Trattato di Maastricht

Il Trattato di Maastricht è l’atto costitutivo dell’Unione europea. Fu stipulato nella notte fra il 10 e l’11 dicembre 1991 e firmato, appunto a Maastricht, il 7 febbraio 1992 dai dodici Stati membri delle Comunità europee (v. Comunità economica europea) (Francia, Germania, Italia, Spagna, Regno Unito, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Grecia, Portogallo, Irlanda e Danimarca). Il Trattato, che formalmente è una revisione dei Trattati comunitari degli anni Cinquanta (v. anche Trattati), istituisce l’Unione politica e l’Unione economica e monetaria col suo corollario: l’Euro (http://europa.eu.int/eur-lex/it/search/treaties_founding.html e “Gazzetta ufficiale delle Comunità europee” C 191 del 29/7/1992).

Le origini del Trattato

Dopo il progetto di Trattato Spinelli (Progetto di Trattato sull’Unione europea, adottato dal Parlamento europeo il 14 febbraio 1984, “Gazzetta ufficiale” C 77 del 19/3/1984, p. 53 e ss.) (v. anche Spinelli, Altiero) e la conseguente decisione delle principali forze politiche europee di procedere a una riforma dei Trattati comunitari (si veda in particolare la celebre dichiarazione del presidente francese François Mitterrand davanti al Parlamento europeo durante la sessione di maggio 1984), gli Stati membri procedettero, sotto l’impulso di Jacques Delors, allora Presidente della Commissione europea, a una prima riforma, l’Atto unico europeo, firmato a Lussemburgo il 17 febbraio 1986 e, da Italia, Belgio e Danimarca il 28 dello stesso mese all’Aia. Il documento in questione prevedeva in particolare le disposizioni istituzionali necessarie per realizzare rapidamente il Mercato unico europeo, una delle finalità indicate dagli stessi Trattati comunitari negli anni Cinquanta; inoltre indicava all’articolo 20 la necessità di creare una moneta unica europea e all’articolo 30 la necessità di rafforzare nettamente le embrionali disposizioni in materia di cooperazione politica europea (termine che precedette quello di Politica estera e di sicurezza comune, PESC, coniato, appunto col Trattato di Maastricht) e questo grazie a un’ulteriore riforma da adottarsi di lì a cinque anni. Proprio sulla base di questi articoli, in particolare l’articolo 20, il Consiglio europeo di Hannover del 27 e 28 giugno 1988, costituì il “comitato Delors”, composto dallo stesso Jacques Delors, all’epoca presidente della Commissione europea, da Frans Andriessen, vicepresidente della Commissione, dai governatori delle banche centrali dei dodici Stati membri e da tre “saggi” (esperti indipendenti) con l’incarico di preparare l’Unione economica e monetaria. Viceversa, gli Stati membri non presero alcuna particolare disposizione per realizzare l’obiettivo dell’articolo 30 in materia di politica estera e di sicurezza comune.

Tuttavia, nel 1989, gli Stati membri cominciarono a discutere della convocazione di una nuova Conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative) per negoziare strettamente l’applicazione degli articoli 20 (sulla base dei risultati del comitato Delors) e 30 dell’Atto unico e le disposizioni istituzionali accessorie necessarie ad applicare le disposizioni che sarebbero state approvate in relazione agli articoli citati. Sennonché il Parlamento europeo, eletto nelle elezioni del giugno 1989, sollevò quasi subito una fondamentale questione: la necessità di avviare un’effettiva riforma politica delle Comunità, tenendo conto dei rapidi sviluppi della situazione politica dell’Europa centro orientale, della stessa Unione Sovietica e del conseguente rapido mutare dello scenario internazionale (risoluzione del 23 novembre 1989; si noti che, nella medesima risoluzione si preconizzava la presentazione da parte del Parlamento europeo di una Costituzione europea; per pura informazione si ricorda che il documento finale fu presentato il 10 marzo 1994 dall’ultimo dei tre relatori nominati successivamente dal Parlamento europeo, Fernand Herman – preceduto da Emilio Colombo e Marcelino Oreja). Le reazioni dei governi furono molto fredde. Durante il Consiglio europeo di Strasburgo dell’8 e 9 dicembre 1989 i governi si limitarono, infatti, a citare la Conferenza sull’Unione economica e monetaria, affidando lo sviluppo dell’unione politica alla realizzazione dell’Atto unico, al superamento delle frontiere e all’esercizio delle altre politiche previste dal Trattato in vigore. Tuttavia l’iniziativa parlamentare non tardò a mostrare in maniera sempre più evidente l’inadeguatezza delle iniziative governative nel processo di riforma istituzionale comunitario e la conseguente impreparazione dell’Europa di fronte al rapido evolvere della situazione internazionale.

