, fu questo l’avvenimento che promosse ufficialmente l’“Unione europea” come traguardo di un’evoluzione e quindi di una trasformazione ultima delle Comunità europee sino ad allora costituite e funzionanti, segnando di fatto (ma anche formalmente in un comunicato di una riunione al Vertice dei capi di Stato e di governo) la fine semantica delle espressioni considerate inadatte, politicamente utopiche e persino fuorvianti quali la “Federazione europea”, gli “Stati Uniti d’Europa” e simili.

Del resto, nonostante le reticenze e anche le opposizioni, persino le personalità più fedeli alla tradizione dei movimenti federalisti finirono per accettare l’espressione di cui si tratta, considerandola peraltro come “onnicomprensiva” e comunque adatta allo scopo, e cioè all’indicazione generica di una forma definitiva dell’unificazione europea. Ne è dimostrazione illustre l’esempio del progetto di Trattato sull’Unione europea approvato il 14 febbraio 1984 dal Parlamento europeo detto altrimenti “progetto Spinelli” (v. Spinelli, Altiero) dal nome del suo promotore, di cui si dirà più oltre.

Il “Rapporto Tindemans”

Nello stesso Vertice dell’ottobre 1972, i capi di Stato e di governo della Comunità avevano chiesto alle Istituzioni comunitarie di elaborare un rapporto sugli obbiettivi formulati in quella occasione a proposito di una costituenda “Unione europea”, obbiettivo confermato nei successivi Vertici a Copenaghen nel dicembre 1973 e di nuovo a Parigi nel dicembre 1974 (che fu l’ultimo dei “Vertici” poiché in quell’occasione fu deciso che da allora in poi una riunione di quel genere si chiamasse “Consiglio europeo”). In quest’ultima occasione, i nove governi (non soddisfatti del contenuto dei vari “rapporti” elaborati dalle istituzioni, Commissione europea, Parlamento europeo in particolare) si erano accordati affinché un “piano globale” sul tema fosse redatto dal primo ministro belga Léo Tindemans entro la fine del 1975. Tindemans accettò l’incarico, presentando al Consiglio europeo il 29 dicembre 1975 un rapporto dal titolo “Unione europea” (“Bollettino delle Comunità europee”, supplemento 1/76, 1976).

Il breve rapporto (34 pagine in tutto) rispondeva in modo succinto ma esauriente ai quesiti posti dal Consiglio europeo. Tuttavia non si poneva come obbiettivo finale e concreto la trasformazione delle Comunità esistenti in un nuovo complesso istituzionale, eliminando per sempre le strutture comunitarie, unificandone le istituzioni e le norme dei Trattati, sostituite da un’unica e comprensiva nuova struttura, avente personalità giuridica propria (v. Personalità giuridica dell’Unione europea). Il complesso di proposte tendeva piuttosto a proporre un ampio e contemporaneo approfondimento dell’integrazione, un aumento ragionato delle Competenze comunitarie nell’ambito del complesso istituzionale allora vigente.

Una rilettura odierna ci consente di valutare i meriti e i limiti della visione d’insieme di Tindemans. Da un lato era chiaro all’autore che l’integrazione europea era giunta al momento delle decisioni “politiche”, intendendosi con ciò che il primo incremento di competenze alle istituzioni dovesse essere appunto “politico” e cioè riguardare innanzitutto l’inclusione della cosiddetta “cooperazione politica” (v. Cooperazione politica europea) tra le competenze comunitarie, quindi procedendo a una vera e propria trasformazione del “carattere” di quest’ultime. Peraltro, non del tutto chiaramente, ma implicitamente, si doveva concludere che l’obbiettivo, e cioè l’Unione europea, che era anche il titolo del rapporto, non poteva essere raggiunto che progressivamente, e come tale non era proposto solennemente come risultato finale dell’approfondimento dell’integrazione delineato nel rapporto.

Con il senno di poi, si può agevolmente affermare che i tempi non erano affatto maturi per una proposta “globale” com’era quella che era stata richiesta a Tindemans. Le idee di “Approfondimento” dell’integrazione venivano dall’epoca di Georges Pompidou, alla vigilia del primo Allargamento comunitario, ed erano politicamente motivate dalla necessità di giustificare in qualche modo il grande mutamento della politica francese e conferire nuovamente alla Francia il primato dell’iniziativa “positiva” nell’integrazione europea. Le vicende seguite in Europa e nel mondo, e soprattutto la crisi causata dal primo choc petrolifero in cui stentava a sopravvivere l’integrazione europea, non potevano peraltro incoraggiare a proposte di tipo “rivoluzionario”.

Alla morte di Gerorges Pompidou era stato eletto alla Presidenza della Repubblica francese Valéry Giscard d’Estaing. A lui toccò in sorte di partecipare al Consiglio europeo dell’Aia, che il 30 novembre 1976 seppellì in pratica il Rapporto Tindemans tra i mille e più progetti disattesi e dimenticati negli archivi dell’integrazione europea.

Il progetto di Trattato sull’Unione europea

Il progetto di Trattato sull’Unione europea, approvato dal Parlamento europeo il 14 febbraio 1984 elaborato e condotto a compimento su iniziativa di Altiero Spinelli, prevedeva, nell’ambito di un compiuto disegno di trasformazione delle Comunità europee esistenti e dei Trattati relativi, la costituzione di un’Unione europea avente personalità giuridica, un vero “salto di qualità” rispetto alla situazione esistente (v. Angelino, 2003, p. 284 e ss.). Per la prima volta, dunque, l’Unione europea veniva proposta come espressione indicativa di una nuova organizzazione dell’integrazione europea, della quale venivano indicate le competenze e gli obbiettivi – per la prima volta il termine “sussidiarietà” (v. Principio di sussidiarietà) veniva usato per precisare i limiti rispettivi di competenze dell’Unione e degli Stati membri. Il tutto appariva un’opera di insolito valore anche “costituzionale” che avrebbe dovuto, nelle speranze dei promotori, fornire agli Stati membri, cui spettava il diritto della sua adozione formale, un progetto completo e coerente, frutto non certo di entusiasmi utopici, ma di riflessioni competenti e storicamente puntuali.

Nonostante la validità oggettiva del progetto – e anche la migliorata congiuntura economica e politica che si constatava in Europa nella prima metà degli anni Ottanta –, il progetto Spinelli non ebbe successo. Eppure i suoi 87 articoli, con stringata chiarezza, erano il frutto di un lavoro condotto con estrema validità tecnica da un’équipe animata dal fervore intellettuale senza pari di un personaggio che aveva tenacemente perseguito l’obbiettivo dell’unità europea durante una vita consacrata interamente ad esso. L’azione dell’Unione prevista dal progetto doveva progressivamente realizzare compiutamente l’unità europea, avvalendosi del «diritto creato dalle Comunità europee» (art. 7/2). Il progetto precisava i limiti e i campi rispettivi dell’azione comune e della cooperazione, distinguendo i metodi con inusitata chiarezza. In breve, la realizzazione compiuta dell’unità europea era affidata all’Unione europea secondo ritmi e scadenze certamente non utopici.

