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Accordi Berlin Plus

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Gli Accordi Berlin plus, conclusi nel 2003, regolano le relazioni operative tra l’Unione europea (UE) e l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), permettendo alla prima di avvalersi delle capacità di pianificazione e di comando della seconda e di utilizzarne i mezzi per realizzare missioni di gestione delle crisi.

Gli antecedenti degli Accordi Berlin Plus: i primi tentativi di cooperazione tra UE e NATO nel post Guerra fredda

La necessità di accordi che formalizzassero la cooperazione operativa tra UE e NATO emerse solo dopo la fine della Guerra fredda, dato che nell’epoca del bipolarismo la difesa europea era stata affidata agli Stati Uniti, la NATO era stata eletta quale unica organizzazione responsabile della sicurezza dell’Europa occidentale e alla Comunità economica europea (CEE) non erano state affidate competenze in materia di sicurezza e di difesa. Inoltre l’Unione dell’Europa occidentale (UEO), istituita il 23 ottobre 1954 quale “gamba” europea della NATO, vi era di fatto subordinata, mancando di strutture militari integrate, budget comune, ministro della Difesa o degli Esteri.

Con la fine del bipolarismo invece l’UE poté beneficiare di nuovi spazi di azione e fu chiamata ad assumersi inedite responsabilità, che portarono all’introduzione nel Trattato di Maastricht della Politica estera e di sicurezza comune (PESC), che «comprende tutte le questioni relative alla sicurezza dell’Unione europea, ivi compresa la definizione a termine di una politica di difesa comune, che potrebbe successivamente condurre a una difesa comune»; fu inoltre introdotta la possibilità per il Consiglio UE di chiedere all’UEO di elaborare e porre in essere le decisioni e le azioni dell’Unione aventi implicazioni nel settore della difesa. In questo modo, l’UEO sarebbe servita sia come braccio armato dell’UE che come braccio europeo della NATO, fungendo da ponte tra le due organizzazioni. La stessa NATO, nel contempo, attraversava una fase di ristrutturazione della propria legittimità, dei propri obiettivi e dei propri strumenti. Dopo il 1989, infatti, non era affatto chiaro se essa potesse sopravvivere alla scomparsa dell’URSS, che ne costituiva la giustificazione e il collante.

Nella nuova epoca post Guerra fredda, UE e NATO sembravano convergere su un approccio comprensivo e rinnovato alla sicurezza, nonché sulla centralità del concetto di “conflict management”, conseguente alla relativa perdita di rilevanza della difesa territoriale in un contesto di declino delle guerre interstatali tradizionali in favore delle c.d. “nuove guerre”, civili ma con marcati tratti di transnazionalità. Questo concetto venne menzionato per la prima volta proprio dal NATO Strategic concept del 1991, e venne poi ripreso dall’UEO nella sua Petersberg Task Declaration del 1992, la quale venne successivamente assorbita dall’UE  grazie al Trattato di Amsterdam del 1997. Vennero poste così le basi per una cooperazione e per un rafforzamento reciproco tra le due organizzazioni, ma allo stesso tempo si apriva un terreno di competizione e di scontro, tenuto conto delle crescenti esigenze europee di autonomia necessitate da una nuova responsabilità dell’UE sulla scena internazionale, riconosciuta dal Trattato di Maastricht. Contestualmente, secondo la logica del “go global, or go out of business”, la NATO ampliava i propri compiti militari con la previsione delle operazioni “out of area”, cioè operazioni che prevedono l’impiego diretto delle sue risorse militari al di fuori dei confini dei suoi membri.

