Reagan, Ronald Wilson

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R. (Tampico, Illinois 1911-Los Angeles 2004) dopo aver conseguito la laurea in economia e sociologia presso l’Eureka college di Dixon, lavorò come annunciatore sportivo presso alcune emittenti radiofoniche e, dal 1937, intraprese la carriera di attore cinematografico. Tra il 1942 e il 1945 prestò servizio, girando alcuni film, per l’esercito degli Stati Uniti. Nel 1947 fu eletto presidente del sindacato che rappresentava gli attori hollywoodiani affiliato all’American federation of labor (Screen actors guild), e negli anni successivi fu riconfermato per cinque volte.

Di fede e “formazione” democratica, R. cominciò a maturare convinzioni conservatrici tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta, e nel 1962 si iscrisse al Partito repubblicano. Come esponente del Partito, conquistò un’ampia notorietà presso l’opinione pubblica statunitense nel 1964, quando pronunciò un discorso televisivo a favore del senatore Barry Goldwater, il candidato repubblicano alla presidenza.

Nel 1966 fu nominato candidato del Partito repubblicano per la carica di governatore della California nelle successive elezioni, in cui s’impose sul governatore uscente, il democratico Edmund G. Brown. Riconfermato nel 1970, R. ricoprì la carica di governatore della California per otto anni, assurgendo a figura di spicco del panorama politico nazionale. Durante i due mandati, attuò una politica volta a favorire la riduzione delle imposte a livello locale, che comportò un aumento del deficit statale, e una riforma dello Stato sociale che produsse la drastica riduzione degli interventi pubblici a favore delle classi disagiate.

Nel 1974, R. rinunciò a candidarsi per ottenere un terzo mandato come governatore della California per perseguire l’obiettivo, già sfiorato nel 1968, di ottenere la nomination a rappresentare il Partito repubblicano nelle presidenziali del 1976. Ancora una volta, la Convenzione repubblicana gli negò la nomina, preferendogli il presidente uscente, Gerald Ford. Quattro anni dopo, R. prevalse ampiamente nelle primarie del Partito repubblicano, riducendo il novero dei concorrenti al solo George Bush, e ponendo le condizioni per la conquista della nomination, che gli fu infine riconosciuta dalla Convenzione nazionale tenutasi a Detroit.

Sostenuto da un vasto schieramento comprendente la destra religiosa e quella liberista, che denunciava l’ingerenza dell’esecutivo nell’economia e nella società, R. condusse una campagna elettorale sulle corde del populismo. Illustrò un programma che coniugava una politica economica ispirata ai principi della supply side economics, basata su un drastico taglio delle imposte come strumento per incoraggiare la domanda e gli investimenti, e una politica estera il cui obiettivo primario era il conseguimento della superiorità sull’Unione Sovietica nel campo degli armamenti convenzionali e nucleari, che avrebbe comportato un aumento vertiginoso del budget della difesa: secondo il candidato repubblicano era infatti necessario porre rimedio agli errori delle precedenti amministrazioni, che avevano permesso che la distensione garantisse all’avversario una superiorità strategica non tollerabile.

Le relazioni con l’Europa furono difficili e a tratti addirittura ostili: il ministro degli Esteri francese Claude Cheysson parlò nel luglio 1982 di divorzio tra Stati Uniti ed Europa, e al Congresso fu discussa la proposta di un ritiro parziale delle forze statunitensi dal territorio europeo.

I rapporti con la Comunità economica europea si deteriorarono seriamente a causa delle scelte di politica finanziaria e commerciale operate, soprattutto durante il primo mandato, dall’amministrazione R. La strategia di politica economica di R., volta a favorire la ripresa senza ingenerare cicli inflattivi, e dunque basata su una politica monetaria severa e sul mantenimento di alti tassi di interesse, provocò il rafforzamento del dollaro: di qui l’aumento degli interessi pagati dai governi europei sui debiti contratti e del prezzo del petrolio; inoltre, le banche centrali dei paesi europei erano costrette a elevare i tassi di interesse per evitare che i capitali si concentrassero negli Stati Uniti, e dunque i governi dovevano adottare una politica di austerità. L’amministrazione R. considerava un indubbio successo l’aver indotto gli europei a una politica di contenimento dell’inflazione; i dirigenti europei erano concordi nell’attribuire agli Stati Uniti la responsabilità delle difficoltà che attraversano le economie dei loro paesi e della recessione che nel 1981 colpì le economie occidentali.