Nonostante l’apparente sconfitta del Parlamento europeo (il testo del progetto giacque per anni sul tavolo del Consiglio, senza che mai fosse seriamente esaminato e discusso) grande può essere giudicata, seppur con il senno di poi, l’importanza politica della sua creazione e del suo contenuto. Si può innanzitutto affermare che esso dette il via al lungo periodo delle riforme, e cioè a quell’incessante dibattito sulle modifiche da apportare ai trattati fondatori dell’integrazione che seguì per decenni sino ai giorni nostri. Inoltre, esso ha sicuramente fornito materiale di discussione e di studio ai negoziatori degli anni seguenti, a cominciare da quelli che prepararono l’Atto unico europeo, prima importante riforma dei Trattati di Roma. Infine, con il progetto Spinelli, l’espressione “Unione europea” entrò definitivamente nel lessico dell’Europa comunitaria, sino alla sua recente consacrazione nel Trattato costituzionale dell’Unione europea (v. Costituzione europea) adottato a Bruxelles dai capi di Stato e di governo dei 25 Stati membri il 19 giugno 2004.

L’Unione europea nel Trattato di Maastricht

L’Unione europea nasce con il Trattato di Maastricht, firmato in quella città il 7 febbraio 1992, e detto anche “Trattato sull’Unione europea”. In verità (e a sostanziale differenza da quanto prevedeva il progetto di Trattato del Parlamento europeo) l’Unione europea non nasceva dotata di personalità giuridica, che continuava ad essere appannaggio delle Comunità preesistenti; solo la Comunità economica europea (CEE) diventava più semplicemente “Comunità europea”. La nuova creatura aveva quindi essenzialmente una finalità politica, quella di riunire “politicamente” l’insieme di strutture, legislazioni comunitarie, accordi interstatali e quant’altro fosse stato deciso nel contesto dell’integrazione europea.

Più precisamente, seguendo la bizzarra (ma ormai generalmente ammessa in pratica, in politica e in dottrina) teoria dei “tre pilastri” (v. Pilastri dell’Unione europea) costruiti dal Trattato di Maastricht, l’Unione europea doveva essere considerata come una specie di “mantello” avvolgente i tre pilastri, ciascuno dei quali conservava la propria “autonomia” giuridica. Per il primo pilastro, in quanto relativo alle riforme riguardanti le Comunità europee, la questione della personalità giuridica non si poneva, essendo le Comunità fornite di personalità e capacità giuridica. A sua volta, nel caso del secondo pilastro, concernente Politica estera e di sicurezza comune (PESC), la questione era fuori luogo, trattandosi di “cooperazione” tra gli Stati membri, che conservavano appunto piena “capacità” e quindi responsabilità giuridica della cooperazione stessa, così come nel caso del terzo pilastro, concernente la cooperazione in materia di Giustizia e affari interni (CGAI).

Peraltro, che il Trattato (e quindi l’Unione europea che esso crea) sia soltanto una tappa del processo dell’integrazione, è detto chiaramente nel titolo I. La formulazione proposta dalla maggioranza dei negoziatori – «processo graduale che conduca ad un’Unione a vocazione federale» – non era stata approvata a causa dell’insuperabile opposizione dei britannici, cui ripugnava qualsiasi accenno ad una Federazione (v. Gerbet, 1994, pp. 464). Questo può ben spiegare perché alla neonata Unione non fosse attribuita la personalità giuridica, e che quindi essa in quanto tale non avesse alcuna capacità di agire, il che ha provocato conseguenze e difficoltà notevoli (e talvolta bizzarre) nel corso dell’attuazione del Trattato.

L’art. A del titolo I (al 3° paragrafo) dice espressamente che «l’Unione è fondata sulle Comunità europee e sulle politiche e forme di cooperazione previste dal presente Trattato. La sua missione è di organizzare in modo coerente e solidale le relazioni tra gli Stati membri e tra i loro popoli». Il linguaggio alquanto enfatico manca con evidenza di chiarezza giuridica, che non è la qualità prima anche degli articoli successivi, laddove si indicano gli obiettivi dell’Unione e il suo quadro istituzionale.

Peraltro, e per virtù di paradosso, con il passar del tempo, l’espressione “Unione europea” ha assunto un’importanza politica che ha relegato in secondo piano il soggiacente – e teoricamente preponderante – problema giuridico: il suo uso generalizzato, la sua funzione unificante, la facilità della locuzione, e, infine, la sua “neutralità” ideologica hanno finito per consacrarne la validità pratica. Da Maastricht in poi, qualsiasi dibattito sul presente e sull’avvenire dell’integrazione europea ha avuto per oggetto l’“Unione europea”, essendo questa espressione entrata senza contestazione nel linguaggio diplomatico e nell’uso generale.

La situazione giuridica formale non è stata significativamente modificata dai risultati delle Conferenze intergovernative (CIG) che hanno prodotto il Trattato di Amsterdam del 1998 e il Trattato di Nizza del 2000. È continuato in quelle occasioni il lungo paradosso concepito dal Trattato di Maastricht, e quindi viene confermato quell’“ibrido giuridico” della “non entità legale” dell’Unione europea, un ibrido creato appunto per indicare e collegare “politicamente” entità fornite di personalità e capacità giuridica come le Comunità europee e attività e obbiettivi distinti e differenti (ma giuridicamente imputabili soltanto agli Stati partecipanti) come la “politica estera e di sicurezza comune” (PESC) e la Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. Ciò era frutto della reticenza degli Stati membri a conferire all’Unione, in modo chiaro e quindi inequivocabile (soprattutto per i paesi terzi) quella funzione fondamentale che si attribuisce ad una entità legalmente e quindi politicamente rappresentativa di una struttura nuova ed unificante.

Com’è ovvio e risaputo, il grave paradosso e gli equivoci conseguenti erano perfettamente voluti da quasi tutti gli Stati membri, i quali non erano stati in grado di affrontare – e risolvere – il problema ormai ultradecennale della vera riforma dell’integrazione europea, e cioè la scelta definitiva di una nuova struttura unificante e unica. Tuttavia era impossibile rinviarla ancora a lungo, soprattutto dopo la conclusione ingloriosa dell’ultima CIG, quella del 2000 e del Trattato di Nizza.

