Vogel, Hans-Jochen

V. nacque il 3 febbraio 1926 a Gottinga, da Caroline (nata Brinz) e Hermann Vogel, lettore e professore di allevamento del bestiame e produzione casearia all’Università di Gießen. Ha un fratello minore, Bernhard, nato nel 1932. Cattolico praticante, sebbene sia divorziato, ha un figlio e due figli dal primo matrimonio con Ilse Leinering, con cui è stato sposato dal 1951 al 1972. In seconde nozze sposerà Lieselotte Nonneholzer (nata Biersack).

V. crebbe in un ambiente colto e liberale dell’alta borghesia. Il padre era membro del Partito democratico (Deutsche demokratische Partei, DDP) prima del 1933. Nel 1943 terminò il liceo classico a Gießen e conseguì il diploma. Richiamato alle armi, dal 1943 al 1945 combatté nella seconda guerra mondiale, restando ferito due volte e raggiungendo il grado di sergente. Prigioniero di guerra per un breve periodo, tornò a casa nel 1945. L’anno dopo iniziò gli studi di giurisprudenza prima a Marburgo e poi a Monaco, dove superò il primo esame di Stato nel 1948, conseguì il dottorato nel 1950 con una tesi di diritto penale e sostenne il secondo esame di Stato nel 1951. Ottenne voti eccellenti, risultando il migliore della classe di laureati del 1951.

Sebbene nella sua famiglia mancassero tradizioni socialdemocratiche, e fosse una scelta tutt’altro che opportunistica nella Baviera cattolica e conservatrice, V. aderì al Partito socialdemocratico (Sozialdemokratische Partei, SDP) nel 1950. Il fratello Bernhard per contro si iscrisse al partito conservatore democristiano (Christlich-demokratische Union, CDU). I due fratelli erano destinati a far carriera nei rispettivi partiti: Bernhard diventerà primo ministro degli Stati federali della Renania-Palatinato (dal 1976 al 1988) e della Turingia (dal 1992 al 2003).

Dopo un periodo di praticantato nella piccola città bavarese di Miesbach e poi a Monaco, nel 1952 V. iniziò a esercitare la professione in questa città, prendendo servizio come consigliere di governo al ministero della Giustizia bavarese.

Nel 1964 divenne legale alla corte federale di Traunstein, un’altra cittadina rurale della Baviera. Dal 1955 al 1958 fu legale alla Cancelleria di Stato bavarese sotto il primo ministro socialdemocratico Wilhelm Hoegner. In questa funzione, divenne responsabile della raccolta e della pubblicazione della legislazione provinciale bavarese. Nel 1954 fu nominato consigliere legale a tempo pieno della città di Monaco.

La rapida carriera di V. raggiunse un primo apice nel 1960, quando fu eletto sindaco di Monaco con il 64,3% dei voti. Ad appena 34 anni, era il sindaco più giovano di una città europea che superava il milione di abitanti, e acquistò ben presto un alto profilo e una solida reputazione. Durante il suo primo mandato scoppiò una violenta rivolta studentesca nell’università federale della capitale bavarese, nota come “rivolta di Schwabing”. In questo periodo la polizia era ancora sotto la giurisdizione del consiglio municipale e del sindaco. V. perseguì una strategia mirata a calmare le acque, ricorrendo all’intervento della polizia solo come ultima risorsa.

Sin da questi primi anni a Monaco V. cercò il dialogo con i giovani, ad esempio negli anni Settanta con il movimento pacifista. In seguito tuttavia riconoscerà di aver dimostrato scarsa flessibilità, ammettendo che allora non padroneggiava ancora l’arte del compromesso necessaria spesso in politica (v. Gaus, 1992). Sebbene non mancassero i contrasti con l’opposizione extraparlamentare negli anni Sessanta e Settanta, V. cercò nondimeno di mostrare tolleranza e comprensione nei confronti di alcune posizioni degli extraparlamentari. La popolarità di cui godeva è testimoniata dalla sua rielezione a sindaco nel 1966, con una maggioranza netta del 77,9% dei voti. Conservò la carica sino al 1971, e nel 1971-1972 fu anche presidente della SPD nella circoscrizione di Monaco.

In qualità di sindaco di Monaco V. promosse una serie di programmi di riforma: risanamento urbano, espansione dei trasporti pubblici, riforma agraria e piani di edilizia popolare (v. Kaiser, 1982). V. esporrà le sue idee riformatrici e l’esperienza di quegli anni in due libri, Städte im Wandel (“Città in trasformazione”, 1971) e Die Amtskette (“La fascia di sindaco”, 1972).