Subito prima del Consiglio europeo straordinario del 28 aprile 1990 (Dublino I), il presidente Mitterrand e il cancelliere tedesco Helmut Josef Michael Kohl inviarono ai propri omologhi degli altri Stati membri una lettera nella quale preconizzavano per la futura conferenza (o meglio, le conferenze, perché se ne tennero in realtà due, una sull’unione politica e l’altra sull’Unione economica e monetaria) un ordine del giorno non dissimile da quello proposto dal Parlamento europeo, includendovi riforme istituzionali non direttamente legate alla realizzazione dei due obiettivi indicati dall’Atto unico. Un’iniziativa analoga fu intrapresa dal governo belga. Con l’accordo del Consiglio europeo, fu convocata nel frattempo una Conferenza interistituzionale preparatoria che riuniva i 12 ministri, altrettanti parlamentari europei e la Commissione europea, con lo scopo di discutere della preparazione di un ordine del giorno per le future riforme. La prima riunione ebbe luogo il 17 maggio 1990 e precedette il Consiglio europeo del 25 e 26 giugno (Dublino II) che lanciò definitivamente l’idea di convocare due conferenze (la conferenza sull’Unione economica e monetaria era già stata lanciata a Dublino I) con lo scopo di realizzare l’Unione economica e monetaria e l’unione politica.

Di conseguenza, la presidenza italiana, che era succeduta a quella irlandese il 1° luglio, avviò prima dell’estate (18 luglio – per la conferenza sull’Unione economica e monetaria le consultazioni furono lanciate l’8 marzo 1990) le consultazioni previste dai Trattati comunitari (parere obbligatorio del Parlamento europeo, della Commissione e del Consiglio dei ministri), al fine di poter convocare effettivamente le due conferenze prima della fine del semestre italiano. Il Consiglio europeo, tuttavia, non aveva previsto, se non in modo vago, forme partecipative del Parlamento europeo ai lavori delle Conferenze. Il Parlamento europeo, forte del prestigio guadagnato grazie all’iniziativa assunta a favore di un ampliamento dell’ordine del giorno, si mostrò alquanto scontento, poiché vedeva nel tentativo di escluderlo dalle discussioni (non dai negoziati che, si riconobbe, spettavano ai governi) un’azione dei governi più reticenti per limitare la portata delle riforme. Per questa ragione, la commissione istituzionale, presieduta da Oreja, con il contributo essenziale di Marco Pannella, propose al Parlamento europeo, in assenza di fatti nuovi, di respingere la proposta di convocare le conferenze. Si trattava certo di una palese forzatura, ma, grazie alla decisione del presidente del Parlamento europeo, Enrique Barón Crespo, si giunse all’accordo del 12 novembre 1990 fra i tre presidenti del Parlamento europeo, della Commissione (Jacques Delors) e del Consiglio (Gianni De Michelis). In questa maniera, i governi s’impegnarono a prendere in considerazione i documenti prodotti dal Parlamento europeo, ad ascoltare il presidente del Parlamento europeo, a convocare periodicamente, durante tutta la durata delle Conferenze intergovernative, la Conferenza interistituzionale su entrambi i versanti del negoziato (questa decisione era già stata presa nel Consiglio europeo di Roma del 27 e 28 ottobre) e, in modo non del tutto chiaro, a ottenere un’approvazione del Parlamento europeo, prima di procedere alle ratifiche del testo finale. Le Conferenze intergovernative furono immediatamente convocate e poterono tenere la prima riunione il 15 dicembre 1990 alla fine del Consiglio europeo di Roma. Il Consiglio europeo, inoltre, attuò alcune disposizioni volte a mantenere una coerenza sul lavoro delle due Conferenze e, pur lasciando ben chiara la differenza fra esse, affidò ai ministri degli Esteri questo compito. È probabile che all’origine di questa divisione formale vi fosse la preoccupazione di Jacques Delors e dei più accesi sostenitori della moneta unica che la Conferenza sull’unione politica potesse ritardare o mettere in discussione l’accordo sostanziale già in gran parte raggiunto nel “Comitato Delors” circa la moneta unica.