A Laeken, nei dintorni di Bruxelles, su impulso della presidenza belga (v. Presidenza dell’Unione europea), il Consiglio europeo del dicembre 2001 affrontava finalmente la necessità della “grande riforma”. L’urgenza, già da tempo percepita, era diventata politicamente pressante, e nel breve periodo persino paralizzante, essendo ormai in corso – e ormai avviati a compimento – i negoziati con dieci paesi candidati, ed era convinzione indiscussa che la situazione creatasi dopo il Trattato di Nizza non sarebbe stata sopportabile da una Unione a 25 membri. L’iniziativa belga era “onnicomprensiva”, e cioè mirava a provocare la revisione di tutte le questioni in sospeso, e non soltanto quelle poste dall’imminente allargamento a 25 membri, proponendo che, al posto di una Conferenza intergovernativa del tipo tradizionale e ormai discreditato, fosse convocata una “Convenzione” (v. Convenzioni) e cioè un’Assemblea composta dai rappresentanti dei governi, delle istituzioni europee e dei parlamenti nazionali, al fine di esaminare e rispondere a 67 “quesiti” sulla riforma dei Trattati europei esistenti, posti dal Consiglio europeo. Il risultato dei lavori, ancorché sottaciuto, doveva portare a un progetto di “Costituzione europea” com’era ormai nei voti quasi unanimi.

L’approvazione della risoluzione di Laeken dette quindi vita alla Convenzione europea, riunita per la prima volta a Bruxelles il 28 febbraio 2002. Dopo quasi 18 mesi, il presidente della Convenzione, Valéry Giscard d’Estaing, annunciava al Consiglio europeo riunito a Salonicco il 19 e 20 giugno 2003 l’imminente fine dei lavori e il completamento di un progetto di “Costituzione europea”, che veniva quindi inviato alle istituzioni e ai governi alla fine dei lavori della Convenzione il 10 luglio 2003.

Vale la pena di ricordare che uno dei momenti più drammatici e decisivi dei lavori della Convenzione, fu quando Giuliano Amato, vice presidente della Convenzione e presidente del Gruppo di riflessione n. 3 sulle “conseguenze della personalità giuridica dell’Unione”, presentò alla sessione plenaria di settembre 2003 il suo primo rapporto, perorando senza esitazioni l’esplicita attribuzione della personalità giuridica all’Unione, nonostante le inattese perplessità di Giscard d’Estaing, ottenendo l’unanime approvazione dell’Assemblea.

Risolta subito e con grande successo tale questione preliminare, era chiaro che le conseguenze sarebbero state di grandissima importanza, se non altro perché tale riconoscimento rendeva ovvia la natura “costituzionale” della grande riforma (sulla presentazione del rapporto Amato v. Dauvergne, 2004, p. 81 e ss.).

L’approvazione del rapporto Amato, convinta e unanime, chiuse definitivamente qualsiasi dibattito sulla questione e aprì la via alle decisioni successive sulla fusione dei Trattati, le competenze delle istituzioni, ecc. Va inoltre ricordato che nel corso dei negoziati, talvolta drammatici, della CIG (apertasi a Roma il 1° ottobre 2003 e conclusasi a Bruxelles il 18 giugno 2004), da nessuna delegazione partecipante fu sollevata obiezione alcuna alle conclusioni della Convenzione concernenti la definizione e la struttura dell’Unione europea.

Il “Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa” venne firmato a Roma il 29 ottobre 2004. A partire da quella data, furono avviate nei venticinque membri comunitari le procedure di ratifica, che, dopo i voti contrari nel 2005 dei cittadini di due Stati fondatori (Francia e Paesi Bassi) subirono una drastica battuta d’arresto.

Dopo una “pausa di riflessione”, il tentativo di riforma fu rilanciato nel corso del 2007 e le linee guida di un nuovo Trattato europeo vennero gettate durante il Consiglio europeo di Bruxelles del 21 e il 22 giugno 2007. La nuova Conferenza intergovernativa (CIG) iniziava il 23 luglio i lavori per definire le modifiche giuridiche necessarie per elaborare il nuovo Trattato, che sarebbe dovuto entrare in vigore nel 2009, modificando e riformando i Trattati esistenti. Il 3 ottobre, la CIG licenziava la bozza definitiva del nuovo Trattato europeo poi discussa a Lussemburgo il 15 ottobre dai ministri degli Esteri dei 27 paesi membri e il 18 ottobre dai capi di Stato e di governo. Il 19 ottobre 2007 il testo era approvato durante il vertice informale di Lisbona dei capi di Stato e di governo dell’Unione europea e firmato, di nuovo a Lisbona, il 13 dicembre 2007 (v. Trattato di Lisbona). A norma dell’articolo 6, il Trattato avrebbe dovuto essere ratificato dagli Stati membri conformemente alle rispettive norme costituzionali, e sarebbe dovuto entrare in vigore il 1° gennaio 2009, se tutti gli strumenti di ratifica fossero stati depositati (altrimenti, il primo giorno del mese successivo all’avvenuto deposito dell’ultimo strumento di ratifica).

Accanto all’approfondimento, non si può dimenticare che nel corso degli ultimi anni l’Unione europea ha conosciuto il più grande ampliamento della sua storia: dal 1° maggio 2004, sono diventati membri comunitari Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Malta e Cipro e il 1° gennaio 2007 hanno fatto il loro ingresso anche Romania e Bulgaria.

Bino Olivi (2008)




Unione europea dei federalisti

L’Unione europea dei federalisti (UEF) fu fondata sessant’anni fa (Parigi, 15 dicembre 1946) con l’unificazione in una organizzazione europea dei movimenti federalisti nazionali nati negli anni immediatamente precedenti la Seconda guerra mondiale, durante la guerra e subito dopo. Vanno ricordati, in particolare: l’Europa-Union svizzera (1934), la Federal Union britannica (1938), il Manifesto di Ventotene (1941), il Movimento federalista europeo (1943), il Comitato francese per la federazione europea (1944), il Movimento federalista olandese (1945), il movimento francese. La Fédération (1945), l’Europa-Union tedesca (1946). Occorre anche ricordare che durante la guerra si svolsero in Svizzera e in Francia le prime riunioni sopranazionali dei federalisti a Ginevra e a Parigi, nel quadro della partecipazione dei federalisti alla Resistenza antifascista. Nel federalismo si è in effetti vista l’unica strada attraverso cui realizzare la pace e la democrazia in Europa e diffonderle su scala mondiale.

Nel ripercorrere qui, in modo sintetico i sessant’anni di vita dell’UEF, si possono distinguere sette fasi.

 Fondazione e definizione degli orientamenti di fondo (1946-1949).

Si debbono qui sottolineare cinque aspetti fondamentali, il primo dei quali è rappresentato dalla scelta federalista cioè dalla convinzione che l’unità irreversibile e democratica dell’Europa possa realizzarsi solo attraverso la costruzione di uno stato federale.