Nemmeno gli Stati Uniti erano del resto immuni dalle conseguenze negative della politica economica di R.: l’apprezzamento del dollaro rischiava infatti di rallentare le esportazioni rendendo i prodotti statunitensi meno competitivi. Per neutralizzare questo pericolo, malgrado le professioni di fede liberista nel libero mercato e in netta contraddizione con la politica di deregulation avviata all’interno degli Stati Uniti, R. ricorse ampiamente a pratiche protezionistiche, che sollevarono le proteste della Comunità economica europea. Fin dalla metà degli anni Settanta, di fronte alla crisi economica mondiale e ai crescenti tassi di disoccupazione, e nonostante gli accordi raggiunti in seno all’Accordo generale sulle tariffe e il commercio (GATT), il protezionismo si era diffusamente affermato, sino a divenire il tratto dominante nelle relazioni commerciali mondiali. L’amministrazione R. si uniformò a questa tendenza, aggravatasi a seguito del secondo shock petrolifero del 1979: è stato calcolato che nel 1983 il 30% dei beni manufatti importati negli Stati Uniti erano sottoposti a misure restrittive. Le recriminazioni sul tema erano comunque reciproche: il governo di Washington accusava la Comunità economica europea di falsare la libera concorrenza sui mercati mondiali dei beni agricoli attraverso la Politica agricola comune (PAC). Solo in parte le rimostranze di R. erano fondate – i prodotti agricoli europei assorbivano una percentuale irrisoria del mercato mondiale – ma è indubbio che caratterizzarono in senso negativo i rapporti con l’Europa nei primi anni della sua presidenza.

Le polemiche, sopite con la ripresa economica che si verificò a partire dal 1983, e smorzate dall’Accordo del Plaza che sanciva l’impegno da parte del governo statunitense e dei principali partner commerciali a interventi congiunti per stabilizzare il valore del dollaro, riemersero dopo la ratifica dell’Atto unico europeo (AUE). L’amministrazione R. aveva seguito con grande scetticismo il rilancio che, dopo la fase dell’eurosclerosi a cavallo degli anni Settanta e Ottanta, condusse alla convocazione delle Conferenze intergovernative e alla firma dell’AUE. Pur confermando il sostegno degli Stati Uniti all’integrazione, R. e i suoi collaboratori, probabilmente influenzati dalla special relationship con il governo britannico guidato dalla euroscettica Margaret Thatcher, nutrivano notevoli riserve circa la possibilità che il processo desse luogo a un progresso significativo. In seguito alla conclusione delle ratifiche dell’Atto unico, emersero nel governo statunitense timori a proposito del suo contenuto: in particolare si riteneva che il completamento del Mercato unico europeo, con la Libera circolazione dei capitali, la Libera circolazione dei servizi e la Libera circolazione delle persone e l’eliminazione di ogni ostacolo non tariffario al commercio interno, avrebbe indotto la Comunità economica europea a elevare la Tariffa esterna comune. La stampa statunitense riecheggiava la posizione del governo paventando la costruzione di una fortress Europe.