Il negoziato

Il negoziato si svolse a tre livelli, secondo le decisioni del Consiglio europeo: a livello diplomatico, a livello dei ministri degli Esteri (o delle finanze per la Conferenza monetaria) e a livello dei capi di Stato e di governo. La prima fase del negoziato (sostanzialmente iniziata prima dell’effettiva convocazione delle Conferenze) cominciò con la trasmissione da parte dei governi, delle Istituzioni comunitarie e delle parti sociali di documenti di orientamento e di proposta sui temi più diversi (istituzioni, competenze, procedure); normalmente, ogni proposta era commentata dalla presidenza, talora diveniva l’oggetto di una rielaborazione ed era discussa o, comunque, posta all’ordine del giorno di una riunione. Nel mese di aprile, la presidenza della Conferenza (Lussemburgo) preparò un progetto complessivo di dibattito (sulla parte politica, mentre la parte monetaria continuava in modo più lineare, grazie ai lavori precedenti del Comitato Delors) che sarebbe stato discusso punto per punto e rielaborato sulla base delle discussioni successive. Un testo “definitivo” di proposta globale della presidenza lussemburghese fu dunque disponibile a partire dal mese di giugno. In seguito al cambio di presidenza (si era nel semestre olandese a partire dal mese di luglio) il governo olandese presentò in settembre un progetto molto articolato e per certi versi dichiaratamente più “federalista” del progetto lussemburghese (v. anche Federalismo). La manovra non fu accolta con grande entusiasmo, perché rimetteva in causa i risultati del negoziato e minacciava di rinviare la conclusione della Conferenza intergovernativa sull’unione politica, ritenuta invece urgente. Lo stesso Parlamento europeo si espresse in modo poco favorevole (risoluzione di ottobre, GUCE C 305 del 25/11/1991 p. 101). Dopo alcune incertezze, il negoziato riprese a partire dal testo lussemburghese parzialmente rivisto. Durante l’ultima fase vi fu un certo ristagno nei negoziati della parte politica, tanto da indurre il presidente francese a una dura reazione con una lettera ai suoi pari, con la quale dava una sorta di ultimatum affinché il negoziato si concludesse entro la fine dell’anno. La conclusione avvenne a Maastricht, in margine al Consiglio europeo, alle tre del mattino dell’undici dicembre 1991, allorché i capi di Stato e di governo adottarono il testo del Trattato sull’Unione europea, comprendente sia gli aspetti politici sia quelli economici e monetari del negoziato. La preparazione tecnica e linguistica del testo fu ultimata in tempo utile per la firma che ebbe luogo a Maastricht il 7 febbraio 1992. Il Parlamento europeo espresse il suo parere favorevole e la sua volontà di continuare nelle riforme dei Trattati il 7 aprile 1992 (relazioni dei deputati David Martin e Fernand Herman; GUCE C 125 del 18/5/1992).

La questione delle ratifiche

Esattamente come l’Atto unico e tutte le riforme dei Trattati di Roma – Comunità economica europea (CEE) e Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom) e di Parigi (v. Trattato di Parigi) (Comunità europea del carbone e dell’acciaio, CECA), il progetto di Trattato sull’Unione europea doveva essere ratificato da tutti gli Stati membri, conformemente alle rispettive costituzioni. In effetti, nonostante l’enorme portata innovativa, il Trattato di Maastricht fu concepito, nelle forme del negoziato e nella sua definizione giuridica, come una modifica dei Trattati comunitari, sia per ragioni politiche – la continuità del processo d’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della) – sia per ragioni giuridiche – la piena salvaguardia del patrimonio delle realizzazioni comunitarie (acquis communautaire) (v. Acquis comunitario).

Tutti gli Stati membri dovettero dunque procedere alla ratifica, alcuni per via parlamentare, altri per via referendaria. Due Stati membri ebbero notevoli difficoltà di ratifica attraverso il referendum previsto o consentito dalla Costituzione. La Francia approvò il Trattato a seguito del referendum, svoltosi il 20 settembre 1992, con uno scarto intorno al 2% fra voti favorevoli e contrari, nonostante l’impegno fortissimo del presidente Mitterrand. La ratifica francese comportò anche una modifica costituzionale richiesta dal Consiglio costituzionale. La Danimarca, invece, in prima battuta, il 2 giugno 1992, respinse la ratifica, sempre per via referendaria. Solo grazie ai negoziati successivi in seno al Consiglio europeo di Birmingham e di Edimburgo e in seguito all’introduzione di una serie di riserve danesi sulla cittadinanza e su altri temi caldi (GUCE C 348 del 31/12/1992), il referendum, ripetuto nella primavera del 1993, ebbe successo, ottenendo la maggioranza dei consensi. Infine, in Germania, la ratifica non pose gravi problemi parlamentari, ma fu oggetto di un ricorso davanti al Tribunale costituzionale in ragione dei contenuti del Trattato e del fatto che essi mettessero in causa alcune disposizioni importanti della Legge fondamentale tedesca. La sentenza, sia pure con alcune riserve, fu favorevole alla ratifica (12 ottobre 1993 – sentenza della seconda Camera casi 2 Bundesverfassungsgericht 2134/92 e 2159/92). Il Trattato poté così entrare in vigore il 1° novembre 1993, quasi due anni dopo il Consiglio europeo di Maastricht.

Il contenuto del Trattato

Il Trattato di Maastricht è noto soprattutto per la creazione della moneta unica, entrata in vigore solo nove anni dopo (peraltro conformemente alle disposizioni del Trattato stesso). Tuttavia è certo che il pilastro politico non riveste minore importanza: «Le alte parti contraenti istituiscono fra di loro un’Unione europea» (art. A delle disposizioni comuni). Lo stesso nome, Unione europea, al posto di Comunità europea, implica il passaggio a un’altra fase della costruzione europea, caratterizzata da un progressivo imporsi degli aspetti politici rispetto a quelli economici che fino ad allora avevano prevalso. Naturalmente, il Trattato rappresenta solo l’avvio di un processo, del quale l’approvazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e della Costituzione europea (18 giugno 2004) sono una fase importantissima.