Sotto questo aspetto, l’UEF si è sempre contrapposta alla scelta confederalista, che allora era rappresentata soprattutto da Winston Churchill, e veniva definita unionista, e successivamente troverà in Charles de Gaulle il suo più autorevole sostenitore. La scelta federalista, che emerge nel convegno di Hertenstein del 15-22 settembre 1946 e poi al momento della fondazione ufficiale avvenuta a Parigi il 15 dicembre 1946 è stata da allora il fondamentale elemento qualificante dell’identità dell’UEF. Ciò non impedirà la partecipazione dei federalisti alla organizzazione, assieme ai confederalisti, del Congresso dell’Aia (7-10 maggio 1948) e alla successiva costituzione del Movimento europeo, comprendente praticamente tutte le organizzazioni a favore dell’unità europea. Dominato all’inizio dalle tendenze confederaliste, il ME, a partire dalla presidenza di Paul-Henri Charles Spaak (1899-1972) nel 1950, sarà guidato da un orientamento prevalentemente federalista. Questa linea sarà sostenuta in particolare, oltre che dall’UEF e dalle Jeunesses fédéralistes europeennes (JEF) ad essa strettamente collegate, dal Consiglio dei comuni e delle regioni d’Europa (CCRE) (v. Consiglio dei comuni d’Europa), dall’Associazione europea degli insegnanti (AEDE), dalla Federazione internazionale della casa d’Europa (FIME), dal Centro internazionale di formazione europea (CIFE). Una linea sostanzialmente confederalista sarà per contro espressa, a livello dei movimenti per l’unità europea (v. Movimenti europeistici), dal Movimento per la Paneuropa di Richard Coudenhove-Kalergi (1894-1972).

Il secondo punto fermo della linea generale dell’UEF è rappresentato dal concepire l’unità europea come una tappa fondamentale e un impulso decisivo verso l’unità mondiale. L’idea di “un’Europa unita in un mondo unito” significa in sostanza individuare nella kantiana pace universale l’obiettivo ultimo della lotta federalista e rifiutare quindi qualsiasi forma di nazionalismo paneuropeo. Questo orientamento non poté tradursi per molto tempo in un legame con l’organizzazione dei federalisti mondiali, dal momento che essi erano contrari alle unificazioni regionali. Ma la situazione è cambiata a partire dagli anni Ottanta e si è infine giunti, in occasione del (V.) congresso dell’UEF (Genova, 19-21 marzo 2004), alla sua adesione al World federalist movement.

Il terzo aspetto rilevante nell’orientamento generale dell’UEF è il rapporto fra la corrente federalista integrale e il federalismo istituzionale. La prima corrente si rifà agli insegnamenti di Pierre Joseph Proudhon ed ha avuto nel francese di origine russa Alexandre Marc il suo massimo esponente all’interno dell’UEF, di cui fu il primo segretario generale. Il federalismo integrale, che ebbe un peso prevalente nei primi anni di vita dell’UEF, è caratterizzato fondamentalmente dalla convinzione che il sistema federale debba avere come sue componenti basilari non solo le entità di carattere territoriale (dai comuni alle unioni di Stati), ma anche quelle di natura funzionale-professionale.

La corrente istituzionalista ha in Alexander Hamilton (teorico dello Stato federale e uno dei padri fondatori degli Stati Uniti d’America, cioè del primo Stato federale della storia) la sua stella polare e in Altiero Spinelli il suo punto di riferimento principale nelle file dell’UEF. Secondo questa corrente, le unità costitutive del sistema federale non possono essere che le istituzioni di natura territoriale. L’orientamento istituzionalista acquisì un peso preminente nell’UEF a partire dal 1949 e fece prevalere il principio secondo cui l’organizzazione dei federalisti deve proporsi di riunire tutti coloro che sono favorevoli alla federazione europea, anche se hanno diversi orientamenti ideologici, comunque appartenenti all’arco democratico. Le tesi dei federalisti integrali, va sottolineato, sono rimaste comunque una componente del patrimonio teorico dell’UEF. Esse hanno fornito in particolare un grande contributo alla definizione del modello economico-sociale europeo imperniato sulla sintesi fra competitività e solidarietà (l’economia sociale di mercato recepita nella Costituzione europea), e pertanto diverso e originale rispetto al modello americano e a quello proprio del sistema economico-sociale collettivistico. Vanno qui soprattutto ricordati i principi del minimo sociale garantito e del servizio civile obbligatorio elaborati dai federalisti integrali già negli anni Trenta.

Il quarto aspetto da ricordare in riferimento alla linea generale dell’UEF è l’idea dell’Europa unita come terza forza fra USA e URSS. Questa parola d’ordine sottolineava in generale il contributo che l’unificazione europea era chiamata a dare alla pacificazione non solo dell’Europa, ma del mondo, ed esprimeva in particolare la volontà di contrastare la divisione dell’Europa in blocchi contrapposti e lo scoppio della guerra fredda. A questo riguardo ci fu, a partire dal primo congresso dell’UEF svoltosi a Montreux dal 27 al 30 agosto 1947, una evoluzione che si espresse nella formula «cominciare in Occidente», coniata dall’olandese Hendrik Brugmans, che fu il primo presidente dell’Ufficio esecutivo dell’UEF e rettore del Collegio d’Europa di Bruges dal 1950 al 1972. Con questa parola d’ordine si prese atto che la formazione dei blocchi era la conseguenza oggettiva del crollo dell’Europa e della formazione di un sistema bipolare dominato dalle due superpotenze. Nello stesso tempo divenne chiaro che l’unificazione europea poteva essere avviata solo nella zona di influenza occidentale, perché in tale quadro il sistema egemonico era meno rigido e la potenza guida americana favoriva con il Piano Marshall, in funzione della politica di contenimento dell’URSS, l’integrazione europea (v. Integrazione, Teorie della; Integrazione, Metodo della). Si precisò d’altra parte che, se nell’Europa occidentale si fosse perseguita con determinazione l’unità sopranazionale, questa avrebbe cambiato l’equilibrio Est-Ovest, messo in crisi il blocco sovietico e aperto la strada all’unificazione di tutta l’Europa. La validità di questa impostazione è stata confermata dal processo storico e l’Unione europea esprime un orientamento in favore di una partnership ugualitaria USA-UE e di un proprio ruolo autonomo ed incisivo per la pace nel mondo. Ciò emerge in particolare nel documento “Un’Europa più sicura in un mondo migliore” approvato dal Consiglio europeo nel 2003, su proposta dell’Alto rappresentante per la Politica estera e di sicurezza comune, Javier Solana. Il rapido avanzamento verso una federazione in senso pieno è d’altro canto la premessa imprescindibile perché l’UE possa perseguire efficacemente questo orientamento.

Il quinto aspetto da prendere qui in considerazione è rappresentato infine dalla linea strategica dell’UEF. Si può dire che l’UEF è giunta nel 1949 a definire, fondamentalmente sulla base delle riflessioni di Spinelli, un orientamento che da allora ha costituito, pur con gli adeguamenti alle diverse situazioni concrete, la struttura portante della strategia della lotta per la federazione europea. Quattro sono gli elementi fondamentali da sottolineare a questo riguardo. I governi nazionali democratici sono allo stesso tempo strumenti e ostacoli rispetto all’unificazione europea. Sono strumenti nel senso che sono costretti dalla crisi storica degli Stati nazionali, che ha fatto emergere l’alternativa “unirsi o perire” (l’incapacità strutturale di affrontare i problemi di fondo della nostra epoca senza una collaborazione sempre più profonda ed estesa fra di loro), ad attuare una politica di integrazione europea. Sono nello stesso tempo ostacoli perché la tendenza oggettiva alla conservazione del potere nazionale li spinge a scelte che rinviano sine die una piena federalizzazione, indispensabile per realizzare una unità europea irreversibile, democratica ed efficiente. Questa contraddizione può essere superata solo con l’intervento di una forza politica federalista autonoma dai governi e dai partiti, e quindi capace di esercitare una pressione democratica che spinga i governi a compiere la scelta pienamente federale che spontaneamente non sono in grado di fare.