Ma soprattutto, negli anni in cui fu sindaco di Monaco V. riuscì a candidare la città per l’organizzazione dei Giochi olimpici del 1972. Nel 1973 gli fu conferita la Medaglia d’oro del Comitato nazionale olimpico come vice-residente del Comitato organizzativo dei giochi di Monaco. La città beneficiò enormemente dell’evento: il sistema di trasporti pubblici fu modernizzato e furono proposti nuovi piani urbanistici. Ma le Olimpiadi di Monaco, che volevano essere improntate a un clima di distensione e serenità in contrasto con le ultime svoltesi in Germania, quelle del 1936 nella Berlino nazista, furono insanguinate dall’azione di un gruppo di terroristi palestinesi, che prese in ostaggio e assassinò 11 sportivi israeliani. La tragedia pose le Olimpiadi di Monaco al centro dell’attenzione internazionale non solo nel campo sportivo, ma anche sul piano politico.

Negli anni Settanta la carriera politica di V. passò dal livello locale a quello regionale e nazionale. Nel 1970 divenne membro del consiglio direttivo federale della SPD, e dal 1972 al 1977 presidente provinciale della SPD bavarese. Negli anni in cui fu sindaco di Monaco V. acquistò altresì un’esperienza extramunicipale, ricoprendo la carica di presidente del Congresso dei Comuni (Städtetag), un’associazione delle principali città tedesche. Inoltre, dal 1972 al 1983 fu membro del direttivo della SPD. Nel 1972 venne eletto per la prima volta al parlamento tedesco (Bundestag) a Bonn.

Sotto il cancellierato di Willy Brandt, V. fu nominato dal 1972 al 1974 ministro federale per la Pianificazione regionale, l’edilizia e lo sviluppo urbano, un ministero di nuova introduzione. In seguito, nel 1974, sotto il cancelliere successivo Helmut Schmidt divenne ministro federale della Giustizia sino al 1981. La popolarità di cui continuava a godere è testimoniata dalle elezioni bavaresi del 1974 e dalle elezioni federali del 1976, in cui risultò il candidato della SPD cui andò il maggior numero di voti. In questo periodo, la Repubblica Federale Tedesca subì le azioni terroristiche del corrispettivo tedesco delle Brigate rosse italiane, la Rote Armee Fraktion, culminate nel 1977 nel cosiddetto “autunno tedesco”. Il governo di Schmidt scelse la linea dura e non fece nessuna concessione ai terroristi. Questi eventi, ovviamente, segnarono fasi drammatiche nella carriera politica di V. Secondo i colleghi, gli anni del mandato di ministro della Giustizia videro una maturazione di V., che svolse il suo incarico con grande professionalità e dedizione. La sua fedeltà al cancelliere Schmidt e al partito contribuirono a renderlo uno dei membri più importanti del governo.

Nel 1981 il sindaco di Berlino rassegnò le dimissioni a seguito del fallimento della coalizione tra la SPD e il partito liberale (Freie demokratische Partei, FDP) in una elezione suppletiva di nuovi senatori. In difficoltà per questo evento improvviso, la SPD cercava gli uomini appropriati. V. andò incontro al partito e accettò la carica di sindaco di Berlino, ammettendo peraltro il suo scarso entusiasmo viste le liti interne e i sordidi scandali che dilaniavano la SPD berlinese. Di conseguenza, tra gennaio e giugno del 1981 V. fu sindaco ad interim di Berlino, e cercò di ricompattare la branca locale del partito.

Questo periodo fu caratterizzato dagli scontri tra il senato di Berlino e gli occupanti abusivi. Nonostante la brevità del suo mandato berlinese, V. riuscì a dare una direzione alla politica locale inaugurando per far fronte al problema la cosiddetta “linea di Berlino”, consistente nel garantire contratti d’affitto in cambio dello sgombero delle abitazioni occupate. La combinazione di fermezza e disponibilità al compromesso guadagnarono a V. grande considerazione anche al di fuori del suo partito. Inoltre, come sindaco di Berlino egli fu direttamente coinvolto nel problema della divisione della Germania e della città. Sin da allora si adoprò attivamente per favorire i contatti tra le due Germanie, sottolineando costantemente il contributo positivo della Ostpolitik di Willy Brandt al miglioramento delle relazioni tra la Repubblica Federale e la Repubblica Democratica Tedesca. Nello stesso tempo, insistette sull’importanza della partecipazione all’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), ma anche sulla necessità del disarmo dei due blocchi in Europa.

Lo spostamento della capitale da Bonn a Berlino segnò una brusca fine della carriera di V. a livello federale. Inoltre, quando la coalizione SPD/FDP perse le elezioni berlinesi del giugno 1981, nonostante i suoi sforzi V. restò solo capogruppo parlamentare dell’opposizione nel Bundestag di Berlino, recedendo così a figura di secondo piano. Tuttavia, presto ricevette un nuovo appello del partito affinché lo aiutasse in un’altra situazione critica.

