Vedel, Georges

V. (Auch 1910-Parigi 2002) è stato uno dei più importanti costituzionalisti francesi del XX secolo e un ascoltato consigliere di uomini politici. Agrégé in diritto nel 1936, insegnò nelle facoltà di diritto di Poitiers (1937) e Tolosa (1939), fu nominato professore alla facoltà di diritto di Parigi (dal 1948) nella cattedra di Diritto pubblico. Decano della facoltà di Diritto e scienze economiche di Parigi (1962-1967), V. fu autore di numerose pubblicazioni di diritto amministrativo, diritto costituzionale e scienza politica (Traité de droit constitutionnel, Traité de droit administratif).

Negli anni cinquanta V., di tendenza cristiano-democratica, frequentò i circoli degli intellettuali anticomunisti della rivista “Preuves”. In seguito, in numerosi interventi mise in luce le tare del parlamentarismo della IV Repubblica, diventando uno dei protagonisti del dibattito sulle istituzioni francesi. Agli inizi del decennio successivo partecipò al Club Jean Moulin e fu uno degli intellettuali che, pur opponendosi nel 1962 alla pratica del referendum di Charles de Gaulle, contribuì a far accettare l’idea dell’elezione diretta del Presidente della Repubblica nelle file del centrosinistra. Sostenitore della Costituzione della V Repubblica, ne criticò alcuni aspetti, in particolare il bicefalismo dell’esecutivo, diviso tra Presidente della Repubblica e primo ministro, e condusse una pluridecennale battaglia a favore della riduzione a cinque anni del mandato presidenziale.

Il suo impegno politico non gli impedì di essere apprezzato nel ruolo di arbitro e di saggio. Per citare solo i suoi mandati principali, si ricorda che nel 1968 presiedette la commissione incaricata dal ministero dell’Agricoltura di valutare le “Prospettive a lungo termine dell’agricoltura francese 1968-1985”, vale a dire l’impatto sul settore primario francese della politica agricola delineata in sede comunitaria; l’anno seguente entrò nel Consiglio economico e sociale (mandato rinnovatogli nel 1974); nel 1980 fu nominato membro del Consiglio costituzionale dal presidente Valéry Giscard d’Estaing; nel 1993 fu presidente del Comitato consultivo per la riforma della Costituzione.

Le convinzioni europeiste di V. rappresentarono uno dei suoi engagement più importanti e originali, rafforzate dalla lunga prigionia in Germania durante la Seconda guerra mondiale. La costruzione istituzionale della Comunità europea del carbone dell’acciaio (CECA) lo interessò anche per l’innovazione rappresentata dai suoi meccanismi giuridici. Negli anni 1955-1956 partecipò al Comitato d’azione per gli Stati Uniti d’Europa creato da Jean Monnet. Come consigliere tecnico del radicale Maurice Faure, segretario di Stato agli Affari esteri (1956-1958), V. fu il principale giurista della delegazione francese alle conferenze che prepararono i Trattati di Roma, specialmente di quella di Bruxelles; egli prese parte, in particolare, alla redazione del trattato sulla Comunità europea dell’energia atomica o Euratom, ricco di problemi giuridici, contribuendo alla stesura dei sei articoli riguardanti lo statuto di proprietà delle materie fissili.

Più tardi, tra il 1971-1972, V. presiedette il gruppo ad hoc di personalità indipendenti, rappresentanti tutti i membri della Comunità, designato dalla Commissione europea e avente l’assai ampio mandato di studiare la riforma delle Istituzioni comunitarie. Il rapporto del Gruppo V., sulla base del quale la Commissione presentò le proprie proposte al Consiglio dei ministri il 26 maggio 1972, mise in luce come il problema fondamentale del sistema comunitario fosse quello della legittimità: solo l’intervento nelle decisioni comunitarie di un organo parlamentare, legittimato direttamente dai cittadini dei paesi europei, poteva colmare tale lacuna (v. Rapporto Vedel). Secondo tale rapporto non era possibile aumentare i poteri del Parlamento europeo (PE) senza riforme sostanziali; si poneva, dunque, il problema generale di un potere di Codecisione del PE nelle materie legislative e di bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) e quello del suo intervento nella nomina dei membri della Commissione. Così lo stesso V. avrebbe commentato due anni più tardi: «Solo dal momento in cui il Parlamento si arricchisse di una dimensione politica lo stesso dialogo con la commissione diventerebbe reale […]. Solo l’accrescimento di poteri del Parlamento rimetterà in questione tutta la dialettica complicata nella quale esso gioca un ruolo che, secondo il parere di tutti, non è più adatto alle dimensioni di quello che è divenuta la comunità».

Lucia Bonfreschi (2010)




Veil, Simone

V. (Nizza 1927) nasce da una famiglia ebraica stabilitasi in Francia da diverse generazioni. Nel 1944 è arrestata e deportata ad Auschwitz-Birkenau. Solo due delle sue sorelle sopravvivranno alla prova della guerra e del campo di concentramento. Liberata nel gennaio 1945, si iscrive alla Facoltà di diritto di Parigi e segue i corsi dell’Institut d’Études politiques.

Dopo aver seguito il marito in Germania dal 1950 al 1953 e aver concluso gli studi di diritto, vince il concorso per entrare in magistratura nel 1957. Fino al 1970 ricopre diversi incarichi al ministero della Giustizia, fra l’altro nella direzione dell’amministrazione penitenziaria e poi in quella degli affari civili.

Pur interessandosi ai problemi dell’attualità e frequentando personalità del mondo politico, V. non ha incarichi politici in questo periodo e non milita in nessun partito. Dichiara di essersi appassionata all’esperienza di Pierre Mendès France e di essere attratta dalla novità rappresentata da “L’Express”. Senza essere gollista, ritiene che solo Charles de Gaulle sia in grado di risolvere la crisi algerina, lasciandosi convincere dai collaboratori del generale che quest’ultimo non è contrario all’indipendenza. Per spiegare questa sua reticenza nei confronti del generale e delle sue idee, V. scrive nelle sue memorie di non aver apprezzato l’uso del referendum come momento di verifica e di confronto della propria legittimità. Tuttavia sottolinea come sia stata la «freddezza», per non dire il «rifiuto», nei confronti dell’Europa di de Gaulle a rappresentare «sempre […] il freno essenziale» che l’ha «dissuasa dal votare per i gollisti».

Quindi, se pure V. non può essere considerata una gollista, nel 1969 vota ugualmente senza esitazioni per Georges Pompidou. A quest’epoca risalgono i suoi primi passi nella carriera politica, nella quale esordisce sotto il segno delle sue competenze tecniche. Il nuovo ministro della Giustizia René Pleven, che le aveva già proposto senza successo nel 1964 di assumere la segreteria di una commissione di studi all’Assemblea nazionale sull’adozione, questa volta le offre un posto di consigliere tecnico nel suo ministero. V. mantiene l’incarico per un anno, durante il quale fa pratica della vita parlamentare. Nel 1970 Pompidou la nomina segretario del Consiglio superiore della magistratura, poi nel 1972 è incaricata di rappresentare lo Stato nel consiglio d’amministrazione dell’Office de radiodiffusion-télévision française (ORTF).

Nel 1974 la carriera di V. subisce una brusca accelerazione quando Valéry Giscard d’Estaing, che intende dimostrare mediante l’adozione di una legge sull’aborto i cambiamenti tanto annunciati nella sua campagna presidenziale, decide di rivolgersi a lei. Fino al 1979 è nel governo come ministro della Sanità (7 maggio 1974-29 marzo 1977), poi della Sanità e della sicurezza sociale (29 marzo 1977-3 aprile 1978), poi della Sanità e della famiglia (3 aprile 1978-4 luglio 1979). La legge sull’interruzione volontaria della gravidanza viene adottata ed entra in vigore il 17 gennaio 1975.

Non è l’unico risultato della presenza di V. nel governo, ma è quello che contribuisce maggiormente ad accreditare tra i francesi l’immagine di un’esperta di questioni sanitarie (e più in generale sociali), ma soprattutto quella di una personalità forte e indipendente. Sullo scacchiere politico nazionale V. si colloca al centro: né troppo a destra (condanna con fermezza l’estrema destra, ma è anche contraria al conservatorismo di Raymond Barre e del suo governo e, in seguito, al liberalismo puro di Pasqua nel governo presieduto da Édouard Balladur, o al “sovranismo” della destra gollista in materia europea), né troppo a sinistra – profondamente anticomunista, non apprezza le derive della sinistra nel maggio del ’68 e, sebbene abbia votato più volte per la Section française de l’Internationale ouvrière (SFIO) sotto la IV Repubblica, non si riconosce affatto nel socialismo dell’era di François Mitterrand.