La forza federalista deve riunire tutti coloro che sono favorevoli alla federazione europea, avere carattere sopranazionale ed essere in grado di mobilitare efficacemente l’opinione pubblica. Lo strumento insostituibile con cui i federalisti possono imporre la scelta federale è l’assemblea costituente, secondo il modello della Convenzione di Filadelfia che ha dato vita alla Costituzione federale americana. Il metodo della costituente europea è caratterizzato, a differenza di quello della conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative), da tre principi fondamentali: nella costituente deliberano i rappresentanti dei cittadini, che sono nella grande maggioranza favorevoli all’unificazione europea, e non i governi che sono spinti a difendere il potere nazionale; si decide a maggioranza (v. Maggioranza qualificata) e in modo trasparente, mentre la conferenza intergovernativa delibera con Voto all’unanimità e in segreto; è possibile la ratifica a maggioranza che supera il diritto di veto nazionale.

Per far passare la scelta federale e costituente, i federalisti devono saper sfruttare i deficit di efficienza (decisioni unanimi sulle questioni fondamentali) e di democrazia (v. Deficit democratico) (svuotamento dei meccanismi democratici nazionali non accompagnato dalla formazione di un vero sistema democratico sopranazionale) che caratterizzano l’integrazione portata avanti dai governi e che sono destinati a produrre situazioni critiche nelle quali la mobilitazione dell’opinione pubblica può imporre l’alternativa costituente democratica.

Dalla campagna per il Patto federale europeo a quella per la Comunità politica europea (1950-1954).

L’UEF fu guidata in questa fase da una specie di triunvirato formato dal francese Henri Frenay, dal presidente della Europa Union tedesca, Eugen Kogon e da Spinelli, e coadiuvato dalla segreteria generale affidata dal 1950 al 1958 all’italiano Guglielmo Usellini. Due furono gli impegni federalisti fondamentali in quegli anni.

Il primo fu la campagna per il Patto federale europeo. Essa consistette nel tentativo di trasformare l’Assemblea consultiva del Consiglio d’Europa (la cui nascita aveva le sue radici nel Congresso dell’Aia) nell’assemblea costituente della federazione europea. Lo strumento fondamentale fu una petizione in cui si chiedeva all’Assemblea consultiva di redigere un testo di patto federale e di raccomandarne la ratifica agli Stati membri del Consiglio d’Europa. Questi avrebbero dovuto impegnarsi a farlo entrare in vigore non appena esso fosse stato ratificato da un numero di Stati con una popolazione complessiva di almeno cento milioni di abitanti. La petizione nel corso del 1950 fu firmata da oltre 500.000 cittadini italiani, da 1/3 dei 30.000 sindaci francesi e ottenne in Germania le adesioni della larghissima maggioranza dei cittadini in occasione di referendum organizzati, con la collaborazione delle amministrazioni comunali, a Breisach, Castrop-Rauxel, Monaco, Bad-Reichenall e Traunstein.

La campagna per il Patto federale non raggiunse il suo obiettivo, ma pose le basi per realizzare la seconda e assai più incisiva azione di questa fase, che fu imperniata sull’art. 38 della Comunità europea di difesa (CED) e sulla Comunità politica europea (CEP) e in cui gli interlocutori fondamentali dei federalisti a livello dei governi furono Robert Schuman, Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi. Quando, in connessione con la ricostruzione della Germania occidentale, si dette vita su impulso di Jean Monnet alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) e si aprirono le trattative sulla CED, l’azione dell’UEF fu determinante per ottenere il collegamento (tramite l’art. 38 della CED) fra la creazione dell’esercito europeo e l’attribuzione all’Assemblea parlamentare della CECA (definita per l’occasione Assemblea ad hoc) del compito di redigere un progetto di unione politica.

Il progetto della CEP, presentato nel marzo 1953, avrebbe inquadrato in un sistema con forti, anche se non piene caratteristiche federali, la CECA, la CED e il disegno – sostenuto in particolare dal ministro olandese Johan Willem Beyen – di un’integrazione economica complessiva. La sua accettazione avrebbe quindi creato premesse assai solide per un rapido avanzamento verso lo Stato federale europeo. La CEP non giunse però in porto perché era legata alla CED, che fu bocciata dall’Assemblea nazionale francese il 30 agosto 1954.

La divisione dei federalisti di fronte ai Trattati di Roma (1955-1963).

La grave crisi legata alla caduta della CED non fece venir meno nei governi dei paesi fondatori della CECA la spinta a continuare la politica di integrazione europea, che aveva la propria radice profonda nella strutturale inadeguatezza degli Stati nazionali ad affrontare i problemi di fondo. Prevalse d’altra parte la scelta di portare avanti l’integrazione comunitaria solo sul terreno economico che, a differenza di quello politico-militare, non avrebbe posto fin dall’inizio il problema di trasferire gli aspetti fondamentali della sovranità a istituzioni sopranazionali. Il rilancio deciso a Messina (v. Conferenza di Messina) nel giugno 1955, sulla base di proposte di Monnet e dei governi del Benelux, portò alla firma il 25 marzo 1957 a Roma (v. Trattati di Roma) dei Trattati istitutivi della Comunità europea per l’energia atomica (CEEA o Euratom) e della Comunità economica europea (CEE). Pur non essendo indicato nei Trattati di Roma – a differenza dalla Dichiarazione Schuman (v. Piano Schuman) del 9 maggio 1950 – l’obiettivo della federazione europea, la convinzione che guidava i loro ispiratori (in particolare Monnet e Spaak) era che l’avanzamento dell’integrazione economica avrebbe portato al rafforzamento degli embrioni federali (Commissione europea autonoma dai governi, diritto comunitario e ruolo della Corte di Giustizia delle Comunità europee, Parlamento europeo di cui era prevista l’elezione diretta (v. Elezioni dirette del Parlamento europeo), passaggio al voto a maggioranza nel Consiglio dei ministri) presenti nel sistema comunitario e, quindi, al successivo passaggio dall’integrazione economica a quella politica.