Questa volta l’appello proveniva da Bonn. Quando, il 1° ottobre 1982, il cancelliere socialdemocratico Schmidt fu salvato da Helmut Josef Michael Kohl della CDU in una mozione di sfiducia causata dalla rottura della coalizione da parte della FDP, Schmidt rifiutò di ripresentare la sua candidatura per il cancellierato. V. accettò di essere il principale candidato del partito socialdemocratico nelle successive nuove elezioni parlamentari del 1983. Molti commentatori considerarono questa scelta un ennesimo sacrificio da parte di V., che impostò la sua campagna elettorale su temi quali il disarmo, le riforme del mercato del lavoro per combattere la disoccupazione e una riorganizzazione della divisione del lavoro con riduzione degli orari. Su determinati temi non respinse interamente una collaborazione con il nuovo partito ecologico e radical-democratico dei Verdi. Anche se perse le elezioni a favore del cancelliere Kohl, tornò al parlamento di Bonn come candidato di Berlino eletto direttamente, e divenne capo dell’opposizione dopo che l’ex capogruppo della SPD Herbert Wehner rassegnò le dimissioni indicando V. quale suo successore. In questa carica, egli ridiede coesione e fattività al suo partito piuttosto malconcio. Nonostante fosse il capo dell’opposizione, nelle elezioni federali V. cedette il posto di primo candidato a Johannes Rau, primo ministro del Land Nord Reno-Westfalia, evitando così una lotta per la leadership all’interno della SPD.

Nel 1987 prese il posto di Willy Brandt alla presidenza del partito. La sua capacità di mediazione lo rendevano il candidato ideale per questa carica. Fu rieletto due volte a larghissima maggioranza e restò in carica sino al 1991. La formulazione di un programma di partito unitario rispetto a questioni quali la sicurezza interna e la politica sociale ed economica, ma soprattutto i rapporti con la Repubblica Democratica Tedesca (RDT), dominarono il suo operato nella duplice funzione di capo del partito e del gruppo parlamentare. Sino alla seconda metà degli anni Ottanta la politica della SPD nei confronti della RDT fu imperniata sul principio del “mutamento graduale” (Wandel durch Annäherung). Dopo il crollo improvviso del regime della RDT, V. e la SPD inizialmente furono favorevoli a una confederazione dei due Stati, ma poi concordarono sulla unificazione tedesca.

Nell’ambito dell’Internazionale socialista e dell’Associazione dei partiti socialdemocratici della Comunità europea (v. anche Partiti politici europei), divenuto in seguito Partito socialdemocratico europeo (v. Partito socialista europeo), V. sottolineò sempre la necessità di promuovere l’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), anche al livello dei partiti e dei sindacati. Amante dell’alpinismo e in grado di parlare l’italiano, dimostrò anche una attenzione speciale per il Sud Tirolo, e nonostante la debolezza della socialdemocrazia in questa regione avviò una cooperazione ufficiale tra il gruppo parlamentare della SPD e il Partito popolare conservatore che era la principale forza politica del Sud Tirolo.

V. era stimato come politico estremamente intelligente, competente, corretto, sollecito e obiettivo, amante dell’organizzazione sistematica. Il suo spiccato senso del dovere trovò dimostrazione quando accettò la sfida di candidarsi alle elezioni per la carica di sindaco di Berlino nel 1981 e di cancelliere a Bonn l’anno successivo. Piuttosto severo, pedante e incline a dispensare consigli, V. talvolta era chiamato “professore” o “direttore”, e tuttavia non dava un’immagine di tedioso burocrate, e nonostante il suo atteggiamento distaccato godeva di grande stima tra i politici e i cittadini. All’interno della SPD V. si era trasformato da esponente della corrente di destra in un moderato propenso alla mediazione, che talvolta mostrava persino una certa simpatia per alcune posizioni dei Verdi ed era in grado di tenere unite le varie correnti all’interno del suo partito. Indice della sua popolarità sono le numerose decorazioni e onorificenze di cui venne insignito, sia in patria che all’estero. Nel 1986, a esempio, gli fu conferita da Gran croce al merito, la massima onorificenza della Repubblica federale tedesca. In una intervista, alla domanda cosa apprezzasse di più rispose ironicamente: «la cucina italiana e la puntualità» (v. Kaiser, 1982).