V. assume posizioni moderate nella maggior parte delle questioni, tuttavia mostrando sempre una forte sensibilità sociale. Malgrado i pochi mesi di impegno nelle file dell’Union pour la démocratie française (UDF), non è mai stata una donna di partito. Invece partecipa alle riunioni del “club Vauban”, che il marito ha fondato negli anni Ottanta e che coinvolge personalità di destra e di sinistra per tentare di gettare un ponte tra le diverse formazioni, in particolare sulle questioni europee.

Se quindi V. si fa una reputazione di esperta di questioni sociali, in particolare quelle legate alla sanità pubblica, l’Europa rappresenta l’altro risvolto delle sue battaglie politiche. Si tratta, ai suoi occhi, della «posta in gioco più importante da oltre mezzo secolo». Un’Europa la cui vocazione sia quella di costruire e mantenere la pace, salvaguardare e diffondere la democrazia, sviluppare la solidarietà tra i popoli, difendere i diritti e la dignità dell’uomo.

Come gran parte di quelli della sua generazione, che in un modo o nell’altro erano stati profondamente coinvolti nella Seconda guerra mondiale, V. considera l’Europa il solo mezzo per ricavare delle lezioni dal passato. All’indomani della guerra l’intesa franco-tedesca, in particolare, rappresentava una premessa necessaria alla ripresa di un continente devastato dalla “guerra dei trent’anni” e minacciato dalla Guerra fredda: l’Europa doveva rappresentare la cornice di questa riconciliazione.

In principio V. milita a favore di un’Europa federale e si rammarica per il rifiuto della Comunità europea di difesa (CED), che è stata secondo le sue stesse parole una delle sue «convinzioni [politiche] più incrollabili» dell’epoca. Ostile al “sovranismo” dei gollisti, convinta che la sopravvivenza del vecchio continente, la sua capacità di restare un attore di primo piano sulla scena internazionale, dipendano ampiamente dalla capacità di sviluppare un mercato comune e una politica estera almeno in parte comune anche che la costruzione europea per la quale V. milita da sempre a suo avviso non è «in contraddizione con solide relazioni atlantiche».

A partire dagli anni Ottanta, le sue posizioni federaliste si attenuano gradualmente (v. Federalismo) e V. si pronuncia a favore di una “confederazione intergovernativa”. Quest’evoluzione è determinata da pragmatismo e realismo: gli allargamenti successivi – ai quali dà tutto il suo appoggio, a eccezione della Turchia (e, all’epoca, della Grecia, il cui ingresso era a suo parere prematuro) – rendono la realizzazione di una federazione sempre più complicata (v. anche Allargamento). Fra l’altro i primi nuovi membri, in particolare il Regno Unito e la Danimarca, tradizionalmente ostili alla sovranazionalità e più atlantisti che europeisti, avevano rafforzato il peso dei sostenitori di un’Europa intergovernativa. Inoltre, dalla fine degli anni Ottanta, V. ritiene che l’evoluzione delle mentalità si muova in direzione di un’accentuazione dell’attaccamento all’identità nazionale. Un attaccamento che ora è molto più forte di vent’anni prima, malgrado la crescita dei fenomeni migratori e della circolazione diffusa di persone e informazioni. I rischi di un rigurgito di nazionalismo o semplicemente di predominio degli interessi nazionali su quelli comunitari sono stati accentuati, secondo V., dal Trattato di Nizza, che concedendo a ogni membro un solo commissario, ha fortemente squilibrato il sistema voluto dai padri fondatori in cui è riconosciuto il peso dei grandi paesi.

Se per tentare di risolvere le difficoltà politiche dell’Europa V. è favorevole a mettere in risalto i fondamenti di un’identità europea condivisa da tutti, sottolinea tuttavia quanto sia difficile trovare i riferimenti culturali comuni (in particolare, il riferimento alle radici cristiane è a suo avviso inadeguato a causa del declino della pratica religiosa). Tanto più che «l’Europa non deve incarnarsi in un semplice strumento di potenza sul piano industriale, quanto piuttosto affermarsi come un modello senza precedenti nella Storia della nostra civiltà».

Per quanto riguarda la sua carriera in senso stretto, V. entra in contatto una prima volta con le Istituzioni comunitarie come segretario del Consiglio superiore della magistratura (1970), quando in questa veste rappresenta la cancelleria nelle commissioni del Consiglio d’Europa. Ma il vero debutto risale all’estate 1979, quando su richiesta di Giscard guida la lista dell’Union pour la France et l’Europe (UDF) nelle prime Elezioni dirette del Parlamento europeo a suffragio universale. Pur essendo una figura politica atipica, senza alcuna esperienza elettorale e ai margini dei partiti, V. gode di una grande popolarità, soprattutto fra le donne.

L’elezione è un successo a livello nazionale: la lista UDF supera ampiamente i suoi concorrenti, in particolare i gollisti (l’UDF ottiene il 27,5% dei suffragi, il Partito socialista il 23,5%, il Partito comunista il 20,5% e il Raggruppamento per la Repubblica il 16,2%). V. abbandona il governo per dedicarsi al nuovo compito e Giscard fa tutto quanto è in suo potere per farla eleggere presidente del Parlamento europeo.

Inoltre, il prolungamento della presidenza di Emilio Colombo fino alle elezioni del 1979 era la contropartita di un accordo fra democratici cristiani e liberali: i loro voti sarebbero andati al candidato liberale alla presidenza del Parlamento e in cambio, la volta successiva, i voti liberali sarebbero confluiti sul candidato democratico cristiano. L’accordo viene confermato in luglio, anche se la candidatura di V. incontra parecchie resistenze. Gaston Thorn, presidente dell’Internazionale liberale e sostenuto da numerosi liberali, aspira alla carica (è necessario un voto interno al gruppo liberale per designare il candidato). Democratici cristiani (soprattutto tedeschi e italiani) e conservatori sono sensibili al fatto che V. aveva fatto adottare in Francia la legge sull’aborto. Secondo una testimonianza di Jean Lecanuet, tuttavia, all’epoca presidente dell’UDF e deputato europeo (testimonianza confermata da Pierre Pflimlin nelle sue memorie), in particolare gli italiani sono ostili alla sua candidatura, non tanto nei confronti della «Signora aborto», quanto nei confronti di Giscard che sospettano di voler stabilire un asse franco-tedesco ai loro danni. Quindi sarà necessario un intenso lavoro di Giscard e dei suoi collaboratori con numerosi parlamentari – e due turni di scrutinio – per riuscire a eleggere V., con una maggioranza molto risicata (3 voti in più della soglia richiesta).

Dopo un esordio difficile, in particolare per l’ostruzionismo messo in atto dalle formazioni di minoranza (soprattutto il Partito radicale italiano) allo scopo di farsi riconoscere il diritto di costituirsi come gruppo, o per il rinvio, in mancanza di accordo, della designazione delle commissioni, V. orienta la sua azione nel senso di una ridefinizione del regolamento del Parlamento, per adattarlo alle novità introdotte dall’elezione a suffragio universale (il nuovo regolamento alla fine è adottato nel 1981), di un rafforzamento dell’immagine del Parlamento in Europa e fuori dall’Europa, di un’affermazione dell’autorità del Parlamento all’interno delle istituzioni europee.

Nel discorso inaugurale V. aveva dichiarato che «la nuova autorità del Parlamento» (sulla base dei Trattati del 1970 e del 1975 che gli attribuiscono più ampi poteri finanziari) l’avrebbe portato a «rafforzare la propria azione in due campi: da un lato, esercitare più democraticamente la sua funzione di controllo, dall’altra svolgere con maggior vigore un ruolo di impulso alla costruzione comunitaria». Nel primo caso intendeva il controllo del bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) e della politica generale, nel secondo il rafforzamento del lavoro in comune tra le diverse istituzioni, nel rispetto dell’autonomia di ciascuna di esse, mediante consultazioni ma anche nel quadro della nuova procedura di concertazione che permette al Parlamento di partecipare alle decisioni (v. Decisione) legislative delle comunità.