La struttura del Trattato e i “pilastri”

Sul piano della struttura, il Trattato si compone di 19 articoli, sei, da A a F, contenenti le disposizioni generali, tre, da G a I, recanti le modificazioni rispettivamente ai Trattati della Comunità economica europea, del Trattato della Comunità europea del carbone e dell’acciaio e del Trattato della Comunità europea dell’energia atomica, uno, J, relativo alla Politica estera e di sicurezza comune, uno, K, relativo alla cooperazione nel campo della Giustizia e affari interni e otto, da L a S, contenenti le disposizioni finali. Il Trattato era accompagnato da 17 Protocolli, vincolanti alla stessa stregua del Trattato, e da 33 dichiarazioni.

Questa articolazione riflette la nuova struttura del Trattato sull’Unione europea. Quest’ultimo comprende essenzialmente le disposizioni generali, la politica estera e di sicurezza comune e la cooperazione in materia di giustizia e affari interni, nonché le clausole finali, mentre i Trattati comunitari restano in vigore modificati, ma perdono la loro autonomia, perché inquadrati nel Trattato sull’Unione europea. Bisogna notare che tutta la questione monetaria fu inclusa a pieno titolo nel Trattato della Comunità economica europea. La struttura del Trattato, dal punto di vista dell’esercizio delle competenze, è fondata su tre “pilastri” (v. Pilastri dell’Unione europea): il nuovo Trattato della Comunità europea (CE), le disposizioni relative alla politica estera e di sicurezza comune (PESC) e la cooperazione nei settori della Giustizia e degli affari interni (GAI). Il primo si basava sui principi e le procedure proprie del processo di integrazione europea fino ad allora conosciuto e conteneva l’insieme delle disposizioni dei Trattati comunitari, compresa la moneta unica. Il secondo e il terzo si basavano su procedure più vicine alla tradizionale cooperazione intergovernativa, affidando agli Stati membri, considerati individualmente, un ruolo maggiore.

Circa le differenze più rilevanti, si può dire che i due pilastri intergovernativi differivano, sul piano istituzionale, da quello comunitario per un ricorso sistematico al Voto all’unanimità, per un ruolo assente o molto mitigato della Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea), per un potere d’iniziativa condiviso fra la Commissione e gli Stati (mentre nel pilastro comunitario in genere solo la Commissione può presentare proposte legislative formali), per un ruolo più debole del Parlamento europeo rispetto ai nuovi poteri attribuitigli nel campo comunitario e per una mancanza di strumenti giuridici efficaci come le direttive e i regolamenti comunitari. I tre pilastri, nella figurazione utilizzata all’epoca, reggevano un architrave e un frontone evocanti le norme generali e le norme finali, ma i due pilastri intergovernativi, più esili, rendevano la costruzione instabile. Le feroci critiche rivolte al modello non furono raccolte né dal Trattato di Amsterdam (1997) né dal Trattato di Nizza (2000), mentre sembra che abbiano fatto breccia nel progetto di Costituzione europea.

Le istituzioni europee

Non vi è dubbio che, dal punto di vista istituzionale, il grande vincitore fu il Parlamento europeo, al quale si vide infine riconosciuta la necessità di far corrispondere al crescente peso politico, legittimato dalla sua elezione diretta da parte di tutti i cittadini europei (v. Elezioni dirette del Parlamento europeo), un adeguato ruolo istituzionale. D’altronde, l’accanimento del Parlamento europeo nella difesa delle sue (future) prerogative fu talmente importante che si parlò di una sorta di “sindacalismo parlamentare”, dimenticando però che, come di mostrano le sette relazioni approvate durante il negoziato, il Parlamento europeo aveva insistito altrettanto decisamente sugli aspetti politici generali e su un gran numero di riforme giudicate essenziali e che non avrebbero necessariamente rafforzato il suo ruolo istituzionale. In ogni caso, i principali risultati riguardarono due questioni: l’introduzione della procedura legislativa della Codecisione (v. Procedura di codecisione) in numerosi campi dell’azione comunitaria, e il potere di votare l’approvazione della Commissione come condizione necessaria per la sua entrata in funzione. La procedura di codecisione, in una forma successivamente migliorata dal Trattato di Amsterdam, permette al Parlamento europeo di approvare le leggi – regolamenti e direttive (v. Direttiva) – nei settori previsti su un piano di parità col Consiglio: in questi settori, nessuna legge può essere approvata senza l’accordo fra le due istituzioni; l’accordo si raggiunge attraverso due letture del progetto della Commissione e, in caso di persistente disaccordo, attraverso una conciliazione affidata a un comitato paritario fra Consiglio e Parlamento, i cui risultati devono poi essere approvati da entrambe le istituzioni. L’approvazione, a maggioranza semplice, della Commissione rafforza nettamente i poteri di controllo politico del Parlamento e, al tempo stesso, la legittimità democratica della Commissione stessa. Il Parlamento riceve, inoltre, poteri nel campo della ratifica di accordi internazionali (v. Procedura di parere conforme) e del controllo: commissioni parlamentari d’inchiesta, diritto di ricevere petizioni (v. Diritto di petizione), nomina di un Mediatore europeo (Difensore civico), nonché in materia di esecuzione del bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea).