Di fronte a questa nuova fase del processo di integrazione europea i federalisti si divisero. Da una parte, la grandissima maggioranza dei federalisti tedeschi, guidati da Ernst Friedländer (1895- 1973), e di quelli olandesi, guidati da Brugmans e il movimento francese La Fédération, guidato da André Voisin (1918-1999), ritenne che si dovesse puntare sulla dinamica messa in moto dalle nuove Comunità, e in particolare dalla CEE. I federalisti dovevano accettare una impostazione gradualistica e, quindi, sostenere attivamente l’integrazione economica e impegnarsi a favore del rafforzamento degli embrioni federali del sistema comunitario. L’obiettivo dell’assemblea costituente doveva essere perseguito in una fase più avanzata dell’integrazione europea a cui i Trattati di Roma avrebbero portato. Dall’altra parte, Spinelli (che si portò dietro la maggioranza dei federalisti italiani, francesi e belgi) era convinto che le Comunità europee non fossero in grado di realizzare progressi rilevanti dell’integrazione europea. Di conseguenza i federalisti dovevano criticare in modo intransigente queste iniziative dei governi e contrapporre ad esse con una grande azione di mobilitazione popolare – l’elezione nel maggior numero possibile di città europee di un Congresso del popolo europeo, che si ispirava all’esperienza del Congresso del popolo indiano guidato da Gandhi – la rivendicazione della federazione europea e della costituente come unico mezzo efficace per realizzarla. Poiché l’alternativa “unirsi o perire” costituiva una situazione esistenziale per gli Stati nazionali, la rivendicazione federalista avrebbe avuto la possibilità di imporsi quando fosse diventata evidente l’inadeguatezza del sistema comunitario. D’altra parte, le rivendicazioni della federazione e della costituente sarebbero scomparse dal panorama politico se i federalisti non avessero svolto una costante azione dal basso e si fossero limitati all’appoggio delle iniziative governative.

Questa divergenza, non sugli obiettivi di fondo ma sull’approccio strategico, portò alla divisione dell’UEF e alla formazione di due organizzazioni che fino al 1963 proseguirono ciascuna per la propria strada. I sostenitori della linea Brugmans-Friedländer dettero vita nel 1956 all’Azione europea federalista (AEF), cioè a una struttura di coordinamento raggruppante l’Europa Union tedesca, il Movimento federalista olandese, la Fédération, la Féderal Union britannica e altri piccoli gruppi federalisti in Belgio, Lussemburgo, Danimarca e Italia. La linea di Spinelli si tradusse, sul piano politico-organizzativo, nella trasformazione nel 1959 dell’UEF nel Movimento federalista europeo sopranazionale (MFEs). Questa organizzazione aveva una struttura fortemente centralizzata composta dalle sezioni regionali, che esprimevano direttamente gli organismi europei, mentre a livello nazionale esistevano solo commissioni di coordinamento. Il MFEs operò soprattutto in Italia, Francia e Belgio, fu presente in Germania e Austria ed ebbe come associati i federalisti svizzeri e lussemburghesi. L’azione fondamentale dei federalisti spinelliani consistette nel raccogliere fra il 1957 e il 1962 il voto di circa 640.000 cittadini per il Congresso del popolo europeo e quindi per la costituente europea.

La lotta per l’elezione diretta del Parlamento europeo e la ricostituzione dell’UEF (1964-1973).

A partire dal 1964 il MFEs e l’AEF cominciarono a collaborare in modo progressivamente più intenso e giunsero infine alla riunificazione nella nuova UEF nel 1973. Alla base di questo processo ci fu una evoluzione della linea politico-strategica di entrambe le organizzazioni nei confronti dell’integrazione comunitaria.

Di fronte all’esperienza del successo dell’integrazione economica, nonostante la Francia fosse guidata da un uomo come Charles de Gaulle, programmaticamente contrario all’unificazione sopranazionale, i federalisti del MFEs si convinsero che il sistema comunitario fosse assai più solido di quanto avevano immaginato al momento del rilancio di Messina. Ritennero perciò che l’alternativa federalista dovesse essere perseguita puntando sull’evoluzione della CEE e non sul suo crollo. Questa evoluzione, cioè lo sviluppo degli embrioni federali del sistema comunitario, che avrebbe aperto la possibilità di attivare un processo costituente dell’unità federale europea, non poteva d’altra parte essere affidata semplicemente all’automatismo funzionalistico (v. Funzionalismo). Per superare le fortissime tendenze al mantenimento della sovranità nazionale, che si manifestavano soprattutto, ma non soltanto, nella linea confederalista di de Gaulle, i federalisti dovevano attuare una azione continuativa e sistematica di mobilitazione dell’opinione pubblica e fare leva sulle contraddizioni dell’integrazione derivanti dai suoi deficit sul piano dell’efficienza e della democrazia.

Per quanto riguarda i federalisti dell’AEF, essi superarono il loro atteggiamento quietistico di fiducia nel passaggio pressoché automatico dall’integrazione economica a quella politica e di sostegno piuttosto acritico dell’azione dell’eurocrazia e delle iniziative dei governi. Essi si convinsero in effetti della necessità che il lavoro di consulenza nei confronti della classe politica fosse integrato da una azione più militante a favore delle rivendicazioni federaliste e da un serio e tenace sforzo di mobilitazione dei cittadini. La piattaforma fondamentale sulla quale si realizzò la convergenza e quindi la riunificazione dei federalisti fu la campagna per l’elezione diretta del Parlamento europeo (PE). L’elezione europea, che era prevista dai trattati comunitari (v. Trattati), veniva incontro alla necessità obiettiva di coinvolgere i cittadini europei in un processo integrativo che progrediva in modo tecnocratico e metteva quindi in discussione il principio di legittimità democratica proprio degli Stati membri. L’elezione diretta non era legata ad un automatico rafforzamento dei poteri del PE – proprio per questo era più facile superare la resistenza alla sua attuazione – ma avrebbe fatto nascere una fortissima dinamica in questa direzione in connessione con la formazione di un sistema partitico europeo (v. Partiti politici europei) e la necessità di mantenere gli impegni assunti nella campagna elettorale europea. In sostanza, l’elezione europea avrebbe aperto la strada a sviluppi federali attraverso l’assunzione da parte del PE di un ruolo costituente permanente.

La campagna per l’elezione europea – condotta in stretta collaborazione con il Movimento europeo, che dal 1968 al 1972 fu presieduto dall’ex presidente della Commissione della CEE Walter Hallstein – si svolse senza interruzioni con l’attuazione di diverse iniziative di mobilitazione dell’opinione pubblica. Vanno ricordate in particolare: l’Azione frontiere, che ebbe come promotori i federalisti tedeschi; il Fronte democratico europeo, promosso dai federalisti francesi; la proposta di legge di iniziativa popolare (sottoscritta da 65.000 cittadini con firme autenticate) per l’elezione diretta dei rappresentanti italiani nel PE, presentata nel 1969 al Senato dal MFE italiano guidato da Mario Albertini; le manifestazioni con migliaia di partecipanti organizzate con la JEF, e definite contro- Vertici, a Roma nel giugno 1967, all’Aia nel dicembre 1969 e a Parigi nell’ottobre 1972 in occasione delle Conferenze dei capi di Stato e di governo dei paesi comunitari tenutesi in queste città.

