Taviani, Paolo Emilio

T. (Genova 1921-Roma 2001) è stato definito uno dei padri della Repubblica italiana. Ma certamente la sua attività per l’unificazione europea nei primi anni Cinquanta permette di collocarlo, sebbene la sua azione europeistica non sia stata talora esente da contraddizioni, anche nella piccola schiera dei padri fondatori dell’Europa comunitaria, avendo egli svolto un ruolo di primissimo piano nell’avvio del processo d’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).

Cattolico rigoroso ma al tempo stesso entusiasta di Mazzini, gli anni della formazione intellettuale di T. coincisero con il periodo “‘maturo” del fascismo. Nel 1931, giovanissimo, divenne presidente della Federazione universitaria cattolica italiana (FUCI) genovese, partecipando assiduamente all’attività di un gruppo di studio semiclandestino di giovani cattolici costituitosi in quell’anno sotto la guida dei cardinali Giuseppe Siri, Emilio Guano e Franco Costa. Fu, quello, anche l’anno in cui nel giovane genovese cominciò a svilupparsi un forte interesse per le questioni colombiane, un’avventura intellettuale che lo avrebbe assorbito per tutta la vita. Tra i venti e i trent’anni s’immerse negli studi: conseguì tre lauree, approfondendo in particolare le tematiche del corporativismo (avrebbe ottenuto, nel 1942, la libera docenza in Storia dell’economia e delle dottrine economiche presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Genova), scrisse testi di notevole impegno sui temi economico-sociali, maturò un senso profondo dello Stato. Nel suo cammino formativo si colloca la frequenza, da un lato, dell’Università Cattolica di padre Gemelli, contrassegnata dal consenso ufficiale al regime fascista, da cui derivò la concezione dirigistica dello Stato in economia, dall’altro l’ambiente fucino del cardinale Giovanni Battista Montini (v. Paolo VI), antifascista, aperto sul mondo. Pur appartenendo alla generazione cosiddetta “dei littoriali” – si era iscritto nell’aprile del 1930 al Partito nazionale fascista così come al Gruppo universitario fascista (GUF) genovese – nell’ambiente fucino T. maturò progressivamente la scelta democratica, antifascista, degasperiana, filoamericana, cui sarebbe rimasto fedele nel tempo.

La sua adesione al fascismo emerse soprattutto nel periodo della guerra d’Etiopia. Erano gli anni del grande consenso e dei vaneggiamenti imperialistici che coinvolgevano gran parte della cultura italiana del tempo. T. non seppe sottrarsi alla grande illusione e, anzi, ne rimase affascinato anche dopo il suo distacco dal regime. Continuò ad aderire al fascismo durante la guerra di Spagna, per poi allontanarsene gradualmente a partire dalla seconda metà del 1938, seguendo il travaglio intellettuale che coinvolse gran parte del mondo cattolico. La persecuzione degli ebrei, l’asse con la Germania nazista, ma soprattutto la guerra e il prevalere delle correnti più radicali all’interno del fascismo, contribuirono al suo definitivo distacco dal regime.

Tra il 1941 e il 1943 fece parte del Consiglio nazionale del Movimento laureati cattolici, partecipando allo storico convegno di Camaldoli dei cui enunciati, favorevoli a prospettive di economia “mista”, fece tesoro quando si trovò a collaborare alla stesura, in sede di Assemblea costituente, delle norme costituzionali sulla proprietà.

A partire dal 1941 si avvicinò al Movimento cristiano sociale promosso da Gerardo Bruni, dalla cui confluenza con gli esponenti del disciolto Partito popolare italiano (PPI) nasceva a Genova, il 27 luglio 1943, il Partito democratico sociale cristiano della Liguria, di cui T. avrebbe ben presto assunto la segreteria regionale. Fu solo, tuttavia, dopo l’incontro con Alcide De Gasperi e con il centro democristiano romano, in cui si respirava l’aria del popolarismo internazionalista, che il cristianesimo sociale del giovane uomo politico genovese assunse un’impronta laica e liberale, inserendo fatti e problematiche italiane nella più ampia e ineludibile prospettiva europea e internazionale.