Quando la SPD fu sull’orlo di un altro conflitto interno nel corso della campagna per le elezioni federali del dicembre 1990 – le prime dopo l’unificazione della Germania – V. accennò già all’intento di abbandonare la presidenza della SPD a favore di Oskar Lafontaine, candidato del partito al cancellierato. Tuttavia la decisione venne posticipata a dopo le elezioni. Quando Lafontaine e la SPD furono sconfitti nelle votazioni di settembre V. si offrì di lasciare la presidenza del partito e la carica di capogruppo parlamentare, nel tentativo di favorire il rinnovamento e una generale trasformazione del partito. Tuttavia Lafontaine rifiutò, e V. accettò di continuare a guidare il gruppo parlamentare, mentre presidente del partito divenne l’assai più giovane Björn Engholm. V. organizzò attentamente la sua successione politica, come dimostra il fatto che nel 1991 lasciò via libera a Hans-Ulrich Klose, che divenne capogruppo della SPD in parlamento.

V. non cessò di far sentire la sua voce, sia quando si trattò di sostenere gli interessi della Germania orientale dopo l’unificazione, sia quando si trattò di opporsi agli emendamenti restrittivi delle norme sull’immigrazione. Presidente della SPD nella commissione costituzionale creata dal parlamento federale dopo l’unificazione, dietro suggerimento di Brandt e Engholm nel 1992 V. visitò dodici Stati dell’ex Unione Sovietica, compresa la Russia, e parlò con capi di Stato, ministri, portavoce dell’opposizione, nonché rappresentanti della Chiesa ortodossa e dell’Islam.

Nel 1994 non si ripresentò alle elezioni federali. Nel discorso conclusivo di fronte al parlamento parlò della riforma della Costituzione lamentando l’assenza di elementi plebiscitari e di obiettivi sociali. V. si mostrò altresì deluso del rifiuto da parte della CDU di includere nel preambolo una dichiarazione che indicasse nel completamento della “unificazione interna” del paese uno degli obiettivi della Germania. Tuttavia, grazie ai suoi negoziati, la SPD riuscì a far includere nella Costituzione gli obiettivi della tutela ambientale, della promozione dell’eguaglianza tra i generi e del divieto di discriminazione nei confronti dei disabili.

Nel 1996, in occasione dei suoi settant’anni, V. pubblicò un libro di memorie sugli anni trascorsi a Bonn e a Berlino intitolato Nachsichten. Meine Bonner und Berliner Jahre (“Retrospettive. I miei anni a Bonn e a Berlino”).

Sebbene si fosse gradualmente ritirato dalla politica attiva, V. non cessò il suo impegno in problemi di ordine politico e sociale. Dalla metà degli anni Novanta fu particolarmente attivo nella riconciliazione tra la Germania e Israele. Apparve spesso in televisione come testimone oculare del periodo nazista, e si adoprò attivamente per tener viva la memoria delle atrocità commesse dai nazisti. Preoccupato per il diffondersi di un nuovo estremismo di destra dopo la riunificazione tedesca, nel 1993 rivestì la carica di presidente fondatore della associazione non partitica “Gegen Vergessen – Für Demokratie” (“Contro l’oblio – Per la democrazia”) contro la violenza degli estremismi politici di ogni colore. L’organizzazione mira in particolare a tener viva la memoria del passato nazista della Germania e dei crimini e delle ingiustizie perpetrati durante la dittatura del partito unico nell’ex Repubblica Democratica Tedesca.

Per le sue attività nel 1998 venne conferito a V. stato il Premio Galinski, istituito in memoria dell’ex presidente del Concistoro centrale degli ebrei in Germania Heinz Galinski. Negli anni Novanta V. si fece anche sostenitore dei risarcimenti ai lavoratori coatti durante il regime nazista, allorché la questione fu affrontata dal nuovo governo del cancelliere Gerhard Schröder.

V. è una sorta di istituzione morale della Repubblica federale, come dimostra il fatto che dal 2001 è membro del Consiglio nazionale per le questioni etiche. Nel 2001 è stata pubblicata una raccolta dei suoi discorsi, conferenze e saggi a partire dal 1997 col titolo Demokratie lebt auch vom Widerspruch (“La democrazia si nutre anche di contraddizioni”).

Elke Viebrock (2010)




Voisin, André

V. (nato Bourgeois; Neuilly-sur-Seine 1912-Parigi 1990) entra all’École normale d’instituteurs d’Auteuil, poi insegna un anno a Gennevilliers. È chiamato come segretario del conte di Parigi, all’epoca in esilio a Bruxelles, e avvia una collaborazione con il “Courrier royal”, un bollettino creato dal pretendente al trono per distinguersi dall’Action française. V. si impegna nel movimento monarchico per spirito patriottico di fronte ai pericoli che sembrano provenire dall’altra sponda del Reno e ritiene che sia compito degli insegnanti la difesa del patriottismo a scuola. A questo scopo fonda con Max Richard l’Union coopérative des instituteurs. Diffida dei partiti politici e crede che il progresso verrà dall’azione degli uomini impegnati nelle loro funzioni locali o professionali. Con questa convinzione crea a Parigi “Les métiers français”. Inoltre dirige il bimensile “La justice sociale”, che si richiama al cattolicesimo sociale di Latour du Pin e al comunitarismo di Proudhon.