La lotta per l’elezione diretta del PE fece da sfondo alla ricostituzione dell’UEF, che fu proclamata dal congresso di Bruxelles del 13-15 aprile 1973. Si dette vita ad una organizzazione che, a differenza del MFEs, era fondata sulle organizzazioni nazionali, ma aveva una struttura federale e non era un semplice organo internazionale di collegamento, come era stata la prima UEF e ancor più l’AEF. Come presidente fu eletto il francese Étienne Hirsch (che era stato presidente della Commissione esecutiva dell’Euratom ed era stato silurato da de Gaulle per il suo atteggiamento federalista, e nel 1964 era diventato presidente del MFE) e come segretario generale fu nominata l’italiana Caterina Chizzola, che ricoprì tale carica fino al 1990. Il preambolo dello statuto della nuova UEF definiva Kant, Hamilton e Proudhon come padri del federalismo e indicava fra i documenti fondamentali di riferimento: le direttive della Federal Union del 1939; i principi per una nuova Europa della Europa Union svizzera del 1940; il Manifesto di Ventotene del 1941; la Dichiarazione dei resistenti europei di Ginevra del 1944; il programma di Hertenstein del 1946; la Dichiarazione del congresso dell’UEF di Montreux del 1947; la Dichiarazione politica del congresso dell’Europa Union tedesca del 1949; la Carta federalista, fatta approvare dai federalisti integrali nel congresso del MFEs di Montreux del 1964; il documento approvato dal congresso di Nancy del MFEs del 1972.

Dall’elezione diretta del Parlamento europeo al progetto di costituzione promosso da Spinelli all’Atto unico europeo (1974-1986).

Dopo un decennio di campagna popolare federalista a favore dell’elezione diretta del PE, il Vertice di Parigi del dicembre 1974 assunse finalmente l’impegno di realizzare questo obiettivo. La pressione dei federalisti ebbe successo, e non è un caso, in una fase di seria crisi dell’integrazione europea. Nella prima metà degli anni Settanta fallì in effetti il primo progetto di Unione economica e monetaria, che era stato lanciato senza affrontare simultaneamente, come chiedevano i federalisti, il problema del rafforzamento delle istituzioni comunitarie.

In un contesto di crescente instabilità monetaria e di stagnazione economica emerse la concreta possibilità che i risultati dell’integrazione economica fino ad allora ottenuti andassero perduti. L’interesse vitale per l’integrazione fece scattare nei governi della Comunità, che aveva cominciato il suo allargamento, il riflesso unitario. Ci si rese conto che l’integrazione non poteva andare avanti senza il coinvolgimento dei partiti e dell’opinione pubblica. Dopo aver ottenuto l’impegno ad attuare l’elezione europea, l’UEF concentrò la sua capacità di azione nell’ottenere che questo impegno fosse mantenuto, il che avvenne nel 1979.

L’attività di consulenza e di supporto nei confronti dei decisori si accompagnò a una serie di manifestazioni pubbliche con migliaia di partecipanti, le più importanti delle quali furono: la manifestazione in occasione del Consiglio europeo di Roma del dicembre 1975, in cui si decise che l’elezione europea si sarebbe tenuta anche se il Regno Unito e la Danimarca non vi avessero partecipato (alla fine parteciparono); la manifestazione in occasione del Consiglio europeo di Bruxelles del giugno 1976, che decise il numero di parlamentari europei da eleggere. Le aspettative di rilancio dell’integrazione suscitate dalla decisione sull’elezione europea – occorre qui ricordare – permisero l’istituzione del Sistema monetario europeo (SME), voluto in particolare dal presidente francese Valéry Giscard d’Estaing e dal cancelliere tedesco Helmut Schmidt, e fortemente appoggiato dall’UEF. Lo SME, creando una relativa stabilità monetaria, invertì la tendenza al regresso dell’integrazione economica.

Dopo l’elezione del 1979 il nuovo campo di azione dell’UEF fu il sostegno all’assunzione da parte del PE di un ruolo costituente. Qui si realizzò una perfetta sinergia fra l’azione di Spinelli (che dopo essere stato eurocommissario era diventato europarlamentare) all’interno del PE e quella dell’UEF all’esterno per coinvolgere i cittadini, le forze politiche e sociali, gli enti locali. Sotto l’impulso di Spinelli, il PE giunse dopo alcuni anni di lavoro ad approvare il 14 febbraio 1984 un progetto di Costituzione contenente progressi decisivi in direzione federale e in cui, in particolare, si prevedeva la ratifica a maggioranza (come per la Costituzione di Filadelfia). Il contributo dell’UEF (guidata da Albertini dal 1975 al 1984 e poi dal britannico John Pinder fino al 1990) all’iniziativa del PE si manifestò con una azione sistematica e capillare, di cui ricordiamo qui come momenti particolarmente importanti: la manifestazione con 5.000 partecipanti a Strasburgo il 17 luglio 1979 di fronte alla sede del PE in occasione della prima seduta dopo l’elezione di giugno; il congresso del Movimento europeo presieduto da Giuseppe Petrilli a Bruxelles il 24 marzo 1984; la manifestazione in occasione del Consiglio europeo di Fointainebleau del 25 giugno 1984 (v. anche Accordi di Fontainebleau); l’approvazione di risoluzioni a favore del progetto del PE da parte dei Parlamenti italiano, tedesco e belga; la spettacolare manifestazione di Milano (con i suoi 100.000 partecipanti si trattò della più grande manifestazione popolare della storia della lotta federalista) in occasione del Consiglio europeo del 28-29 giugno 1985, che decise a maggioranza la convocazione di una Conferenza intergovernativa per la revisione dei Trattati comunitari (v. Revisione dei trattati); la manifestazione in occasione del Consiglio europeo di Lussemburgo del dicembre 1985.

Il progetto del PE non fu accettato dai governi, ma, come affermato ebbe ad affermare più volte il Presidente della Commissione europea Jacques Delors, rappresentò un fattore di grandissima rilevanza nel processo che portò all’Atto unico europeo (AUE). L’AUE ha potuto rimettere in moto l’integrazione europea anche perché ha aperto una fase di riforme istituzionali, che hanno parzialmente recepito il progetto del PE.

L’impegno per l’unificazione monetaria e la Campagna per la democrazia europea (1987-1996).