Il 9 settembre 1943, all’indomani dell’armistizio, T. partecipava, nello studio dell’avvocato democristiano Filippo Guerrieri, alla riunione nel corso della quale il Comitato ligure dei partiti antifascisti veniva trasformato in Comitato di liberazione nazionale (CLN) ligure, con competenza anche provinciale. Da questo momento cominciava la sua avventura resistenziale. “Pittaluga” fu il suo nome di battaglia. Rappresentò la Democrazia cristiana (DC) in seno al CLN regionale ligure durante tutto il periodo cospirativo. Tenne i contatti con il Comitato di liberazione nazionale Alta Italia, nonché con le missioni alleate e i macquis francesi. Fu lui a presiedere la riunione del CLN che, nella notte del 23 aprile, decise l’insurrezione di Genova di fronte ai nazisti. Fu ancora lui a diffondere dalla stazione radio sulle alture di Granarolo il messaggio della liberazione della città. Era il 26 aprile 1945.

Il periodo della Resistenza lo avvicinò “moralmente” all’europeismo. In quel periodo sviluppò l’attenzione ai temi internazionali ed europei, attraverso il contatto con esponenti democristiani di formazione diversa dalla sua sia a livello nazionale sia a livello locale (Lazzaro Maria De Bernardis, Vittorio Pertusio, Carlo Russo, Giorgio Bo), ma anche con aderenti al CLN ligure che appartenevano a quel mondo laico, liberale e azionista in special modo, certamente non estraneo alla cultura europeistica. Si pensi per esempio ai liberali Francesco Manzitti, Errico Martino e Bruno Minoletti, agli azionisti Lino Marchisio e Leopoldo Di Renzo, al socialista Alfredo Poggi. Di T. è il documento della DC ligure più significativo nel periodo della Resistenza non solo per le tematiche economico-sociali, ma anche per quanto attiene ai nuovi assetti politici internazionali: le Idee sulla Democrazia cristiana, diffuse in clandestinità a partire dalla fine del 1944. Partendo da una certo non scontata analisi della crisi profonda in cui erano cadute le grandi potenze del passato, il documento metteva in luce l’esigenza di «superare il nazionalismo, coordinandolo – senza negarlo – in un più vasto concetto della comunità statale», prevedendo «la suddivisione dei continenti in unità federative internazionali». Non erano inoltre dimenticati temi cari al personalismo, quali il decentramento amministrativo e il riconoscimento delle autonomie locali, attraverso il rafforzamento delle comunità intermedie fra l’individuo e lo Stato.

Dopo la Liberazione, T. fu designato membro della Consulta nazionale e, nel 1946, venne eletto all’Assemblea costituente, dove fece parte della terza sottocommissione che si occupava di diritti e doveri nel campo economico e sociale. Nel dicembre 1946 entrò a far parte della direzione DC, venendo successivamente nominato vicesegretario del partito. Fu lui a rappresentare l’integrazione della nuova generazione con il gruppo ex popolare.

Nell’aprile 1948 venne eletto per la prima volta deputato, dando avvio in quel momento alla mai interrotta presenza nel Parlamento repubblicano. Politico dall’intelligenza vivace e dalla forte propensione alla gestione del potere, egli non poteva ignorare le trasformazioni politiche ed economiche seguite alla Seconda guerra mondiale. Fu allora che l’apertura internazionalistica agevolmente innestata nella sua formazione cattolica, l’esperienza della guerra e del superamento dei nazionalismi, l’attenzione alla difesa delle autonomie locali di cui la DC si era fatta fautrice, le idee appena abbozzate di federazione già emerse nel periodo della Resistenza, si fusero nel suo pensiero in un disegno unitario di federazione europea (v. Federalismo), destinato a precisarsi negli anni successivi. La chiara percezione della crisi del nazionalismo alimentava in lui una precisa concezione “supernazionalistica”. Alla base dell’integrazione europea egli poneva, per un verso, il superamento dell’unità di misura nazionale, per l’altro l’identità di cultura, di civiltà, l’esistenza di una comune Weltanschauung europea. Non erano però solo le riflessioni teoriche a spingerlo verso l’europeismo. Un contributo di grande rilevanza veniva anche da ragioni “pratiche”: «l’impossibilità di una politica nazionalistica e autarchica per l’Italia», la «convenienza per l’Italia di una integrazione sul piano sopranazionale rispetto alle semplici e tradizionali alleanze militari». Sul piano politico, T. credeva fermamente che soltanto un’Europa unita avrebbe potuto contare nel mondo di domani. Ragioni ideali e ragioni d’opportunità convergevano in lui verso un unico obiettivo.