V. cerca di rafforzare l’autorità del Parlamento rifiutando di firmare il piano di spesa della Comunità economica europea (CEE) per il 1980. In effetti, il Parlamento aveva la prerogativa di votare il bilancio (dal 1975 approva definitivamente il bilancio e può respingerlo), ma l’unico potere reale all’epoca riguarda il controllo delle spese non obbligatorie (sulle quali può dire l’ultima parola dal 1970). Il 13 dicembre 1979 gli eurodeputati, a larga maggioranza, respingono il bilancio del 1980 presentato dal Consiglio dei ministri. Avevano chiesto che nel quadro delle spese non obbligatorie fosse previsto un aiuto contro la fame nel mondo. Di fronte al rifiuto di V. di firmare il piano di spesa il governo francese, che si era mostrato il più contrario alle richieste dei parlamentari, decide di presentare un ricorso davanti alla Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) (Mitterrand in seguito lo ritirerà).

V. tenta anche di rafforzare l’autorità del Parlamento prendendo posizione su diverse questioni. In occasione di un viaggio ufficiale negli Stati Uniti, alla fine del gennaio 1980, si dichiara favorevole al boicottaggio dei Giochi olimpici di Mosca in risposta all’intervento sovietico in Afghanistan. È la posizione degli Stati Uniti, ma gli Stati europei sono divisi sull’argomento. Il 16 gennaio il Parlamento aveva adottato una risoluzione in cui si limitava a condannare l’ingerenza sovietica. Alla fine, il 15 febbraio, dopo molte polemiche il Parlamento adotta una seconda risoluzione in cui precisa la propria posizione, chiedendo ai governi dei Nove di pronunciarsi a favore del boicottaggio. Difficilmente avrebbe potuto spingersi più in là.

Il 19 gennaio 1982 V. restituisce il suo mandato, come prevede l’accordo tacito fra i gruppi democratico-cristiano e liberale per una presidenza di avvicendamento a metà mandato (30 mesi). Dopo aver esitato a ripresentarsi, alla fine ritira la propria candidatura. Quindi assume la presidenza della commissione giuridica del Parlamento e partecipa anche attivamente all’Internazionale liberale e alla Federazione dei partiti liberali europei. In occasione delle elezioni europee del 17 giugno 1984 impone e guida una lista unica di tutta la destra, Liste d’union pour la France en Europe. La “lista V.” ottiene il 43% dei suffragi, ossia la metà degli 81 seggi assegnati alla Francia. Quindi V. viene eletta presidente del gruppo liberale, democratico e riformista (v. anche Gruppi politici al Parlamento europeo). Dopo aver rifiutato, nel 1989, di ripetere l’esperienza della lista unica, preferendo una lista centrista che otterrà solo l’8,4% dei voti, dal 1989 al 1993 V. è una semplice deputata europea, che partecipa a molti incontri, in particolare con i paesi terzi, e a commissioni sui problemi posti dalla caduta del Muro di Berlino e dall’ingresso dei paesi dell’Est in Europa.

A partire dal 1993 l’azione politica di V. si inserisce nuovamente nella cornice nazionale, infatti è chiamata da Balladur come ministro incaricato degli Affari sociali, della Sanità e delle Aree urbane. Pur non avendo più un mandato elettivo nelle istituzioni europee, prosegue ugualmente la sua azione a favore dell’Europa. Non appena si libera delle funzioni ministeriali (nel 1995), propone la propria candidatura per il posto di mediatore, figura prevista dal Trattato di Maastricht, la cui designazione, tuttavia, era stata rinviata a causa di disaccordi. Alla fine non viene nominata, ma nel 1996 le viene chiesto di far parte della commissione internazionale per i Balcani sotto la presidenza di Léo Tindemans. Le viene proposto anche di guidare il Gruppo, creato nel gennaio 1996, incaricato di occuparsi dei problemi concreti di circolazione delle persone (v. Libera circolazione delle persone). Nel rapporto, presentato nel 1997, sono formulate 80 proposte per migliorare la legislazione esistente. Tuttavia, il Parlamento respinge con 245 voti contrari, 230 a favore e 57 astensioni la relazione di Anne Marie Schaffner sul rapporto V. Erano emerse, in particolare, divergenze sui diritti dei ressortissants dei paesi terzi.

Nel 1997-1998 V. è nominata presidente del Consiglio superiore per l’integrazione, poi membro del Consiglio costituzionale, incarico che manterrà fino al 2007. Secondo la stampa dell’epoca e la sua stessa testimonianza, l’allora presidente del Senato René Monory, al quale spettava il compito di assegnare uno dei posti di consigliere, l’aveva scelta anche per controbilanciare il peso degli altri due neofiti, Pierre Mazeaud e Yves Guena, entrambi noti per il loro “sovranismo”, in una fase in cui uno degli incarichi del Consiglio costituzionale sarebbe stato lo studio dell’adattamento della Costituzione all’Europa. Nelle sue memorie V. conferma che il problema della priorità del diritto comunitario sulla legislazione francese fu dibattuto molto a lungo in questa circostanza. Inoltre V. ha fatto parte di un gruppo di lavoro sulle «prospettive spirituali e culturali nell’Europa allargata».

Essendo tenuta al dovere di riservatezza come membro del Consiglio costituzionale, V. si mette in congedo dall’istituzione nel 2005 per potersi impegnare nella battaglia per il referendum del 29 maggio a favore del “sì”. Gli Stati erano ormai incapaci di difendere da soli i loro interessi di fronte della globalizzazione; la figura del presidente del Consiglio, eletto per due anni e mezzo, avrebbe dovuto permettere all’Europa di parlare con una voce sola sulla scena internazionale. Il Trattato che istituisce la Costituzione europea semplificava, inoltre, le istituzioni, rendendole più democratiche (gli atti legislativi sarebbero stati frutto di una Codecisione fra il Consiglio e il Parlamento). Infine, V. insiste fortemente sulla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: con il rigurgito di tensioni a livello internazionale, a suo parere, l’Europa deve affermarsi in quanto tale e farsi carico dei propri valori (in particolare la democrazia e la pace, ma anche la tolleranza, l’umanesimo, ecc.).

Christine Vodovar (2005)




Verheugen, Günter

V. (Bad Kreuznach, Renania-Palatinato 1944) consegue la maturità a Brühl (Renania settentrionale-Vestfalia) per poi intraprendere gli studi di scienze politiche, storia e sociologia, prima a Bonn e poi a Colonia. Tra il 1963 e il 1965 svolge un praticantato redazionale a Colonia e a Essen. Nel 1960 entra a far parte della Freie demokratische Partei (FDP) e dei Jungen Demokraten (giovani democratici) di cui è temporaneamente presidente regionale (Renania settentrionale-Vestfalia). Dal 1964 al 1968 cura la rivista dei giovani democratici “Stimmen der jungen Generation” (Voci della giovane generazione).

Le tappe principali della carriera politica di V. sono legate all’allora presidente della FDP Hans-Dietrich Genscher che, prima ministro degli Interni (1969) e poi degli Esteri (1974), gli conferisce importanti incarichi all’interno dei ministeri a lui affidati. I primi contatti fra i due risalgono al 1962.

A partire dal 1977 ricopre la carica di segretario amministrativo del partito fino poi a diventarne nel 1978 segretario generale; allo stesso tempo dirige la fondazione Friedrich-Naumann ed è membro dei comitati esecutivi, sia dei Liberali europei che dell’Unione mondiale dei liberali. In seguito si mette in luce come “programmatore politico” e si impegna per riformare da un punto di vista organizzativo la FDP. La pianificazione e la realizzazione della campagna elettorale del 1980 che porta il partito a ottenere il 10,6% dei consensi, costituisce uno dei suoi più grandi successi politici. Quando nel 1982 divergenze di opinioni portarono alla rottura della coalizione tra FDP e Sozialdemokratisce Partei Deutschlands (SPD) e a un cambiamento di rotta della FDP, V. si oppone a un’alleanza con la Christlich-demokratische Union/Christlich-soziale Union (CDU/CSU) e, nell’autunno del 1982, si dimette dalla carica di segretario del partito per passare, qualche mese dopo, alla SPD.