La crisi in Bosnia-Erzegovina (1992-1995) e quella in Kosovo (marzo-giugno 1999) esercitarono una pressione fondamentale verso la ricerca di una cooperazione operativa tra UE e NATO. Nel primo caso, infatti, la totale impreparazione degli europei frustrò ben presto le loro velleità di autonomia e responsabilità circa la sicurezza europea e costrinse gli USA, guidati da Bill Clinton, a intervenire con la NATO e le sue capacità militari. Ciò agevolò una convergenza di interessi tra USA e UE sulla costruzione di una specifica European security and defence identity (ESDI) all’interno della NATO che permettesse all’UE, attraverso l’UEO, di agire indipendentemente ma avvalendosi degli assetti e delle capacità della NATO per missioni dove la NATO nel suo complesso non fosse coinvolta, e che rientrassero nelle c.d. Missioni di tipo “Petersberg”, cioè missioni umanitarie e di soccorso, di mantenimento della pace, di gestione di crisi e di ripristino della pace.

Il sistema, istituito dal Meeting ministeriale NATO di Berlino del giugno 1996, avrebbe permesso all’UE di prendere a prestito dagli Stati Uniti gli assetti necessari e di costituire unità europee all’interno della NATO, le c.d. European combined joint task forces (CJTFs), da essa “separabili ma non separate”. Esse sarebbero state comandate tramite la soluzione del “doppio cappello”: normalmente sottoposte a un comando multinazionale alleato, quando rese disponibili all’UEO esse sarebbero passate sotto il controllo politico e il comando strategico di quest’ultima, tramite l’istituzione in seno alla NATO della figura del Deputy supreme allied commander Europe (DSACEUR), posizione da attribuire sempre a un generale europeo.

Questo primo strumento di cooperazione con la NATO assecondava le esigenze avvertite dagli USA di un maggiore burden-sharing con gli alleati e assicurava la primazia e il rafforzamento della NATO, ma nonostante le promesse concedeva agli europei una libertà piuttosto limitata. La decisione di concedere le strutture alleate caso per caso implicava di sottoporre ogni politica di sicurezza europea al vaglio del North Atlantic council (NAC, il principale organo decisionale NATO), e dunque nella sostanza consegnare a potenze non europee il potere di decidere quali missioni gli europei avrebbero dovuto svolgere da soli. Inoltre, data la centralità degli assetti statunitensi nell’operatività della NATO, la soluzione delle strutture “separabili ma non separate” avrebbe permesso a Washington di mantenere il controllo operativo sullo svolgimento delle missioni militari, e in definitiva di esercitare un diritto di richiamo verso le risorse messe a disposizione dell’UEO. L’ESDI si rivelò inoltre incapace di funzionare, data l’inadeguatezza dell’UEO ad assumere il controllo politico delle missioni militari UE.

Dopo la guerra in Kosovo: verso gli accordi Berlin plus

La guerra in Kosovo dimostrò ancora una volta l’impotenza dell’UE di fronte a una crisi europea, da un lato costringendo gli europei a delegare alla NATO l’intervento militare per porre fine al genocidio perpetrato da Slobodan Milošević, ma dall’altro incoraggiandoli a lanciare la Politica europea di sicurezza e di difesa (PESD) al Consiglio europeo di Colonia del giugno 1999, e un programma di costruzione di capacità militari e civili al suo servizio per la gestione delle crisi. Ciò permise di impostare le relazioni tra NATO e UE su nuove basi. La guerra in Kosovo aveva inoltre svuotato la NATO di gran parte del suo valore aggiunto agli occhi di Washington, che proprio in seno alla NATO si era trovata a intraprendere una “guerra per procura” e nel contempo a subire critiche sistematiche da parte degli alleati circa gli obiettivi dei bombardamenti e le modalità di intervento. L’Organizzazione maturò dunque tutto l’interesse a sviluppare un rapporto strutturato con un’UE in rafforzamento sul piano della difesa, e forti pressioni in questo senso giunsero dagli USA. L’UE, d’altronde, non poteva che condividere tale interesse fino a che fosse rimasta in qualche misura dipendente dalla NATO. I contatti tra le due organizzazioni, che avevano preso avvio in via informale già nel 1997, divennero regolari e furono istituzionalizzati da un accordo assunto il 24 gennaio 2001 con uno scambio di lettere tra il Segretario generale NATO George Robertson e Anna Lindh, ministro degli Esteri svedese e presidente di turno del Consiglio dell’UE. L’accordo prevedeva che NATO e UE si dovessero incontrare almeno tre volte all’anno a livello di ambasciatori, e almeno una volta all’anno a livello ministeriale.