La Commissione, uscita “vincitrice” dalla prova dell’applicazione dell’Atto unico, vedeva aumentare il proprio potere e il proprio ruolo in conseguenza dell’incremento delle competenze dell’Unione. Il suo successo, tuttavia, è rappresentato dalla decisione relativa all’Unione economica e monetaria, per la quale la Commissione si era fortemente impegnata fin dall’approvazione dell’Atto unico. Un’affermazione analoga vale per il Consiglio, che assume poteri in settori quali, appunto, quelli dei pilastri intergovernativi. Bisogna notare un fatto importante: i campi nei quali il Consiglio vota a maggioranza qualificata vengono sensibilmente aumentati, comprendendo anche quasi tutti i settori della codecisione.

Le istituzioni nazionali – la creazione del Comitato delle regioni

Il dibattito sul Trattato di Maastricht coinvolse fin dall’inizio non solo le istituzioni europee, ma anche quelle nazionali. L’Atto unico e le trecento direttive presentate per la sua concreta applicazione avevano suscitato alcune reazioni istituzionali.

In particolare i Parlamenti nazionali si erano sentiti espropriati da una legislazione comunitaria così vasta e precisa tanto da sentirsi obbligati a trasporla nel diritto nazionale, avendo partecipato poco o nulla alla sua formulazione o preparazione. In generale i governi degli Stati membri non avevano avuto riguardo di consultare i rispettivi Parlamenti a proposito delle decisioni europee, seguendo in ciò la tesi secondo cui gli affari esteri rimangono nella sfera di responsabilità propria del governo e non del Parlamento. Ma le direttive in questione toccavano da vicino importanti settori politici, economici e sociali dei singoli Stati, preoccupando non poco i Parlamenti nazionali. Peraltro, il loro coinvolgimento negli affari comunitari era stato sollecitato dal Parlamento europeo già all’epoca del progetto Spinelli e immediatamente dopo, proprio durante la prima legislatura del Parlamento eletto a suffragio diretto (1979-1984), in vista, appunto di un processo di riforma dei Trattati comunitari. Fu così che fra il 1989 e il 1990 i parlamenti nazionali fecero irruzione nell’arena comunitaria, attraverso la creazione della Conferenza degli organi specializzati negli affari comunitari (COSAC, sito web: http://www.cosac.org) e convocazione di una Assise parlamentare, svoltasi a Roma tra il 27 e il 30 novembre 1990, comprendente le rappresentanze dei Parlamenti nazionali e di quello europeo sui temi della riforma. Il Trattato di Maastricht contiene due dichiarazioni (la n. 13 e la n. 14) relative ai Parlamenti nazionali, alquanto generiche e, comunque, incentrate sulla cooperazione fra i Parlamenti nazionali e quello europeo. La dichiarazione n. 14 istituì poi una sorta di Conferenza dei parlamenti (sul modello delle Assise) con compiti genericamente consultivi, ma alla quale il presidente della Commissione e quello del Consiglio avrebbero dovuto fare regolarmente rapporto. Questa dichiarazione non ebbe mai seguito, mentre la COSAC si è progressivamente affermata nel panorama europeo, fino al suo riconoscimento in un protocollo del successivo Trattato di Amsterdam.

La seconda reazione riguardò le autorità regionali di alcuni Stati membri e i Länder tedeschi. Queste entità, le cui competenze erano in un modo o nell’altro, garantite dalle rispettive costituzioni, si erano ugualmente sentite espropriate dall’attivismo normativo europeo seguito all’Atto unico e avevano a più riprese fatto intendere il loro malcontento. La Commissione reagì creando un proprio comitato consultivo costituito, per l’essenziale da presidenti di regioni. Ma una tale soluzione era ben lontana dal risolvere i problemi sollevati. Tuttavia, fu su questa base che si cercò di dare una risposta all’esigenza attraverso la creazione del Comitato delle regioni. Quest’ultimo comprende però anche i rappresentanti di autorità locali (comuni, province), fra l’altro per colmare il vuoto degli Stati (allora la maggioranza) che non disponevano di un sistema federale o regionale. Ogni Stato nomina ogni quattro anni un certo numero di membri, rappresentanti di autorità locali e regionali. Il Comitato così costituito, sulla falsariga del Comitato economico e sociale, ha il diritto di essere consultato in alcune materie sulle proposte legislative e può essere consultato nelle altre o, anche, esprimersi di sua iniziativa. La decisione, come dimostrano le successive riforme e lo stesso progetto di Costituzione, non ha concluso il dibattito sul ruolo delle autorità locali e regionali.