Tra le file del partito socialdemocratrico V. fa carriera in fretta e, già nel 1983, è eletto al Bundestag. Un anno dopo assume l’incarico di Gesine Schwan all’interno della commissione valori della SPD e, contemporaneamente, nel gruppo parlamentare del partito, prende parte alla commissione esteri (1983-1998) occupandosi in particolare del Sud Africa. Nel giugno 1987, su proposta del tesoriere della SPD Hans-Ulrich Klose, è nominato direttore del giornale di partito “Vorwärts”; guida la rivista per due anni.

Nel 1990 V. fa parlare di sé in seguito alle dichiarazioni rilasciate, durante il dibattito interno al partito, in merito all’accordo per l’unificazione monetaria, economica e sociale delle due Germanie (V. vota a sfavore). Nel 1992 è membro della Convenzione per la Costituzione europea e presidente della commissione straordinaria che, all’interno del Bundestag, lavora al Trattato di Maastricht. Nel 1993 diventa uno dei cinque responsabili amministrativi della SPD. Dopo le elezioni parlamentari che costarono ai social-democratici una forte perdita di consensi nel 1994, diventa capogruppo parlamentare della SPD e gli vengono affidate le questioni inerenti la politica estera, l’economia, la sicurezza e lo sviluppo. Nel 1997, il suo impegno in politica estera lo porta a occuparsi della questione balcanica.

Nel 1998, dopo le elezioni che portano al governo la coalizione di Gerhard Schröder (SPD), V. ottiene l’incarico di ministro di Stato per la politica estera e il ministro degli Esteri Joschka Fischer gli affida immediatamente la politica europea del governo.

Nel 1999 comincia una nuova fase della sua carriera politica: V. è nominato Commissario europeo all’Allargamento. A partire da questo momento svolge un ruolo fondamentale per l’ingresso di 10 Stati nell’Unione europea seguendo i candidati passo dopo passo nel processo di adeguamento ai parametri europei. V. diventa uno stimatissimo mediatore e nel 2004 si fa carico anche della valutazione della candidatura della Turchia. Egli perora l’inizio delle trattative con il governo di Erdogan che con il suo impegno ha avviato un sorprendente processo di riforme.

Nel 2004 V. è nominato nuovamente Commissario europeo, questa volta responsabile dell’Industria, ed è uno dei vicepresidenti della Commissione europea guidata dal successore di Romano Prodi, il portoghese José Manuel Durão Barroso.

Agata Marchetti (2009)




Verhofstadt, Guy

V. (Termonde 1953), laureato in legge all’Università di Gand (1975), fa rapidamente il suo ingresso in politica nel 1976, quando viene eletto consigliere comunale. Dopo qualche mese come stagista nell’attività forense, diviene consigliere nel gabinetto politico di Willy De Clercq, poi nel 1977 suo segretario politico. Poco dopo (1979-1982) assume la presidenza dei PVV-Jongeren, la sezione giovanile del Partij voor Vrijheid en Vooruitgang (PVV), il partito per la libertà e il progresso. Con i giovani del PVV presenta al congresso del partito nell’ottobre 1979 un manifesto radicale che reclama un liberalismo rinnovato in cui sia ridotto al minimo l’intervento dello Stato: «garantire la concorrenza» ed eliminare «le concentrazioni di potere nel settore privato». In questa fase sono già presenti alcuni degli elementi che decreteranno il successo di V.: «radicalismo ideologico, giovinezza, mediatizzazione e uso di formule di funzionamento che cortocircuitano le procedure ufficiali» (v. Govaert, I, 1995, p. 18). Le riflessioni ideologiche di V. sono nutrite dalle sue numerose letture, in particolare degli economisti francesi e americani.

Alle elezioni legislative del 1981 il PVV ottiene un importante successo. De Clercq diviene nuovamente ministro delle Finanze nel 1982. È V., che ha 29 anni, a succedergli alla presidenza del partito, eletto con l’85% dei voti. Svolge quest’incarico dal 1982 al 1985, poi di nuovo dal 1989.

Fa il suo ingresso alla Camera dei rappresentanti il 7 gennaio 1985, sostituendo di nuovo De Clercq che è diventato commissario europeo. Nel novembre dello stesso anno entra nel governo Martens VI (28 novembre 1985-21 ottobre 1987), come vice primo ministro e ministro del Bilancio, della politica scientifica e della programmazione, incarico che ricopre ancora nel governo Martens VII (21 ottobre 1987-13 dicembre 1987, fino al 9 maggio 1988 per gli affari correnti). La sua azione di governo è caratterizzata da uno sforzo reale di risanamento delle finanze pubbliche, ma i progetti di riforme strutturali che dovrebbero accompagnarli non decollano. La personalità del vice primo ministro provoca non poche tensioni all’interno del governo.

Il PVV non partecipa alla nuova coalizione costituitasi dopo le elezioni del dicembre 1987. V. ritrova il suo seggio di deputato che mantiene fino al 1995 (dal 5 gennaio 1988 al 18 ottobre 1991 e dal 16 dicembre 1991 al 12 aprile 1995). Parallelamente (1985-1995) è membro del Consiglio fiammingo. All’opposizione mette a punto un primo manifesto cittadino (Burgermanifest), in cui denuncia la crescente distanza fra il cittadino e la politica che viene imputata alla polarizzazione della società belga. Il manifesto propone una serie di rimedi, come l’abolizione dell’obbligo di voto o l’instaurazione del referendum. Si tratta di un tema sul quale in seguito tornerà di frequente (un quarto manifesto cittadino sarà pubblicato nel 2006). In seguito alle elezioni legislative del 1991 V. è incaricato di formare il governo, ma non riesce a coinvolgere nel suo programma i liberali, i socialisti e gli ecologisti. Il PVV si lancia quindi in un “giro delle Fiandre”, rivolgendo un appello a tutte le forze politiche che accordano la priorità al cittadino, contro i partiti che difendono gli interessi di parte. Questo giro sfocia nella pubblicazione di un nuovo manifesto, De Weg naar Politieke Vernieuwing, che sarà seguito da un appello per raggruppare in un nuovo partito coloro che «professano idee liberali insieme ai democratici liberi nelle loro azioni e nelle loro riflessioni» (De Weg naar Politieke Vernieuwing, testo del gruppo di lavoro, 21 settembre 1992). Il nuovo partito sarà il VLD, Vlaams Liberalen en Democraten, al cui vertice è confermato V. nel giugno 1993.

Le elezioni legislative del maggio 1995 fanno del VLD il secondo partito delle Fiandre. Ma non basta ugualmente per entrare nel governo. V., che si è posto l’obiettivo di fare del suo partito un elemento indispensabile per qualsiasi negoziato governativo, si dimette dalla presidenza del VLD. È eletto al Senato e ne diviene vicepresidente. In questo periodo si fa coinvolgere nei lavori della commissione d’inchiesta parlamentare sugli avvenimenti del Ruanda (assassinio di dieci caschi blu belgi e genocidio del 1994) di cui sarà correlatore. Nel frattempo nel giugno 1997 ritorna alla presidenza del VLD.

Alle legislative del 13 giugno 1999 i liberali diventano il più importante gruppo politico del paese. Il 12 luglio V. è nominato primo ministro, a capo di una coalizione che riunisce i socialisti, i liberali e gli ecologisti (soprannominata “l’arcobaleno”). È dal 1938 che il Belgio non ha un primo ministro liberale. Quest’ascesa al potere segna anche l’esordio del suo coinvolgimento nelle questioni europee, tanto più che si profila all’orizzonte per il Belgio la Presidenza dell’Unione europea (1° luglio-31 dicembre 2001). L’interesse europeo va crescendo in particolare dal Vertice di Nizza (dicembre 2000). Nel giugno 2001 V. lancia l’idea di un’elezione del Presidente della Commissione europea a suffragio universale. Il suo passaggio alla presidenza del Consiglio dei ministri non passa inosservato. Le priorità del Belgio sono ambiziose: riforma delle Istituzioni comunitarie, Allargamento, attuazione dell’Euro, agenda sociale. L’obiettivo consiste nel giungere a una dichiarazione che contraddistingua il Vertice europeo di Laeken in dicembre (v. Vertici). Ma gli attentati dell’11 settembre esigono un adeguamento dell’agenda europea (v. “Agenda 2000”) alla nuova situazione internazionale, in particolare attraverso una politica europea di lotta contro il terrorismo. V. vuole anche aprire il dialogo con gli “anti-globalisti”. Il 26 settembre indirizza loro una lettera in cui riconosce la legittimità delle loro preoccupazioni, ma ritiene che si debba rispondere con una maggiore e non minore globalizzazione. Immagina un forum delle associazioni di cooperazione continentali, una sorta di Federalismo mondiale che dovrebbe inquadrare la globalizzazione e garantirne il carattere etico.