Nel giugno del 1949, al congresso democristiano di Venezia, fu eletto, nonostante la giovane età, segretario del partito, seppur per un periodo transitorio, dimostrandosi intransigente difensore della linea maggioritaria degasperiana. Lasciata a Guido Gonella la segreteria nell’aprile del 1950, si occupò più direttamente del settore esteri della DC. In quello stesso anno, riprendendo l’antica testata di Filippo Meda, fondò la rivista “Civitas”, in cui il tema dell’Europa unita era trattato con particolare attenzione.

Nel giugno 1950, T. fu nominato alla guida della delegazione italiana che, a Parigi, avrebbe partecipato alla Conferenza per la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA). Lo stretto rapporto che da quel momento istituì con Jean Monnet valse a fargli capire l’importanza delle istituzioni federali e soprattutto l’esigenza di superare all’interno di queste il principio dell’unanimità (v. anche Voto all’unanimità), relativizzando invece il tema delle elezioni dirette (v. anche Elezioni dirette del Parlamento europeo). La coscienza delle novità politiche insite nel Trattato CECA era in lui limpida: «Comincia a vivere, oggi – avrebbe affermato in occasione dell’insediamento a Lussemburgo dell’Alta autorità – la prima comunità sopranazionale: è un esperimento nuovo nella storia, è il primo audace, rivoluzionario tentativo di passare dall’internazionale al sopranazionale».

Nel febbraio 1951 fu chiamato a presiedere la delegazione italiana alla Conferenza per la Comunità europea di difesa (CED). Fu lui a organizzare l’incontro italo-francese di S. Margherita tra De Gasperi, Carlo Sforza, René Pleven e Robert Schuman.

A T., che diventava in tal modo uno dei perni dell’azione federalistica del presidente del Consiglio, De Gasperi affidò i compiti più delicati in merito alle sorti della CED e della Comunità politica europea (CPE). Fu lui a presentare alla stampa il progetto di De Gasperi relativo all’art. 38 e alla procedura di carattere precostituente che esso conteneva. Fu lui a sostituire il presidente del Consiglio nella decisiva Conferenza dei ministri di Parigi, il 19 maggio 1952, che preludeva alla firma del progetto di trattato della CED.

Favorevole alla convocazione di una Costituente europea, nel settembre 1952 fu tra i fautori del progetto governativo franco-italiano che affidava all’assemblea della CECA allargata il compito di redigere un progetto di Statuto della Comunità politica europea. A questo fine, tra il 9 e il 10 settembre 1952, fece parte per l’Italia del Comitato di redazione incaricato di redigere il testo di risoluzione definitivo con il quale i Sei chiedevano che l’Assemblea della CECA allargata (poi denominata Assemblea ad hoc) si costituisse in assemblea costituente.

L’attualità delle sue proposte sull’assetto istituzionale della Comunità è stupefacente (v. Istituzioni comunitarie). Egli poneva l’accento in particolar modo sul superamento del principio dell’unanimità e quindi del veto, che permetteva di mantenere intatta la sovranità. E sottolineava l’importanza del fatto che in assemblea i deputati votassero per testa e non per delegazione nazionale, lasciando intravvedere la possibile formazione di gruppi parlamentari a base ideologica e sovrannazionale.

A latere delle iniziative governative, T. svolse anche un’importante funzione di promozione e divulgazione dei nuovi orientamenti federalistici all’interno dei movimenti per l’unità europea. Militò nelle file delle Nouvelles équipes internationales (NEI), collaborando attivamente anche alle iniziative del Movimento federalista europeo (MFE) e dell’Unione europea dei federalisti (UEF). Fu particolarmente attivo nella campagna per la Costituente europea.