La cittadinanza europea e i diritti fondamentali

Un’importante clausola del Trattato di Maastricht riguarda la creazione della Cittadinanza europea, giunta dopo una forte insistenza del Parlamento europeo (sin dal 1961; si veda anche l’articolo 3 del già citato progetto Spinelli). Benché molto limitata nei suoi contenuti (la grande novità concerne il diritto di partecipare alle elezioni comunali ed europee nel paese di residenza), la clausola: «È istituita una cittadinanza dell’Unione europea. È cittadino dell’Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro», ha un valore simbolico (v. Simboli dell’Unione europea) essenziale e permette di raggruppare in uno status l’insieme dei non pochi diritti già contenuti nei Trattati comunitari, compreso il diritto alla libera circolazione, al ricorso in certi casi alla Corte di giustizia, il diritto di voto per l’elezione del Parlamento europeo, ai quali si aggiungono, appunto, alcuni diritti elettorali, il diritto di petizione e di ricorso al Mediatore e, infine, il diritto alla protezione diplomatica e consolare anche da parte di uno Stato dell’Unione diverso dal proprio. L’importanza politica dell’istituzione della cittadinanza europea concerne il riconoscimento che la legittimità dell’Unione non deriva solo dai governi nazionali, ma anche dai cittadini: una visione certamente più federale della costruzione europea.

Un minor successo ebbe il Trattato nella questione dei diritti fondamentali. Fin dagli anni Settanta la Comunità europea fu accusata in diversi Stati membri (per esempio in Germania) di non avere regole relative al rispetto dei diritti fondamentali. La Corte di giustizia, fra il 1969 e il 1974, attraverso il rinvio ai principi generali del diritto e al fatto che tutti gli Stati membri disponessero di un sistema di diritti fondamentali e aderissero alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (adottata il 4 novembre 1950 nell’ambito del Consiglio d’Europa), definì la dottrina secondo la quale le istituzioni avrebbero dovuto rispettare i diritti fondamentali. Anche le istituzioni politiche formularono dichiarazioni in quel senso (Dichiarazione comune del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione sui diritti fondamentali del 5 aprile 1977; GU C 103 del 27/4/1977). Il citato progetto Spinelli conteneva l’articolo 4 che faceva espresso riferimento al rispetto dei diritti e alla formulazione di una lista di diritti concepita dalle istituzioni dell’Unione e dagli Stati membri (nel 1989, lo stesso Parlamento fece una proposta in questo senso, contenuta nella risoluzione recante l’adozione della dichiarazione dei diritti e delle libertà fondamentali; GU C 120 del 16/5/1989, p. 51 e ss). L’Atto unico si limitò a un suo richiamo nel preambolo. Il Trattato di Maastricht contiene l’articolo F, che al paragrafo 2 statuisce che l’Unione europea rispetti i diritti fondamentali, ma si limiti a riferirsi alla Convenzione europea e alle tradizioni costituzionali degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto. In pratica, codifica il risultato che la Corte aveva compiutamente realizzato, senza base giuridica scritta, già nel 1974. La frustrazione generata da questo timido approccio fu in parte modificata dal più rigoroso Trattato di Amsterdam, ma una lista di diritti esplicitamente protetti dall’Unione vide la luce solo il 7 dicembre 2000 a Nizza in seguito ai lavori della Convenzione (http://europa.eu.int/eur-lex/it/search/search_treaties.html e GUCE C 80 del 10/3/2001) convocata appositamente dal Consiglio europeo di Colonia il 4 giugno 1999. Solo con la Costituzione però questa lista sarà parte integrante del diritto scritto dell’Unione.