Il Consiglio europeo di Laeken del 14 e 15 dicembre 2001 è preceduto da viaggi nelle diverse capitali europee. In Italia V. ottiene l’accordo di Silvio Berlusconi sulla questione del Mandato d’arresto europeo. Accanto alla Politica europea di sicurezza e di difesa il principale obiettivo del vertice è la discussione e l’adozione del testo della dichiarazione di Laeken, che definisce a grandi linee una visione comune dell’avvenire dell’Europa e il metodo adottato per le riforme istituzionali indispensabili al buon funzionamento di un’Europa allargata. Sotto la presidenza di V. si decide di convocare una Convenzione sull’avvenire dell’Europa che raccolga i rappresentanti dei capi di Stato o di governo degli Stati membri e della Commissione europea, membri dei parlamenti nazionali e del Parlamento europeo, con la partecipazione dei Paesi candidati all’adesione (v. Convenzione europea). Si tratta «di mettere in moto un processo di costituzionalizzazione per l’Europa». V. si rallegra per l’originalità della procedura e spera di aver contribuito così al sogno di vedere l’Europa «raggiungere la nuova sintesi alla quale il mondo aspira» (discorso di fronte al Parlamento europeo, 17 dicembre 2001). Quindi si interesserà da vicino dei lavori della Convenzione.

Le elezioni del 18 maggio 2003 vedono la sua riconferma a primo ministro per il periodo 2003-2007, questa volta a capo di una coalizione di socialisti e liberali (detta “la violetta”).

Nel 2004 circola il suo nome per la successione a Romano Prodi alla testa della Commissione europea. Pur essendo sostenuto dal tandem franco-tedesco, il “candidato dei federalisti” non riesce a ottenere l’unanimità, in particolare a causa delle posizioni assunte durante la crisi irachena. Infatti V. aveva organizzato insieme a Jacques Chirac, Gerhard Schröder e Jean-Claude Junker, nell’aprile 2003, un vertice sulla politica europea di difesa, considerato una sfida all’Alleanza atlantica che il Regno Unito, la Polonia e l’Italia non gli perdonano.

In seguito al rifiuto del trattato costituzionale da parte di francesi e olandesi, nel 2005, V. pubblica un manifesto europeo, Gli Stati Uniti d’Europa. Manifesto per una nuova Europa (De Verenigde Staten van Europa: manifest voor een nieuw Europa, Houtekiet, Anvers-Amsterdam 2005). Ritiene che «la Costituzione non sia stata respinta perché era troppo ambiziosa ma piuttosto perché mancava di ambizioni» (v. Verhofstadt, 2006, p. 65). Se i paesi non sono tutti disposti ad accettare “più” Europa, V. propone di fare dei paesi della zona euro un nocciolo duro, “gli Stati uniti d’Europa”, che dovrebbero dotarsi di un governo e di una strategia socio-economica comunitaria per rispondere alle sfide della mondializzazione e dell’invecchiamento. Questo traguardo può essere raggiunto tramite la convergenza (fissazione di minimi e massimi relativi alle norme sociali e fiscali) e consistenti sforzi di ricerca e di sviluppo (aumentare il budget in materia fino a farlo diventare il più importante dopo quello investito nell’agricoltura). È necessario inoltre costruire uno spazio europeo di giustizia e di sicurezza, dotandolo di un esercito e di una diplomazia comuni. Il finanziamento sarà assicurato da risorse proprie (tasse sul consumo e tasse ambientali) che garantirebbero l’autonomia. Il vocabolario delle istituzioni dovrà essere adattato e al posto della Commissione ci sarà un governo con un presidente a termine eletto a suffragio universale diretto. Secondo V. «l’idea degli Stati Uniti d’Europa è la sola opzione per il vecchio continente» (v. Verhofstadt, 2006, p. 9). Gli Stati che non desiderano farne parte si riuniranno in una confederazione di Stati, “l’Organizzazione degli Stati europei”.

Davanti al Parlamento europeo, il 31 maggio 2006, V. ribadisce la sua convinzione che l’Europa abbia bisogno, oltre all’allargamento, anche di un maggior Approfondimento. Non c’è dubbio che l’Unione diventerà più federale e politica, ma si tratta di sapere se «questo accadrà in tempo». Per raggiungere quest’obiettivo gli europei devono avere coraggio politico. Quando nel 2007 il nuovo presidente francese Nicolas Sarkozy chiede un trattato semplificato, V. rifiuta che il testo sia svuotato della sua sostanza. Se è necessario fare delle concessioni, la Personalità giuridica dell’Unione europea va preservata, come pure il carattere vincolante della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Invece concorda con il presidente francese sulla necessità di creare un governo economico per la zona euro.

Sul piano nazionale V. è di nuovo consigliere comunale di Gand dall’ottobre 2006. Si presenta alle elezioni federali del 10 giugno 2007 nella lista dell’Open-VLD, nuova denominazione del cartello VLD-Vivant dal mese di febbraio. Malgrado il numero significativo di voti di preferenza che ottiene, il terzo mandato a cui aspira è compromesso a causa del calo del suo partito (perdita di 7 dei 25 seggi alla Camera), nella scia di quello già subito alle elezioni regionali del 2004. Il cristiano-democratico Yves Leterme stenta a formare un nuovo governo e, dopo oltre sei mesi di crisi, il re si rivolge a V. perché costituisca un governo provvisorio, che guida dal 21 dicembre 2007 al 20 marzo 2008. Dal 30 gennaio V. 1995 è ministro di Stato.

Natacha Wittorski (2008)




Vertice di Parigi

Nella primavera del 1974 si realizzò un cambio della leadership politica sia in Francia sia nella Repubblica federale di Germania. In quest’ultima divenne cancelliere, il 14 maggio, il socialdemocratico Helmut Schmidt, ex ministro delle Finanze, subentrando a Willy Brandt, anch’egli esponente della SPD. In Francia, dopo la morte, avvenuta il 2 aprile, del presidente Georges Pompidou, il 19 maggio venne eletto all’Eliseo Valéry Giscard d’Estaing, le cui posizioni rispetto al processo di integrazione europea differivano sensibilmente da quelle del suo predecessore e del generale de Gaulle (v. de Gaulle, Charles). Giscard d’Estaing, infatti, auspicava un superamento del modello di Europe des États, senza spingersi fino all’Europa sovranazionale. In una dichiarazione rilasciata l’8 settembre 1966, pochi mesi dopo aver fondato la Fédération nationale des républicains et indépendants (FNRI), qualificando quest’ultima come «l’elemento centrista ed europeo della maggioranza», egli aveva affermato: «È necessario inventare l’Europa e questo sarà il compito della nostra generazione, definire e proporre gradualmente una costruzione originale: sarà l’Europa esistenziale». Giscard d’Estaing, inoltre, aveva aderito al Comitato d’azione per gli Stati Uniti d’Europa, nato su iniziativa di Jean Monnet, e si era espresso a favore dell’adesione del Regno Unito alle Comunità europee. Egli era convinto della necessità di un’autorità europea, ma riteneva che la Commissione non sarebbe divenuta l’embrione del governo dell’Europa a causa della resistenza degli Stati rispetto al trasferimento di competenze importanti a istituzioni sovranazionali. In un’altra dichiarazione del gennaio 1967, egli aveva sostenuto la necessità di organizzare, in maniera sistematica, la collaborazione dei governi e di garantire la convergenza delle loro politiche, rispettando, tuttavia, le loro prerogative. Si trattava di associare strettamente i due metodi: quello comunitario e quello intergovernativo. In tal modo Giscard d’Estaing usciva dal confronto tra confederazione e Stato federale, anche se egli appariva più vicino al primo modello, quello appunto confederale.