Nel luglio del 1953, lasciò Palazzo Chigi per assumere la carica dapprima, per un brevissimo periodo, di ministro del Commercio con l’estero nell’ottavo gabinetto De Gasperi e poi, dal 17 agosto, di ministro della Difesa nel nuovo governo guidato da Giuseppe Pella. Continuò a seguire da vicino le vicende della CPE, nel corso delle diverse conferenze durante le quali il progetto fu studiato. In particolare, nell’agosto del 1953, venne chiamato a presiedere in rappresentanza del governo dimissionario la Conferenza dei sei ministri degli Esteri che si tenne a Baden-Baden.

Nel governo Pella, che accantonava la CED per dedicarsi quasi esclusivamente alla soluzione del problema di Trieste, T. cercava di conciliare europeismo e nazionalismo: sosteneva il governo nella sua azione, mantenendosi nel contempo favorevole alla CED. Dalla certezza che la Francia non avrebbe mai ratificato, traeva il convincimento che non convenisse all’Italia affrontare una battaglia lacerante senza prospettive di successo. Temeva in particolare che la caduta della CED in Francia, unita all’irrisolta questione di Trieste, potesse costituire un “terremoto” per l’intera politica estera italiana. Nel febbraio del 1954 T. veniva confermato da Mario Scelba ministro della Difesa.

La sua lettura del dopo CED era pacata, nel solco di quel realismo che lo contraddistingueva: non si era trattato del crollo di un’illusione e nemmeno dell’ultimo atto di un processo 1954, a sostenere l’Unione dell’Europa occidentale (UEO), pur riconoscendone i limiti. Osservava in particolare come l’UEO fosse un’alleanza dal classico carattere internazionale, ma sottolineava anche come essa colmasse un vuoto, non pregiudicando ulteriori passi sulla via dell’integrazione e rappresentando un vincolo ulteriore tra le nazioni europee occidentali, che andava ad aggiungersi a CECA, Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE), Consiglio d’Europa, Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO).

Nel 1956 T. studiò con il collega francese, Jacques Chaban-Delmas, e quello tedesco, Franz-Joseph Strauß, un progetto trilaterale di “atomica europea” che avrebbe consentito, da un lato, d’ancorare la Francia ai destini europei, in un momento in cui, dopo Suez, all’interno della IV Repubblica cominciavano ad affiorare tentazioni eccentriche rispetto a quelle continentali sul tema della difesa, dall’altro, di scongiurare la costruzione di una bomba atomica tedesca. La trattativa entrò nel vivo nell’autunno del 1957, intrecciandosi con i piani americani di difesa europea dopo gli esperimenti nucleari e spaziali sovietici. Mantenne anche in questo caso una posizione europeista, avversando qualunque ipotesi di atomica semplicemente francese o tedesca e mantenendo una certa prudenza circa le avances britanniche. Pensava che l’accordo tripartito potesse rinsaldare l’Europa dei Sei. Non avrebbe mancato, ex post, d’individuare i punti deboli dell’accordo, evidenziando in particolare la mancanza di chiarezza sulla “struttura politica portante” e sull’impianto sovrannazionale.

Nei confronti dei Trattati di Roma T. si rivelò molto tiepido, dimostrando di non aver perso il suo fervore federalista. «Grande tripudio – scriveva il 26 marzo 1957 – per la firma dei Trattati europei del Mercato comune e dell’Euratom. Lo si considera un successo della politica europeistica. Non lo è affatto. È tutto internazionale. Non c’è niente di sopranazionale». Affermava che la Conferenza di Messina e i lavori della Commissione guidata da Paul-Henri Charles Spaak (v. Comitato Spaak) a Bruxelles testimoniavano come gli europeisti non avessero disarmato. Ma ammoniva anche gli europei a non ripetere l’esperienza del Consiglio d’Europa, una semplice “accademia”. Il vero pericolo – affermava –, non è «che finalmente si faccia l’Europa unita, ma invece che non si faccia sul serio l’Europa, bensì soltanto una sua larva: qualcosa che presenti una spolverata di europeismo, tale da appagare momentaneamente le opinioni pubbliche, che in grande maggioranza reclamano l’unità europea, ma non tale da costruire quel solido edificio che gli europeisti più approfonditi e maturi attendono e intendono costruire».

Dal giugno del 1958, quando abbandonò il ministero della Difesa, T. fu assorbito dalla politica interna, ma sempre con un occhio rivolto alle tematiche europee.

Daniela Preda (2010)