V., mobilitato nel settembre 1939, è preso prigioniero nel 1940 e liberato nel 1942 con rimpatrio per motivi di salute. Sotto il regime di Vichy accetta di dirigere il Collège d’études coopératives et sociales, che dipende direttamente dal maresciallo Pétain. Si tratta di sviluppare la dottrina dei “corpi intermedi” in opposizione al liberalismo, all’individualismo, al capitalismo, come pure al totalitarismo, quindi di diffondere le idee sociali della Rivoluzione nazionale rifiutandosi al contempo di collaborare con gli occupanti. V. ha anche preso contatti con elementi della Resistenza. Inoltre si dedica alla riqualificazione professionale dei prigionieri di guerra e incontra François Mitterrand, che all’epoca è dirigente clandestino del Mouvement national des prisonniers de guerre et déportés e, dopo la Liberazione, continuerà quest’attività al ministero dei prigionieri di guerra e deportati diretto da Henri Frenay.

Il 13 ottobre 1944 V. fonda il Mouvement fédéraliste français-la Fédération, che riunisce uomini della destra corporativista e maurassiana e altri che si richiamano alla sinistra proudhoniana, con un programma di autonomia regionale e di comunitarismo in un quadro federale. Il movimento nasce dal Centre d’études institutionnelles pour l’organisation de la société française, che mira a instaurare in Francia un ordine sociale fondato sulla famiglia, la professione, il sindacalismo. Quindi si tratta innanzitutto di un federalismo interno alla Francia contrapposto al centralismo giacobino. Tuttavia la Fédération non vuole rimanere in disparte dai numerosi movimenti federalisti europei che stanno sorgendo. V. è segretario generale del Comité de coordination français des mouvements fédéralistes. Per sua iniziativa, nei locali della Fédération in rue Auber a Parigi, si costituisce il 15-16 dicembre 1946 l’Union européenne des fédéralistes, sotto la presidenza dell’olandese Hendrik Brugmans. L’obiettivo dell’UEF è il coordinamento dei diversi movimenti che mantengono la loro autonomia (v. Unione europea dei federalisti).

La Fédération è l’elemento più importante dell’UEF per numero di aderenti e per i buoni rapporti con i dirigenti politici di destra e di centro, i leader del padronato e i sindacalisti non comunisti. V. fa parte del comitato centrale dell’UEF. Orientata politicamente a destra, la Fédération esprime tuttavia preoccupazioni sociali. Di ispirazione cristiana e corporativista, preconizza un’Europa federata di nazioni organizzate in corpi intermedi decentrati (regioni, comuni, professioni). In merito al metodo da adottare per giungere a questa federazione europea, V. e la Fédération pensano a un “patto federale” fra gli Stati, in quanto questi ultimi esistono e per progredire è necessario tenerne conto. È la posizione dei “possibilisti” opposta a quella dei “massimalisti”, che intendono fare appello direttamente al “popolo europeo” per eleggere un’assemblea costituente.

Quando nel 1949 viene costituito il Consiglio d’Europa, i federalisti contano sulla sua Assemblea consultiva, formata da delegati dei parlamenti nazionali, affinché elabori un patto federale che crei un’autorità europea. Ma non sono in maggioranza. Per fare pressione sull’Assemblea, nel settembre 1950 V. suggerisce di creare un Consiglio europeo di vigilanza o Consiglio dei popoli d’Europa, che il 21-24 novembre lancia un appello solenne, corredato da numerose firme, «perché gli Stati democratici dell’Europa disposti ad accettare il principio di una limitazione della loro sovranità si impegnino a sottoscrivere senza indugio un trattato internazionale che convochi un’Assemblea costituente europea incaricata di elaborare un progetto di Patto d’unione federale». Contemporaneamente vengono organizzate manifestazioni popolari. Ma i governi, a cominciare da quello dei laburisti britannici, non sono pronti a rispondere all’appello.