La contrapposizione tra gli statunitensi e gli europei emerse inoltre in merito all’opportunità dell’uso della leva economica come strumento di pressione politica nei confronti dell’Unione Sovietica, e raggiunse il culmine a proposito della questione del gasdotto siberiano. In risposta all’invasione dell’Afghanistan, Jimmy Carter aveva imposto nei confronti dell’Unione Sovietica sanzioni economiche che comprendevano un embargo sulle esportazioni di grano. R. rimosse tale embargo per rispondere alle sollecitazioni provenienti dai produttori agricoli, severamente danneggiati dalla misura, e giustificò la sua decisone adducendo l’irrilevanza “strategica” del bene e sostenendo anzi che la necessità di acquistare grano avrebbe costretto l’Unione Sovietica a distogliere fondi dal budget della difesa. In seguito all’imposizione della legge marziale in Polonia nel dicembre 1981, R. applicò sanzioni economiche il cui scopo principale era quello di impedire all’Unione Sovietica l’accesso alla tecnologia occidentale, ma dovette confrontarsi con il rifiuto degli europei di adottare misure simili. In particolare, gli Stati Uniti intendevano ottenere che gli europei sospendessero la fornitura della tecnologia necessaria per la costruzione di un gasdotto che doveva trasportare il gas siberiano all’Europa occidentale, e affrancare almeno in parte l’economia europea dalla dipendenza dal petrolio mediorientale. Per raggiungere tale scopo, R. estese la legislazione statunitense alle imprese europee, impedendo loro di vendere all’Unione Sovietica materiale di provenienza statunitense. La Comunità economica europea condannò la decisione come una “interferenza inaccettabile”, e le imprese francesi e britanniche onorarono gli impegni sottoscritti.

Naturalmente, la contrapposizione su questo aspetto non derivava solo da contrastanti interessi economici – l’Europa occidentale aveva flussi commerciali molto più intensi con i paesi del blocco comunista – ma era il portato di una differente, se non antitetica, visione del rapporto con l’Unione Sovietica. Anche sul piano politico, le relazioni tra gli Stati Uniti e i loro alleati europei furono percorse, soprattutto durante il primo mandato di R., da laceranti tensioni che si manifestarono anzitutto sul piano della politica di sicurezza. A partire dal 1981 R. avviò un processo di massiccio riarmo che, se da un lato si poneva in linea di continuità rispetto a una direttrice già affermatasi durante gli ultimi anni della presidenza Carter, dall’altro costituiva una notevole accelerazione in quella direzione. La storiografia ha evidenziato come queste scelte abbiano contribuito ad affrettare il processo di sfaldamento dell’Unione Sovietica, facendo esplodere le debolezze strutturali e le contraddizioni del sistema e costringendo la dirigenza sovietica a uno sforzo produttivo che si rivelò insostenibile. I governi europei colsero solo in parte la portata delle conseguenze che la politica reaganiana avrebbe scatenato e si allarmarono di fronte alla prospettiva di una ripresa della corsa agli armamenti. Né furono rassicurati dalla proposta di “opzione zero” o dall’avvio dei negoziati Strategic arms reduction talks (START) e di quelli per la riduzione dei missili a media gittata: la prima si riassumeva nella rinuncia da parte degli Stati Uniti a dislocare i missili Pershing II e Cruise (gli euromissili) in cambio della disponibilità sovietica a rimuovere gli SS-20 e dava il chiaro segnale dell’unilateralismo di R., che non consultò gli alleati prima di assumere l’iniziativa che si sarebbe ripercossa sulla sicurezza europea. I negoziati per il disarmo procedettero assai stancamente e furono infine sospesi. Un effetto nocivo sulle relazioni tra l’Europa e gli Stati Uniti ebbe inoltre il progetto, annunciato da R. nel marzo 1983, della Strategic defense initiative (SDI). Subito ribattezzata Star sars dalla stampa, l’iniziativa prevedeva che gli Stati Uniti si dotassero di un sistema di intercettazione antimissile, che avrebbe garantito l’inviolabilità del loro territorio: ciò indusse negli europei il sospetto che gli Stati Uniti volessero procedere al decoupling, allo “sganciamento” della propria sicurezza dalla difesa dell’Europa.

In questo quadro di rapporti problematici, si inserì inoltre l’ondata di manifestazioni antiamericane contro il dispiegamento dei missili Pershing II e Cruise deciso dall’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) nel dicembre del 1979.