Durante la campagna elettorale per le presidenziali del 1974, egli aveva affermato di ritenere l’Europa una priorità, annunciando, in caso di sua elezione, un’iniziativa della Francia nel secondo semestre di quell’anno, nel periodo della sua presidenza di turno. Nel corso di una conferenza del Movimento europeo, il 2 maggio di quell’anno, egli chiarì ulteriormente quale fosse il suo programma di politica europea: andare oltre l’ambito economico, avviarsi verso una confederazione di Stati e, progressivamente, accrescere i poteri dei parlamentari europei, per giungere, a un certo momento, alla loro elezione a suffragio universale diretto.

Vi erano state diverse sollecitazioni ad avviare una stagione di riforme. Innanzi tutto, la Commissione europea, che il 31 gennaio di quell’anno aveva lanciato l’allarme sulla gravità della crisi della Comunità, chiedendo un rilancio della costruzione europea, migliorando anche il funzionamento delle Istituzioni comunitarie. Il Parlamento europeo, il quale, con una risoluzione adottata il 14 febbraio, oltre a rivendicare l’estensione dei suoi poteri in materia di bilancio, aveva anch’esso posto l’accento sulla debolezza delle istituzioni comunitarie e sulla necessità di metterle in condizione di agire. Infine la dichiarazione del primo ministro belga, Léo Tindemans, il quale il 21 giugno aveva affermato che solo la Francia avrebbe potuto imprimere un nuovo impulso al processo di integrazione europea.

Giscard d’Estaing riteneva che un rilancio del processo di integrazione economica si sarebbe realizzato solo nella prospettiva di una più stretta cooperazione politica, facendo leva su un rinnovato tandem franco-tedesco. Il 14 settembre 1974 riunì all’Eliseo i capi di governo degli altri otto Stati membri della Comunità e il Presidente della Commissione europea, François-Xavier Ortoli, raccogliendo il loro consenso rispetto al progetto di riunioni periodiche al vertice. Un nuovo incontro venne convocato per il 9 e 10 dicembre, sempre a Parigi, con la finalità di dare nuovo slancio al processo di integrazione. In quella sede, i capi di Stato e di governo confermarono la loro volontà di realizzare l’Unione economica e monetaria (UEM) e assunsero anche la decisione di istituire il Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR), dotando la Comunità di un importante strumento per affrontare la questione degli squilibri regionali. Le novità più rilevanti, però, furono quelle riguardanti l’assetto istituzionale. Venne stabilito, infatti, che i vertici dei capi di Stato e di governo, accompagnati dai ministri degli Affari esteri, si sarebbero tenuti con regolarità, tre volte all’anno e ogniqualvolta risultasse necessario, e tali riunioni periodiche avrebbero assunto il nome di Consiglio europeo, occupandosi sia delle problematiche comunitarie, per le quali era prevista la partecipazione agli incontri anche della Commissione, sia della Cooperazione politica europea (CPE).

Al fine di rendere meno complesso il Processo decisionale, venne inoltre deciso di limitare il ricorso al Voto all’unanimità nel Consiglio dei ministri solo alle questioni di importanza vitale, riaffermando, quindi, il principio originario del Compromesso di Lussemburgo. Vennero distinti più nettamente, inoltre, i ruoli del Comitato dei rappresentanti permanenti (COREPER) e del Consiglio, stabilendo che il primo dovesse occuparsi delle tematiche prevalentemente tecniche, riservando quelle più propriamente politiche al Consiglio. Alla Commissione sarebbero stati delegati più ampi poteri esecutivi e gestionali.

Se l’istituzionalizzazione delle riunioni al vertice era espressione della visione confederale, intergovernativa, della costruzione europea, l’altra importante decisione assunta a Parigi, superando il veto che sempre la Francia gollista aveva opposto, quella dell’elezione a suffragio universale diretto del Parlamento europeo, rispondeva invece a una logica più sovranazionale e federale. Su questo punto, vi erano state numerose iniziative sia a livello di Assemblea parlamentare europea (ricordiamo il Progetto Dehousse del 1960) (v. Dehousse, Fernand), di Parlamenti nazionali e dei movimenti europeisti, mobilitando anche l’opinione pubblica, come le proposte di legge per le elezioni dirette di singole delegazioni nazionali al Parlamento europeo, ad esempio quella di iniziativa popolare per l’elezione a suffragio universale dei parlamentari italiani a Strasburgo, presentata al Senato della Repubblica l’11 giugno 1969, dopo una raccolta di firme lanciata dal Movimento federalista europeo, dal Consiglio italiano del Movimento europeo e dall’Associazione italiana del Consiglio dei Comuni d’Europa.

Infine dal Vertice venne affidato l’incarico al primo ministro belga, Léo Tindemans, di presentare entro la fine del 1975, dopo aver consultato i governi e gli ambienti rappresentativi della politica, dell’economia, della cultura e dell’opinione pubblica, una relazione di sintesi contenente una serie di proposte finalizzate alla trasformazione delle Comunità in un’Unione europea, richiamando le conclusioni del Vertice, svoltosi sempre nella capitale francese due anni prima, il 19-21 ottobre 1972, in cui i Nove si erano dati come obiettivo, appunto, quello di «trasformare entro la fine del […] decennio l’insieme delle relazioni tra gli Stati membri in una Unione europea».

Le decisioni assunte a Parigi si basavano quindi su un sostanziale equilibrio tra metodo sovranazionale, comunitario e metodo intergovernativo. L’estensione delle competenze della Comunità e della cooperazione politica a più ampi settori richiedeva un più forte coordinamento al vertice, tra capi di Stato e di governo, in considerazione anche di una necessità di sintesi tra i diversi livelli, per la maggiore interdipendenza tra politiche nazionali ed europee. Di qui derivava la scelta di dare continuità e di convocare con regolarità le riunioni dei capi di Stato e di governo, che già si erano tenute a partire dai primi anni Sessanta, ma non con scadenze fisse, dando vita al Consiglio europeo, chiamato a definire i grandi orientamenti della politica comunitaria e a svolgere quasi una funzione di organo “d’appello” per risolvere questioni complesse e che non trovassero una composizione in altre sedi istituzionali comunitarie, come il Consiglio dei ministri. Il Consiglio europeo (che nasceva non in base a un trattato, ma con un accordo tra i capi di Stato e di governo e che avrebbe trovato una forma di istituzionalizzazione solo con l’inserimento nell’Atto unico europeo) era, però, come si è detto, espressione dell’approccio confederale, intergovernativo dell’integrazione. Rimaneva la questione della partecipazione dei cittadini alla costruzione europea. Da qui derivava la scelta di controbilanciare con una legittimazione democratica, tramite l’elezione diretta del Parlamento europeo, e con un potenziamento di quest’ultimo con il Trattato di Bruxelles del 22 luglio 1975, che accresceva i suoi poteri in materia di bilancio. L’elezione a suffragio universale diretto del Parlamento europeo avrebbe coinvolto più direttamente non solo i cittadini nel processo di integrazione europea, ma anche i partiti politici, sollecitati a confrontarsi in una nuova arena politica, in un diverso spazio democratico di dimensioni continentali.

Paolo Caraffini (2016)




Vertici

Non prevista dal Trattato di Parigi e dai Trattati di Roma, che hanno dato vita alle Comunità europee (Comunità europea del carbone e dell’acciaio, CECA e Comunità economica europea, CEE), la pratica di “riunirsi al vertice” nei momenti cruciali della vita comunitaria è il risultato del conflitto da sempre latente fra “integrazionisti” e “confederalisti”. Da un lato, coloro che basavano il loro credo sul graduale evolvere dei settori di integrazione (agricoltura, industria, dogane, ecc.) in aree di collaborazione sempre più vaste e strettamente legate fra loro, destinate alla fine del processo a sfociare in una vera e propria struttura politica a livello sovranazionale (v. anche Integrazione, Teorie della; Integrazione, metodo della); dall’altro, i fautori del più ortodosso metodo diplomatico di concertazione fra governi sovrani senza i vincoli di strutture istituzionali sovraordinate. La storia ha consacrato nella figura del generale Charles de Gaulle il campione di questa seconda filosofia e l’iniziatore di quel metodo confederale concretatosi in primis nelle riunioni al vertice. Esse, infatti, iniziano nel 1961, pochi anni dopo l’elezione di de Gaulle a Presidente della Repubblica francese nel maggio del 1958.