Quando Robert Schuman, con la sua Dichiarazione del 9 maggio 1950, propone a Francia e Germania di mettere in comune carbone e acciaio sotto un’autorità sopranazionale – che sfocerà nella costituzione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) – è un modo di costruire dell’Europa che viene scelto: l’integrazione progressiva di settori dell’attività economica (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Si preferisce il Funzionalismo al federalismo politico, perché è più accettabile per i governi e più attuabile. I federalisti devono accogliere questo metodo, ma approfittano del progetto di esercito europeo per sostenere la tesi che un esercito unificato può essere concepito solo sotto un governo federale. Fanno pressione affinché l’Assemblea della CECA sia incaricata di elaborare un progetto nell’autunno 1952. La loro influenza è decisiva, ma il progetto di Comunità politica europea a carattere federale, consegnato ai ministri il 9 marzo 1953, non verrà adottato dai governi. Il rifiuto del trattato Comunità europea di difesa (CED) da parte dell’Assemblea nazionale il 30 agosto 1954 sbarra la strada per lungo tempo alla realizzazione di un’Europa federale.

All’interno dell’Unione europea dei federalisti V. e la Fédération hanno adottato posizioni autonome sulle modalità di costruzione dell’Europa federale. Il Piano Schuman è sostenuto solo con riserve a causa delle critiche formulate dal padronato, ma è accolto come un mezzo di riconciliazione tra Francia e Germania. Invece in merito al progetto di Comunità politica europea la Fédération muove critiche vivaci, giudicandolo troppo centralista e giacobino, diretto ad istituire un governo assembleare senza tener conto delle comunità naturali del federalismo integrale. V. sostiene l’“Europa delle patrie” e non la loro soppressione. Nell’Union française des fédéralistes, creata il 9 novembre 1952 per riunire le diverse tendenze, l’11-12 aprile 1953 lo scontro è violento tra le due forti personalità di V. e Frenay, ex militante della Resistenza, schierato a sinistra, presidente dell’Unione europea dei federalisti che sostiene il progetto di comunità politica. Quindi V. e la Fédération lasciano sia l’Union française che l’Unione europea dei federalisti, indebolendo il movimento federalista. Nel 1956 la Fédération raggruppa intorno a sé altre tendenze “possibiliste” per formare l’Action européenne fédéraliste.

Da questo momento la Fédération adotta posizioni diverse da quelle dei “massimalisti” che trasformano l’UEF in Movimento federalista europeo. Sostiene la Comunità economica europea, ma rifiuta di chiedere l’elezione del Parlamento europeo a suffragio universale. È ostile al generale Charles de Gaulle, ma mantiene contatti con alcune personalità della IV Repubblica e continua ad essere molto vicina al Conseil national du patronat français. V., insieme a Jacques Delors, diventa consigliere tecnico nel gabinetto del primo ministro Jacques Chaban-Delmas. Svolge un ruolo importante nell’elaborazione del progetto di riforma per il decentramento amministrativo (1972) e, in seguito, della legge di Gaston Defferre di regionalizzazione sotto il governo socialista (1982). La Fédération sostiene la maggior parte dei progetti governativi in materia di decentramento regionale. La sua prima preoccupazione è il federalismo interno. Quando nel 1973 i principali movimenti comprendono la necessità di riavvicinarsi fondando l’Unione dei federalisti europei presieduta da Étienne Hirsch, con Altiero Spinelli, all’epoca membro della Commissione europea e ormai convinto che per avanzare verso il federalismo vada utilizzato il quadro comunitario, la Fédération si astiene dal partecipare manifestando il suo scetticismo.

V. continua a dirigere la Fédération fino alla morte. Profondamente attaccato alle tradizioni e ai valori francesi, non ha mai pensato che il federalismo potesse disgregare la Francia. In esso vedeva piuttosto lo strumento per rigenerarla e nell’Europa il quadro entro il quale la Francia avrebbe potuto esercitare la sua influenza.

Pierre Gerbet (2012)




von der Groeben




Von Der Groeben, Hans

G. (Langheim/Krs. Rastenburg 1907-Rheinbach 2005), dopo aver conseguito la maturità, nel 1925 intraprende gli studi di ingegneria presso la Technische Hochscule di Berlino. Trascorre un anno come tirocinante alla Siemens dopo il quale decide di abbandonare l’ingegneria e di studiare diritto ed economia politica, prima a Berlino e poi a Bonn e Gottinga. Nel 1933 supera l’esame di Stato.

Dopo gli studi G. entra nel ministero per la Nutrizione del Reich, ma nel 1939 assolve agli obblighi militari e dal 1942 al 1945 è al fronte. Dopo la guerra entra nel ministero delle Finanze e si occupa del controllo delle aziende statali e dei finanziamenti per la ricostruzione edile.