Altri motivi di contrapposizione che segnarono la prima fase dell’amministrazione R. derivavano dalla politica nei confronti dell’America Latina e Centrale. Tale politica era ispirata a un acceso anticomunismo, alla “dottrina Kirkpatrick” che giustificava l’appoggio ai regimi autoritari non comunisti in quanto suscettibili di evolvere verso la democrazia, e alla “dottrina R.” che impegnava gli Stati Uniti a intervenire a sostegno dei freedom fighters. Coerentemente con i principi così enunciati, l’amministrazione statunitense sostenne massicciamente, con mezzi legali e non, il movimento di opposizione al governo sandinista e i governi del Salvador, del Guatemala e dell’Honduras. In Europa si riteneva al contrario che la migliore strategia nella lotta alla diffusione del comunismo fosse il sostegno a elementi moderati e riformisti e pertanto la politica di R. era considerata con accenti molto critici. La contrapposizione raggiunse l’apice nell’ottobre 1983, quando gli Stati Uniti invasero la piccola isola di Grenada allo scopo di deporre il filocomunista generale Hudson Austin.

Più collaborativi furono inizialmente i governi europei nei confronti dell’azione statunitense in Medio Oriente, che vide la partecipazione della Francia, del Regno Unito e dell’Italia alla spedizione in Libano, voluta da R. per porre fine alla crisi innescata dall’invasione israeliana. In seguito, gli europei presero le distanze dalla politica reaganiana nei confronti della Libia, il cui governo fu accusato nel gennaio 1986 di fomentare e appoggiare il terrorismo palestinese, condannarono il bombardamento di Tripoli e furono, almeno agli occhi degli statunitensi, poco solidali e reattivi nella lotta nei confronti del terrorismo che in quegli anni colpì gli Stati Uniti con numerosi attentati. La crisi emerse con grande fragore tra gli Stati Uniti e l’Italia a seguito del sequestro dell’Achille Lauro nell’ottobre 1985: la pretesa di Washington di giudicare i responsabili, costretti a atterrare presso la base militare statunitense di Sigonella, suscitò la ferma opposizione del governo italiano, che fece valere la giurisdizione territoriale e prese in consegna i terroristi.

Lo storico norvegese Geir Lundestad ha evidenziato come la crisi nei rapporti con gli Stati Uniti fosse all’origine della proposta francese, avanzata nell’aprile 1984 e vanificata dalla dura reazione statunitense, di rivitalizzare l’Unione dell’Europa occidentale (v. Lundestad, 1998); altri hanno inoltre posto in relazione i difficili rapporti con gli Stati Uniti e i tentativi, contenuti nell’Atto unico europeo, di rafforzare il sistema della Cooperazione politica europea. Quest’ultimo giudizio sembra trascurare due circostanze: la portata assai limitata delle riforme introdotte dall’Atto unico e il fatto che tra il 1983 e il 1984 maturarono le condizioni per un graduale ma sensibile miglioramento delle relazioni. Nonostante permanessero divergenze circa la politica mediorientale, l’inizio del dispiegamento degli euromissili in Europa, avvenuto a partire dal novembre 1983, contribuì a rassicurare gli europei e a rinsaldare i legami con l’alleato statunitense. La svolta fu ancora più evidente a partire dal 1985, da quando cioè il nuovo corso inaugurato da Michail Gorbačëv in Unione Sovietica consentì un proficuo dialogo tra le superpotenze che, dopo i summit tra R. e Gorbačëv di Ginevra e Reykjavik, sfociò nel dicembre 1987 nella firma dell’accordo per la rimozione dal territorio europeo dei missili a media gittata. Così come la tensione tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica aveva condizionato negativamente le relazioni interne all’alleanza occidentale, la nuova distensione si riverberò anche sui rapporti tra gli Stati Uniti e l’Europa.

Concluso il secondo mandato, nel gennaio del 1989 R. si ritirò a vita privata.

Daniela Vignati (2010)

Bibliografia

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