I Vertici, nella storia della Comunità, saranno in tutto sette fino al dicembre del 1974, quando cederanno il posto al Consiglio europeo che ancora oggi è in cima alla piramide del sistema istituzionale dell’Unione europea (UE). Le caratteristiche principali dei Vertici erano quelle di essere incontri non regolari, ma convocati a seconda delle esigenze del momento; di non confondersi con le Istituzioni comunitarie dell’epoca, ma anzi di mantenere un carattere informale e strettamente intergovernativo (v. anche Cooperazione intergovernativa); infine, di essere composti dai capi di Stato (nel caso della sola Francia) e di governo dei sei membri fondatori delle Comunità, all’inizio, e dei nove dopo l’entrata nel 1974 di Regno Unito, Irlanda e Danimarca nella Comunità.

Se la “filosofia” politica del generale de Gaulle è stata all’origine della procedura dei Vertici, nel corso degli anni successivi si sono manifestate esigenze strutturali e politiche d’altro tipo, che di fatto hanno poi obbligato la Comunità a modificare la propria fisionomia istituzionale, a cominciare proprio dall’istituzionalizzazione dei Vertici in Consiglio europeo, come avverrà, appunto, nel 1974.

La prima esigenza è legata alla natura stessa del Trattato di Roma che ha dato vita alla CEE: esso si configurava come un Trattato “quadro” che doveva essere riempito di contenuti e di politiche su impulso degli organi di “governo” della Comunità. Nei primi anni questo compito fu svolto dalla Commissione europea assieme al Consiglio dei ministri degli Esteri della Comunità (v. Consiglio dei ministri). Ma con il graduale passaggio da azioni cosiddette di “integrazione negativa” (ad esempio, la rimozione degli ostacoli tariffari) a proposte di “integrazione positiva”, come la Politica agricola comune (PAC), il potere dei due organismi comunitari si dimostrò insufficiente a superare quello che sarà definito come “interesse nazionale vitale”. Sarà infatti proprio sulla questione del finanziamento della PAC, alla metà degli anni Sessanta, che si assisterà alla prima vera crisi comunitaria con il ritiro della delegazione francese dal Consiglio dei ministri (la cosiddetta politica della “sedia vuota”). Di fronte, quindi, al progressivo indebolimento di Commissione e Consiglio, saranno i capi di Stato e di governo a prendere in mano il compito di dare impulso e di indirizzare le politiche comuni.

Per di più, a rafforzare il ruolo dei primi ministri nella politica comunitaria subentreranno altri due fattori. Il primo riguarda l’organizzazione interna di ciascun paese membro della CEE, dove con il crescere degli affari comunitari entreranno nel gioco diversi dicasteri tecnici (Agricoltura, Tesoro, ecc.) oltre ai ministeri degli Esteri. Si porrà quindi un problema sempre più pressante di coordinamento interno, non sempre affrontabile da parte del solo ministro degli Esteri: soprattutto nelle decisioni “vitali” deve subentrare il Primo ministro. La centralità crescente della figura dei premier sarà poi sottolineata anche dalla nascente interdipendenza internazionale nel campo del commercio e dell’industria, che toccherà contemporaneamente le politiche nazionali e comunitarie: di qui la necessità di una sintesi del duplice interesse intorno alle figure dei primi ministri.

Quasi tutto, dunque, congiurava per un intervento diretto dei capi di Stato e di governo nelle questioni comunitarie, anche se questa esigenza cominciò a divenire palese solo dopo la metà del 1960. Vi è quindi un differente significato tra i primi due Vertici del 1961 – dovuti essenzialmente alle preoccupazioni golliste di un’eccessiva crescita del potere sovranazionale della Comunità – e gli altri cinque che si svolgeranno fra il 1967 e la fine del 1974, maggiormente orientati a dettare le nuove politiche della Comunità. Alla luce di queste considerazioni generali, è possibile inquadrare con maggiore precisione il ruolo svolto dai singoli Vertici nel periodo formativo di quella che oggi è chiamata Unione europea.

Parigi, 10-11 febbraio 1961. In preparazione di questo Vertice, voluto fortemente da de Gaulle, nel luglio dell’anno precedente vi era stato un incontro a Rambouillet con il cancelliere tedesco Konrad Adenauer. Per porre un freno allo sviluppo sovranazionale dell’Europa economica, de Gaulle proponeva di avviare una cooperazione in campo politico (v. anche Cooperazione politica europea). L’idea suggerita a Adenauer era quella di tenere conferenze periodiche trimestrali di capi di governo e di Stato e di creare quattro commissioni (esteri, difesa, cultura ed economia) destinate a preparare le riunioni e a mettere in pratica le decisioni. A Parigi, tuttavia, di fronte alle perplessità dei paesi del Benelux sul nascente bilateralismo franco-tedesco e ai timori di vedere indebolita la Comunità, l’unica decisione fu la costituzione di una commissione di rappresentanti dei sei governi per presentare “proposte concrete riguardanti le riunioni dei capi di Stato e di governo e dei ministri degli Affari Esteri”, senza affrontare altri aspetti delle idee golliste.

Bonn, 18 luglio 1961. Previsto in un primo tempo per il 19 maggio, il secondo round dei primi due Vertici si dimostrò molto più efficace, tanto che “Le Monde” di quell’epoca uscì con il titolo Nascita dell’Europa politica. La commissione di studio (commissione Fouchet) (v. Piano Fouchet), che ancora non aveva concluso i propri lavori, ricevette in effetti un nuovo dettagliato mandato di “dare forma alla volontà di unità politica” e di organizzare un sistema di incontri e una struttura decisionale tali da rendere efficace questa nuova funzione.

La commissione Fouchet si mise subito al lavoro, e già nell’autunno dello stesso anno si ebbe un primo abbozzo delle nuove istituzioni competenti in materia di politica estera, cultura e difesa con un Consiglio di capi di governo, un’Assemblea parlamentare, diversi Comitati di ministri (Difesa, Istruzione) e una Commissione esecutiva o Segretariato da collocare possibilmente a Parigi, cosa che cominciò a sollevare non poche perplessità sulle reali intenzioni francesi.

Il 19 gennaio del 1962 la delegazione francese presentò un testo ancora più rigido, eliminando ogni riferimento ai rapporti con l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), al fatto che alle nuove istituzioni non era consentito occuparsi di economia, e così via. Il Piano Fouchet fu quindi respinto il 17 aprile 1962 in una riunione dei ministri degli Esteri e con la forte opposizione dei paesi del Benelux, che temevano un eccesso di leadership francese e non accettavano né le richieste di autonomia dalla NATO, né, soprattutto, l’indebolimento delle istituzioni comunitarie, unico baluardo dei paesi di minori dimensioni contro l’emergente asse franco-tedesco. Con il fallimento del piano Fouchet, de Gaulle decise quindi di abbandonare i propri piani per la Comunità per dedicarsi invece a rafforzare il rapporto con Bonn attraverso la firma, il 22 gennaio 1963, del Trattato dell’Eliseo, un accordo bilaterale franco-tedesco che avrebbe dato negli anni molti frutti.

Roma, 29-30 maggio 1967. Gli anni che seguono il fallimento del piano Fouchet sono fra i più travagliati per le nascenti Comunità europee. Gli attriti fra de Gaulle e la Commissione europea, presieduta dal tedesco Walter Hallstein, si acuiscono sino ad arrivare al punto di rottura con la presentazione di un regolamento finanziario sulla PAC che di fatto dà un potere autonomo alla Commissione. La Francia rifiuta e de Gaulle decide di ritirare la delegazione francese dagli organi del Consiglio dei ministri: è la famosa politica della “sedia vuota” che dura sei mesi, dal giugno al dicembre del 1965. A quel punto serve un segnale di ripresa per non fare fallire il sogno comunitario. L’Italia propone il Vertice, prendendo a pretesto la celebrazione del decimo anniversario del Trattato di Roma (25 marzo 1957). Ma la data slitta fino a che il generale de Gaulle non ha l’assicurazione, ottenuta dal Cancelliere tedesco Kiesinger (v. Kiesinger, Kurt Georg), di allontanare dalla testa della Commissione Walter Hallstein, il che avviene puntualmente il 1° di luglio con la nomina del belga Jean Rey.