Le competenze

Le competenze nel quadro dei pilastri intergovernativi. Nel settore della politica estera e di sicurezza comune, il Trattato stabilisce che «l’Unione e gli Stati membri definiscono e applicano una politica estera e di sicurezza comune». Gli strumenti essenziali sono gli orientamenti generali del Consiglio europeo e le azioni comuni decise dal Consiglio a maggioranza (ma solo se si è preventivamente deciso all’unanimità di votare in questa maniera). Il Trattato include una serie di obblighi di comportamento che gli Stati membri sono tenuti a seguire e un primo riferimento alla Politica europea di sicurezza e difesa (art. 14). L’Unione europea occidentale (v. Unione dell’Europa occidentale, UEO), rispetto al Trattato, si configura «come parte integrante dello sviluppo dell’Unione europea», dovendo «elaborare e dare esecuzione alle decisioni e alle azioni dell’Unione che abbiano implicazioni nel campo della difesa». Al fine poi di conciliare l’UEO e gli impegni dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), nel Trattato si afferma che la politica della UE «rispetta gli obblighi imposti ad alcuni Stati membri dal Trattato dell’Atlantico del Nord ed è compatibile con la politica comune di sicurezza e difesa concertata in tale sede». Le disposizioni del Trattato in questo settore, inoltre, non recano pregiudizio alla condizione di neutralità propria di alcuni Stati. Non si deve dimenticare, tuttavia, che la firma del Trattato si colloca esattamente alla fine della Guerra fredda, periodo in cui è ancora forte il principio della coerenza atlantica quale condizione di sicurezza generale. Nondimeno, la decisione d’includere questi settori nel Trattato, anche se molto timidamente, dopo 22 anni dalla prima definizione del problema nel Rapporto di Davignon (v. Davignon, Étienne; Cooperazione politica europea) del 20 luglio 1970 (Bollettino CE 11/1970), è una conseguenza immediata della crisi del sistema sovietico e delle prime avvisaglie di un nuovo orientamento della politica estera americana.

Nel secondo settore, la cooperazione nel campo della giustizia e degli affari interni, il Trattato definisce nove settori di azione possibile dell’Unione, dall’asilo e l’immigrazione (v. Politiche dell’immigrazione e dell’asilo), comprese le regole per l’attraversamento delle frontiere esterne, alla cooperazione giudiziaria penale e civile e di polizia (v. Cooperazione giudiziaria in materia civile; Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale), alla lotta contro la criminalità internazionale e contro la droga o la frode internazionale (v. anche Ufficio europeo per la lotta antifrode), alla cooperazione doganale. I metodi d’azione risultano, all’esame dei fatti successivi, piuttosto deboli; essi includono l’azione comune e l’unanimità generalizzata nei processi decisionali nel Consiglio, con marginali eccezioni. Una maggiore efficacia in questo settore verrà data dalla successiva approvazione delle disposizioni sulla GAI, contenute nel Trattato di Amsterdam.

Le competenze nel quadro dei Trattati comunitari. Le regole essenziali del processo decisionale comunitario e del relativo controllo giurisdizionale non sono, nella sostanza, modificate dal Trattato, con l’eccezione della citata introduzione del principio di codecisione e, come vedremo, con l’introduzione del Principio di sussidiarietà e del Principio di proporzionalità. Il fenomeno che c’interessa citare subito, invece, è quello dell’enorme incremento delle competenze comunitarie e del rafforzamento di quelle esistenti. Il Trattato modifica e rafforza o aggiunge 53 articoli al Trattato della Comunità europea per quel che riguarda le competenze; oltre alla competenza in materia economica e monetaria, nove nuove grandi competenze sono aggiunte o radicalmente modificate: «Troppa grazia Sant’Antonio», fu la riflessione a caldo nella plenaria del Parlamento europeo di Emilio Colombo. Inoltre, essendo il governo conservatore britannico radicalmente contrario, fu aggiunto al Trattato un Protocollo sulla politica sociale. Il protocollo aveva lo scopo di realizzare – come espressamente riconosciuto nel suo preambolo – la Carta dei diritti sociali adottata dal Parlamento europeo e da 11 Stati membri nel 1989 (per la risoluzione del Parlamento europeo, v. GUCE C 323 del 27/12/1989, p. 44). Esso fu formulato sulla base di una lettera comune della Confederazione europea dei sindacati (CES) e dell’Unione delle industrie della Comunità europea (UNICE), lettera che fu ripresa negli atti della Conferenza.

L’aumento delle competenze pose subito la questione del loro effettivo esercizio, tanto su iniziativa dei federalisti più convinti (per esempio, il principio di sussidiarietà era una delle clausole importanti del progetto Spinelli già citato, art. 12) che degli Stati più reticenti rispetto al processo d’integrazione. I due principi, quello di sussidiarietà e di proporzionalità, furono dunque inclusi in un articolo e in un protocollo, la cui interpretazione e il cui approfondimento furono al centro delle discussioni del Consiglio europeo fino alla ratifica del Trattato (CE di Birmingham del 16 ottobre 1992 e di Edimburgo dell’11 e 12 dicembre 1992).

Il principio di sussidiarietà stipula che l’Unione, la quale agisce nel rispetto delle competenze a lei attribuite, debba concretamente agire nei settori che non sono di sua competenza esclusiva, solo se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione che si prevede di fare non possano essere raggiunti in modo adeguato dagli Stati membri, obiettivi che possono dunque essere realizzati meglio a livello comunitario, a causa delle dimensioni o degli effetti dell’azione prevista. Il protocollo prevede che la Commissione giustifichi su questa base le sue proposte (art. 3 del Trattato CE).