Con l’entrata in vigore dell’AUE si realizzava un rilancio dell’integrazione europea, che ebbe come manifestazioni fondamentali la quasi completa realizzazione del. Mercato unico europeo e l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht (TDM) nel 1993. Con il TDM si dava vita all’Unione europea (UE), che avviava l’estensione, su base intergovernativa (v. Cooperazione intergovernativa), dell’integrazione ai settori della politica estera, di sicurezza e difesa (v. Politica europea di sicurezza e difesa), della Giustizia e affari interni, e soprattutto realizzava l’unificazione monetaria. Questi sviluppi, accompagnati da importanti avanzamenti sul piano istituzionale (in particolare: rafforzamento dei poteri del PE, estensione del voto a maggioranza da parte del Consiglio, cittadinanza europea), vennero promossi soprattutto dal presidente della Commissione europea Jacques Delors, dal presidente francese François Mitterrand e dal cancelliere tedesco Helmut Josef Michael Kohl. Decisivo fu d’altra parte il cambiamento epocale del quadro internazionale, connesso con la caduta del Muro di Berlino (v. Germania), la fine della guerra fredda e la riunificazione tedesca. L’esigenza, che l’UEF ha sostenuto fin dalla sua nascita, di collegare organicamente la ricostruzione della Germania alla creazione di una comune sovranità europea, per realizzare il definitivo affratellamento fra i francesi e i tedeschi e tutti i popoli europei, rappresentò in effetti un fattore fondamentale dei progressi integrativi compiuti negli anni Novanta.

In questo contesto si colloca il ruolo svolto dall’UEF, che ebbe come presidente, dopo John Pinder, l’italiano Francesco Rossolillo, dal 1990 al 1997, e l’olandese Gerard Vissels come successore di Caterina Chizzola nella funzione di segretario generale. L’impegno più generale e comprensivo fu rappresentato dalla campagna per la democrazia europea attuata dal 1987 al 1996. Se l’obiettivo di fondo era (come sempre) la federazione europea e il metodo costituente democratico, le rivendicazioni concrete attraverso cui si articolava la campagna erano: l’eliminazione dei controlli ai confini fra i paesi della Comunità-Unione; il parallelismo fra allargamento e approfondimento; il rafforzamento del ruolo del PE e della Commissione e estensione del voto a maggioranza; il superamento del monopolio governativo della funzione costituente.

Gli aspetti più rilevanti della campagna per la democrazia europea furono: la raccolta di firme per petizioni alle autorità comunitarie; la presenza sistematica con migliaia di manifestanti in occasione dei più importanti consigli europei (Bruxelles 1987, Hannover 1988, Strasburgo 1989, Roma 1990, Maastricht 1991, Edimburgo 1992, Torino e Firenze 1996); il referendum consultivo sul ruolo costituente del PE, che venne chiesto dai federalisti con una proposta di legge di iniziativa popolare (con 120.000 firme autenticate) e che si svolse in Italia in coincidenza con le elezioni europee del 18 giugno 1989 (88% di voti a favore con una partecipazione al voto dell’82%); il sostegno alla ratifica del TDM e l’intervento particolarmente attivo nel difficile referendum tenutosi in Francia il 20 settembre 1992.

Nel quadro della campagna per la democrazia europea i federalisti, che fin dagli anni Sessanta erano intervenuti a favore della moneta europea (v. Euro) (ad esempio l’azione-frontiere del 1968 fu dedicata a questa rivendicazione), svolsero una azione specifica per favorire la partecipazione del maggior numero possibile di Stati membri dell’UE all’unificazione monetaria. Alla base di questo impegno c’era la considerazione che la moneta unica avrebbe reso più che mai urgente la necessità di un governo democratico europeo.

La Campagna per la Costituzione europea (1997-2006).

L’UEF ebbe come presidente dal 1997 al 2005 il tedesco Jo Leinen e come segretario generale il francese Bruno Boissiere. Nel 2005 diventava presidente l’italiana Mercedes Bresso e segretario generale l’austriaco Friedhelm Frischenschlager. A partire dal congresso di Vienna del 18-20 aprile 1997 la Costituzione federale europea e la costituente europea, da sempre la stella polare della lotta federalista, diventavano oggetto di una specifica campagna che costituisce il filo conduttore dell’azione svolta da allora e tutt’ora in corso. Alla base di questa scelta vi era la convinzione che l’UE, per il grado di integrazione raggiunto e per i problemi emersi nel mondo post-bipolare, si trovi di fronte a della sfide esistenziali. La costruzione della federazione europea, indicata nella Dichiarazione Schuman, e quindi l’attivazione di una procedura costituente democratica, sarebbero la condizione insostituibile per evitare di andare verso un’Europa disgregata e impotente. Le sfide esistenziali sono fondamentalmente: l’urgenza di integrare la moneta europea con un governo economico e sociale sopranazionale; l’allargamento, che è destinato a bloccarsi e a fallire senza un approfondimento che realizzi una efficace solidarietà fra paesi più avanzati e meno avanzati; l’esigenza pressante di una capacità dell’UE di agire efficacemente sul piano internazionale (il che implica la piena federalizzazione della politica estera, di sicurezza e di difesa) per poter fornire un contributo determinante alla creazione di un mondo più giusto e più pacifico.

Fondata su questa percezione, la campagna per la Costituzione federale europea avuto ebbe un momento particolarmente forte nella manifestazione del 7 dicembre 2000 a Nizza (in occasione del Consiglio europeo), a cui parteciparono 10.000 persone, fra cui centinaia di amministratori locali. Alle richieste dei federalisti e del PE i governi rispondevano con la convocazione della Convenzione europea presieduta da Giscard d’Estaing. In tal modo venivano recepiti alcuni aspetti del modello della costituente democratica: la partecipazione dei parlamentari europei e nazionali (già sperimentata con l’elaborazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea varata a Nizza); la trasparenza delle riunioni; l’ascolto della società civile (v. Forum della società civile; Società civile organizzata). Si manteneva però il principio della decisione finale unanime da parte dei governi e della ratifica unanime. I federalisti compirono ogni sforzo per favorire l’approvazione di un progetto di costituzione più avanzato possibile e considerarono il progetto finale insoddisfacente, ma comunque contenente importanti passi avanti in direzione del federalismo e della partecipazione democratica, e quindi un traguardo da cui ripartire immediatamente.

Si impegnarono quindi a fondo a favore della ratifica, che però venne bloccata dall’esito negativo dei referendum in Francia e in Olanda (v. Paesi Bassi), anche se il progetto stato venne comunque ratificato dalla maggioranza degli Stati e della popolazione dell’UE.

L’azione dell’UEF si trova ora di fronte al problema di come rilanciare il processo costituente. Poiché è il principio della unanimità, cioè del veto nazionale, che impedisce gli avanzamenti che sono drammaticamente urgenti, la scelta che si è compiuta è concentrata sullo scioglimento di questo nodo cruciale. L’obiettivo strategico della Campagna in questa fase è dunque ottenere che il progetto di Costituzione (rielaborato e migliorato per tener conto degli esiti dei referendum in Francia e Olanda) sia sottoposto a un referendum consultivo europeo nello stesso giorno delle elezioni europee del 2009 e che entri in vigore, fra i paesi ratificanti, se sarà stato approvato dalla doppia maggioranza degli Stati e della popolazione dell’UE (v. anche Duplice maggioranza).

Sergio Pistone (2005)