L’Aia, 1-2 dicembre 1969. Il quadro politico europeo è in questo periodo radicalmente cambiato. De Gaulle si è ormai ritirato dalla vita politica a causa delle gravi difficoltà economiche e di ordine pubblico interne (le rivolte studentesche del 1968) e della sconfitta nel referendum dell’aprile 1969. A succedergli viene chiamato George Pompidou, che trova come controparte tedesca il cancelliere Willy Brandt, anch’egli da poco approdato alla Cancelleria. Entrambi si interrogano sul futuro della Comunità, anche perché nel frattempo si è chiuso il periodo transitorio di applicazione del Trattato di Roma ed è quindi necessario individuare le linee per il futuro.

George Pompidou ha un ulteriore problema: quello di controbilanciare la nascente Ostpolitik di Brandt, che toglie spazio al romantico progetto vagheggiato da de Gaulle di un’Europa dall’Atlantico agli Urali, rovinosamente crollato dopo l’invasione sovietica della Cecoslovacchia nella primavera del 1968. Per riuscire nel suo intento, Pompidou deve aprire le porte della Comunità al Regno Unito, dopo che de Gaulle lo aveva sdegnosamente respinto in due occasioni, nel 1962 e nel 1967. Si rovesciano quindi le vecchie priorità della Francia e si punta al rafforzamento della Comunità.

L’Aia rappresenta quindi un punto di svolta che dà anche una nuova dignità al Vertice. I Sei prendono tre decisioni principali, e definiscono altresì una serie di orientamenti significativi. La prima decisione è l’Allargamento a Gran Bretagna, Irlanda, Danimarca e Norvegia (che respingerà l’offerta con un referendum nel 1973), nel quadro di un impegno politico orientato al raggiungimento di tre obiettivi: completamento, Approfondimento e, appunto, allargamento. L’intento è quello di consolidare le fondamenta della Comunità prima del grande passo dell’allargamento dai Sei a Nove.

La seconda decisione è l’avvio di un ambizioso piano di Unione economica e monetaria (UEM) che si concreterà nel Rapporto Werner sul primo esperimento di disciplina monetaria. Infine, si fa rientrare dalla porta di servizio il vecchio interesse francese alla cooperazione anche nel campo della politica estera: ma visto il fallimento del Piano Fouchet, l’approccio è minimalista e si esaurisce nella richiesta di un Rapporto Davignon (v. anche Davignon, Étienne), sulla Cooperazione politica europea (CPE). In ultimo si aprono le porte all’idea, a suo tempo duramente contrastata da de Gaulle, di un bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) basato su Risorse proprie e alla eventualità di conferire al Parlamento europeo poteri di controllo in materia.

Parigi, 19-20 ottobre 1972. Tanto era stato concreto l’incontro dell’Aia, tanto sarà retorico il Vertice di Parigi. Pompidou rilancia infatti il tema delle finalità politiche della Comunità e indica nell’Unione politica il fine ultimo. Tuttavia, per non prestare il fianco a sospetti, accetta la proposta di incaricare le stesse istituzioni comunitarie di predisporre un piano da sottoporre al Vertice successivo. Un ambizioso obiettivo viene anche indicato per l’UEM, sia decidendo di passare alla seconda fase del Piano Werner, con la nascita del cosiddetto “Serpente monetario”, sia indicando il 1980 come traguardo per il completamento dell’UEM. Come è noto, l’obiettivo verrà ampiamente mancato, ma la necessità di rafforzare la cooperazione europea diventerà sempre più impellente dopo lo shock monetario dell’agosto 1971 provocato dall’abbandono del sistema di Bretton Woods da parte degli Stati Uniti.

Inoltre, per rendere più accettabile l’allargamento si accenna alla necessità di accelerare il varo di politiche sociali (v. anche Politica sociale) e regionali comuni (v. anche Politica di coesione). Infine, si apprezzano i primi passi della CPE e si incarica Davignon di predisporre un secondo rapporto sui progressi da fare nel campo della politica estera.

Copenaghen, 14-15 dicembre 1973. È di nuovo un vertice fallimentare, poiché la coesione fra i Sei va scemando di fronte a tre diverse avversità. La prima è la crescente crisi economica che colpisce l’Europa, facendo saltare di fatto l’UEM sotto i colpi di una crescente inflazione. In secondo luogo interviene la crisi energetica derivata dalla guerra dello Yom Kippur in Medio Oriente e dal conseguente boicottaggio arabo sulla vendita del petrolio. A complicare le cose, infine, si innesta la proposta di Henry Alfred Kissinger di una “Nuova carta atlantica”, che viene letta come la riaffermazione della supremazia americana e della richiesta di un maggiore contributo finanziario europeo (burden sharing) alla difesa comune.

Per di più, l’atteggiamento morbido degli europei nei confronti degli arabi non fa che sottolineare le difficoltà nel dialogo transatlantico. A tale proposito il Vertice approva una dichiarazione sull’identità europea che contribuisce solo a rinfocolare i sospetti di Kissinger su una deriva autonomistica della Comunità. La riunione si svolge in stato di semi assedio, con i ministri arabi alle porte del Vertice per ottenere una chiara risposta europea di condanna nei confronti di Israele (che non parteciperà). Unica nota positiva è l’accordo sul fondo Fondo di coesione, che spalanca le porte all’entrata dei nuovi tre paesi nella CEE.

Parigi, 10-11 dicembre 1974. È l’ultimo Vertice. Esso rappresenta innanzitutto la piattaforma di lancio per tre nuovi leader, tutti eletti nell’anno e di carattere molto pragmatico: Valéry Giscard d’Estaing al posto di Pompidou; Helmut Schmidt che sostituisce il dimissionario Brandt; Harold Wilson, laburista, succede al conservatore Edward Heath.

Ma è soprattutto il rinnovato asse franco-tedesco a dare l’abbrivio a un nuovo vertice di successo. Per preparare bene le decisioni la riunione di Parigi viene preceduta da un incontro informale svoltosi il 14 settembre nella capitale francese tra capi di Stato e governo (noto come “summit picnic”). Si fissa quindi una larga e ambiziosa agenda che prevede sul piano delle politiche il rinegoziato inglese al bilancio comunitario, la ripresa dell’UEM, la politica energetica (v. anche Politica dell’energia), e sul piano istituzionale la regolarizzazione dei Vertici, le Elezioni dirette del Parlamento europeo e il rafforzamento del ruolo della presidenza (v. Presidenza dell’Unione europea).

Sul tema chiave, quello della trasformazione dei Vertici, l’idea francese è quella di mantenere un carattere estremamente informale alle riunioni, sulla base della filosofia all’epoca di moda del library group, ovverosia degli incontri al massimo livello, ma “accanto al caminetto”. In realtà, la regolarizzazione imporrà anche un certo grado di istituzionalizzazione dei Vertici.

A dicembre, quindi, il pacchetto di decisioni è già maturo. Per quanto riguarda le politiche si avvia un negoziato per trovare meccanismi correttivi al contributo inglese al bilancio comunitario, si completa il varo della politica regionale comune e non si abbandona l’idea di un maggiore coordinamento delle politiche economiche nazionali: un buon viatico per il futuro Sistema monetario europeo (SME) del 1979. Sulle questioni istituzionali si arriva rapidamente all’accordo per la sostituzione dei Vertici con i Consigli europei, indetti tre volte l’anno, e certamente meno informali di quanto desiderato da Giscard d’Estaing. Come contrappeso a una decisione che colloca di fatto i capi di Stato e di governo in testa alla piramide del sistema decisionale comunitario (v. anche Processo decisionale), sbilanciandolo sul versante intergovernativo, ci si accorda contemporaneamente per adempiere a un articolo del Trattato che prevede l’elezione diretta del Parlamento europeo, e si esorta ad usare il meno possibile il diritto di veto nel Consiglio. Infine, viene affidato al primo ministro belga Léo Tindemans il compito di predisporre un rapporto sull’Unione europea (v. Rapporto Tindemans).

In definitiva, la nascita e l’esistenza dei Vertici, nei chiaroscuri delle sue alterne vicende, è stata essenziale per creare le basi della attuale Unione europea, anche se al momento della loro trasformazione in Consiglio europeo la loro funzione appariva ormai esaurita, tanto da fare pronunciare a Valéry Giscard d’Estaing la famosa frase: «le Sommet européen est mort. Vive le Conseil européen».

Gianni Bonvicini (2010)