Il principio di proporzionalità prevede invece che, in tutti i casi, compreso quello di competenze esclusive, l’azione della Comunità non ecceda ciò che è necessario per raggiungere gli obiettivi del Trattato (ibid.).

L’Unione economica e monetaria

Ventisette articoli del Trattato, dal 102 al 109 M, cinque protocolli e altrettante dichiarazioni definiscono obiettivi, strutture e procedure dell’Unione economica e monetaria (UEM), il risultato più clamoroso del Trattato di Maastricht. Facendo seguito all’esperienza del Sistema monetario europeo, introdotto alla fine degli anni Settanta e consolidato col regolamento del Consiglio n. 3181/78 del 18/12/1978 (GUCE L 379 del 30/12/1978) e alle citate decisioni (v. Decisione) del Consiglio europeo di Hannover del 27 e 28 giugno 1988, la Conferenza sull’UEM adottò con alcune modifiche le conclusioni del Rapporto Delors. La decisione più significativa fu l’introduzione della moneta unica europea. Per realizzarla, il Trattato previde quattro tipi di disposizioni: una serie di procedure per tendere verso una convergenza delle politiche economiche; una procedura in tre tappe per l’effettiva creazione della moneta unica (per memoria, all’epoca si parlava dell’ECU, sulla base del nome dell’unità di conto utilizzata in particolare per il bilancio comunitario); una serie di condizioni economiche e di bilancio per la partecipazione degli Stati alla moneta unica (riprese, per l’essenziale, deficit di bilancio e debito pubblico, nell’articolo 104 C e nel protocollo n. 5) e relative sanzioni per il non rispetto, una volta decisa la partecipazione; una possibilità di deroga per gli Stati membri che non avessero ancora realizzato le condizioni per l’introduzione della moneta unica, nonché una serie di disposizioni istituzionali, la principale delle quali riguardava la costituzione della Banca centrale europea, a carattere federale (un direttorio composto di cinque membri con fortissimi poteri decisionali e un Consiglio dei governatori, composto inoltre dai governatori delle Banche centrali degli Stati membri). Sul piano istituzionale, inoltre, si prevedeva un sistema transitorio che comprendeva la creazione di un precursore della Banca, e cioè l’Istituto monetario europeo, nonché la creazione di un sistema europeo di Banche centrali (SEBC) che “inquadrasse” l’Istituto e la Banca centrale. Ancora sul piano istituzionale, giova ricordare una relativa partecipazione del Parlamento europeo alla nomina del “governatore” della Banca (presidente del direttorio della Banca); quest’ultimo è nominato dai capi di Stato e di governo su proposta del Consiglio, previo parere del Parlamento europeo.

Le obbligazioni del Trattato in materia concernono tutti gli Stati membri. Tuttavia, con due appositi protocolli, Gran Bretagna e Danimarca si riservano una decisione finale autonoma sull’effettiva partecipazione alla terza fase dell’UEM. In particolare, il protocollo britannico esclude che il Regno Unito abbia preso l’impegno di passare alla terza fase dell’UEM senza una specifica decisione del governo e del Parlamento; il protocollo danese non esclude questo paese dall’obbligo previsto per gli altri di passare alla moneta unica, ma lo condiziona al risultato di un referendum. In effetti, a tutt’oggi né l’uno né l’altro (né la Svezia, che aveva ottenuto al momento dell’adesione un analogo trattamento) hanno adottato l’euro.

Clausole di rinvio

Il Trattato di Maastricht, infine, ha seguito la linea indicata dall’Atto unico quanto alle future revisioni (v. Revisione dei Trattati). In concreto, il Trattato ha fatto rinvio, con numerose clausole, a un altro Trattato da negoziare entro cinque anni. La principale è quella dell’articolo N, paragrafo 2: nel 1996 (cinque anni dopo la decisione del Consiglio europeo circa l’approvazione del Trattato di Maastricht) si sarebbe dovuta convocare (e fu così) una Conferenza intergovernativa per esaminare le disposizioni del Trattato per le quali una revisione era prevista, conformemente agli obiettivi del Trattato. Questa fu considerata all’epoca una clausola di revisione tendenzialmente generale, tant’è vero che, appunto nel 1996, essa fu considerata la base per il Trattato di Amsterdam che fu, come previsto, una revisione generale del Trattato. Clausole specifiche di rinvio concernevano poi la revisione della procedura di codecisione (art. 189 B, paragrafo 8), la politica estera e di sicurezza comune (artt. J.4 e J.10), la cittadinanza europea (in forma particolare, art. 8E), la cooperazione in materia di polizia (penultima Dichiarazione allegata al Trattato).

Questo metodo si è poi confermato tanto col Trattato di Amsterdam (protocollo istituzionale) che con quello di Nizza (contestuale convocazione della Convenzione per redigere una Costituzione europea).

Andrea Pierucci (2009)