Nel 1952 è chiamato al ministero dell’Economia e gli viene affidata la direzione della sottosezione “Piano Schuman”. Dal 1953, nominato dirigente ministeriale, rappresenta il governo tedesco nella commissione di coordinamento della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA). Dopo la Conferenza di Messina dei ministri degli Esteri (giugno 1955), G. e il francese Pierre Uri ricevono l’incarico dal ministro belga Paul-Henri Spaak di elaborare un ampio rapporto in merito alle possibilità di una integrazione economica che coinvolga un più ampio numero di Stati europei (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Il “Rapporto Spaak” è entrato nella storia come documento base dei Trattati di Roma, firmati il 25 marzo 1957. Il rapporto rileva un importante ritardo dell’economia e della tecnologia europea rispetto a quelle degli Stati Uniti e propone la creazione di una Comunità economica europea e di una Comunità europea dell’energia atomica per assicurare all’Europa una capacità competitiva a lungo termine. G. è nominato presidente della commissione che si occupa del rapporto e con il suo lavoro riesce a vincere lo scetticismo dell’allora ministro dell’Economia tedesco Ludwig Erhard.

Al momento dell’entrata in vigore dei Trattati di Roma, il 1° gennaio 1958, G. è chiamato al fianco del professor Walter Hallstein, candidato alla presidenza della Commissione europea, a far parte della prima commissione della Comunità economica europea (CEE) a Bruxelles. Durante il suo mandato, G. è responsabile per la competitività, per l’equiparazione del diritto e per l’armonizzazione fiscale. In seguito gli viene affidata anche la politica regionale (v. anche Politica di coesione), quella riguardante i servizi e il diritto che regola la scelta del domicilio. La competitività è affidata allora all’olandese Emanuel Sassen.

G., riconosciuto come il pioniere della costruzione dell’unificazione europea, dà contributi importanti all’applicazione dei trattati (v. anche Diritto comunitario, applicazione del), presenta un progetto per la creazione di una società per azioni europea ed è l’iniziatore del fondo regionale europeo. Tra i maggiori successi personali di G. vi è l’introduzione, poco prima del suo ritiro, di un sistema comune per l’imposta sul valore aggiunto.

La Commissione europea che si insedia nel 1970 non vede più G. comparire fra i suoi membri, ma negli anni che seguono non sarà solo uno stimato testimone del processo di integrazione e continuerà a essere una voce presente e importante per lo studio e l’analisi del percorso e degli scopi dell’Europa unita.

Agata Marchetti (2010)




Voto all’unanimità

Il voto all’unanimità costituisce uno dei tre metodi di deliberazione del Consiglio dei ministri previsti dall’articolo 205 del Trattato istitutivo della Comunità europea (CE) (v. Trattati di Roma). Tale disposizione non definisce la nozione di unanimità, che d’altronde è del tutto intuitiva, ma si limita a prevedere che le astensioni dei membri del Consiglio presenti o rappresentati non ostano all’adozione delle deliberazioni per le quali è richiesta l’unanimità. A contrario, va ritenuto che l’assenza di uno o più membri del Consiglio impedisce l’adozione di decisioni (v. Decisione) per cui sia richiesto il voto all’unanimità; la cosiddetta “politica della sedia vuota”, vale a dire la non partecipazione alle riunioni del Consiglio da parte di una delegazione nazionale, può dunque sensibilmente ostacolare il funzionamento di questa istituzione.

Il voto all’unanimità comporta evidentemente l’attribuzione di un diritto di veto a ogni singolo Stato membro. Per tale ragione, tenuto conto della costante tendenza verso una sempre più stretta integrazione che è propria dell’Europa comunitaria, il campo di applicazione di tale metodo è andato progressivamente riducendosi a beneficio del voto a Maggioranza qualificata, nel corso delle varie riforme dei trattati che si sono succedute a partire dalla metà degli anni Ottanta.

Il voto all’unanimità continua tuttavia a essere previsto in un numero significativo di casi, che possono essere raggruppati in quattro categorie. In primo luogo, i casi di decisioni del Consiglio che mirano a completare certi aspetti ben precisi dei Trattati CE e Unione europea (UE) (v. Trattato di Maastricht), ad esempio l’eventuale complemento dei diritti derivanti dalla Cittadinanza europea (articolo 22 del Trattato CE) o l’adozione dell’atto relativo all’elezione del Parlamento europeo (articolo 190 del Trattato CE) (v. anche Elezioni dirette del Parlamento europeo). In questa categoria rientrano anche le cosiddette “passerelle” (v. Passerella comunitaria), vale a dire le disposizioni che permettono di modificare in maniera semplificata le procedure decisionali (v. Processo decisionale) previste dai Trattati; ad esempio l’eventuale passaggio di taluni aspetti relativi alla Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale – attualmente trattati conformemente alle procedure intergovernative del cosiddetto “terzo pilastro” (v. Pilastri dell’Unione europea) – verso le procedure ordinarie proprie del Trattato CE (articolo 42 del Trattato UE) oppure l’eventuale passaggio dall’attuale procedura di decisione del Consiglio all’unanimità previa semplice consultazione del Parlamento europeo alla Procedura di codecisione con voto a maggioranza qualificata in Consiglio nei settori della libera circolazione delle persone e della Cooperazione giudiziaria in materia civile (articolo 67 del Trattato CE), della politica sociale (articolo 137 del Trattato CE) e della politica ambientale (articolo 175 del Trattato CE).

In secondo luogo, i casi di decisioni del Consiglio cui viene riconosciuto un effetto giuridico sovraordinato rispetto alle norme ulteriori adottate dalle Istituzioni comunitarie, ad esempio la cosiddetta “decisione comitatologia”, vale a dire la decisione che stabilisce le condizioni e le modalità che la Commissione europea deve rispettare nell’esercizio delle sue competenze di esecuzione degli atti comunitari (articolo 202 del Trattato CE) (v. anche Diritto comunitario) o la decisione relativa al sistema delle risorse proprie della Comunità (articolo 269 del Trattato CE) (v. Comunità economica europea).

Vi sono poi i rari casi in cui il Consiglio può derogare alle norme stabilite dal Trattato CE, ad esempio l’eventuale regressione della liberalizzazione dei movimenti di capitali (v. Libera circolazione dei capitali) da e verso i paesi terzi (articolo 57 del Trattato CE) o l’eventuale autorizzazione di un aiuto di Stato (v. Aiuti di Stato) che appaia in linea di principio incompatibile col mercato comune (articolo 88 del Trattato CE) (v. Comunità economica europea).

Infine, i casi di decisioni del Consiglio nei settori considerati politicamente sensibili, in cui gli Stati membri sono disposti a cedere la competenza (v. Competenze) alla Comunità soltanto a condizione di avere la garanzia di poter impedire l’adozione di decisioni a loro sgradite. Fra gli ancora abbastanza numerosi casi in questione si possono menzionare le decisioni in materia di Politica estera e di sicurezza comune (articolo 23 del Trattato UE), in materia di cooperazione giudiziaria penale e cooperazione di polizia (articolo 34 del Trattato UE), in materia fiscale (v. anche Politica fiscale) (articolo 93 del Trattato CE) e in parte in materia di Politica sociale (articolo 137 del Trattato CE). Va qui ricordata anche la disposizione che consente al Consiglio di esercitare le competenze implicite della Comunità adottando gli atti necessari per la realizzazione degli scopi del Trattato pur in assenza di basi giuridiche specifiche (articolo 308 del Trattato CE).

I casi relativi a quest’ultima categoria sono quelli per cui è più probabile che ulteriori riforme dei Trattati conducano al passaggio dal voto all’unanimità verso quello a maggioranza qualificata. Così il Trattato di Lisbona – che modifica profondamente gli attuali Trattati CE e UE – generalizza, pur con qualche eccezione di rilievo, il voto a maggioranza qualificata nei settori della cooperazione giudiziaria penale e della cooperazione di polizia.

La nozione di voto all’unanimità va concettualmente distinta da quella di decisione assunta di comune accordo dai governi degli Stati membri, che è prevista ad esempio per la fissazione delle Sedi istituzionali (articolo 289 del Trattato CE) o per la nomina del presidente e dei membri del comitato esecutivo della Banca centrale europea (articolo 112 del Trattato CE) o dei giudici e avvocati generali della Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) e del Tribunale di primo grado (articoli 223 e 224 del Trattato CE). In queste particolari fattispecie, infatti, la decisione non viene assunta dal Consiglio in quanto tale, ma è di carattere meramente intergovernativo (v. anche Cooperazione intergovernativa). Per di più essa richiede necessariamente l’adesione positiva di tutti i governi degli Stati membri e un’eventuale astensione, a differenza di quanto previsto per il voto all’unanimità, ne impedirebbe il perfezionamento.

Infine, la nozione qui in esame va tenuta distinta anche dalla nozione di consenso, che è propria del diritto delle organizzazioni internazionali. Il metodo del consenso permette di adottare decisioni senza ricorrere formalmente al voto, quando il presidente dell’organo chiamato a deliberare constati che in seno a tale organo non sussistono più evidenti opposizioni all’adozione della decisione in questione. Introdotto nella Comunità per via di prassi in seguito all’applicazione del cosiddetto Compromesso di Lussemburgo, tale metodo si è poi radicato per quanto riguarda le decisioni di carattere politico del Consiglio europeo. Il precitato Trattato di Lisbona formalizza, all’articolo 9b del Trattato UE modificato, il metodo del consenso come sistema di deliberazione ordinario del Consiglio europeo.

Paolo Stancanelli (2010)