Tali dinamiche si rivelarono funzionali alla rivisitazione degli Accordi di Berlino, ormai superati dall’avvento della PESD. Il processo durò ben quattro anni (1999-2003), fitti di dibattiti e polemiche.

Il primo tema a infiammare il dibattito fu il cosiddetto “right of first refusal”, ovvero il diritto della NATO (e dunque degli USA) di decidere quando e se l’UE potesse intervenire militarmente, avvalendosi o meno degli assetti dell’Alleanza. Dopo molteplici pressioni e resistenze statunitensi, il Consiglio europeo di Helsinki del dicembre 1999 affermò la determinazione dell’UE a sviluppare la capacità di prendere decisioni autonome e, laddove la NATO nel suo complesso non fosse impegnata, lanciare missioni militari UE in risposta a crisi internazionali, senza che ciò implicasse la costituzione di un esercito europeo.

Il secondo tema fu quello della non discriminazione, cioè dell’esigenza, molto avvertita dagli USA, di assicurare il coinvolgimento dei membri della NATO non membri UE (Norvegia, Turchia, Islanda, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca) nei processi decisionali PESD. La soluzione di compromesso tra europeisti e atlantisti in seno all’UE fu adottata al Consiglio europeo di Santa Maria de Feira del giugno 2000, e prevedeva da un lato l’istituzionalizzazione della cooperazione in seno al Comitato politico e di sicurezza dell’UE (CPS) tra i 15 paesi UE e i 13 paesi candidati all’adesione insieme a Islanda e Norvegia (formula 15+15), dall’altro meeting speciali dei 15 UE con i 6 membri non UE della NATO, ma solo sul funzionamento delle operazioni guidate dall’UE con il ricorso ai mezzi e alle capacità della NATO. Il contestuale rifiuto UE di ammettere la Turchia direttamente alle riunioni del CPS provocò il veto turco alla conclusione del processo. Ankara riuscì così a ottenere una serie di concessioni, tra cui il coinvolgimento più pieno possibile nel decision-making process dell’UE in materia di sicurezza e difesa, l’esclusione di Cipro (insieme a Malta) da qualsiasi operazione PESD e l’esclusione di qualsiasi missione PESD nel mar Egeo.

Il compromesso portò alla Dichiarazione congiunta UE-NATO sulla PESD del 16 dicembre 2002, che annunciò l’istituzione di una “partnership strategica” nel campo della gestione dei conflitti basata sui principi di «reciproca ed efficace consultazione, dialogo, cooperazione e trasparenza», nonché di «uguaglianza e adeguato riconoscimento dell’autonomia decisionale e degli interessi dell’UE e della NATO», e aprì la strada alla conclusione, il 17 marzo 2003, di una serie di documenti non giuridici, quasi tutti classificati e dunque non pubblici, che regolano ancora oggi l’accesso dell’UE (e non più UEO) agli assetti della NATO. Tali accordi furono chiamati Accordi Berlin plus, a indicare una revisione dell’Accordo di Berlino UEO-NATO del 1996.

Gli Accordi Berlin plus in azione e gli ostacoli al loro utilizzo

Grazie agli Accordi Berlin plus, l’UE intraprese subito la sua prima operazione militare, nella Repubblica di Macedonia (31 marzo-10 dicembre 2003). L’operazione Concordia subentrò con 350 uomini alla NATO, in loco dal 2001, per assicurare un ambiente sicuro e stabile in cui dare attuazione alle riforme politiche previste dagli Accordi di Ohrid del 2001, che avevano sancito la riappacificazione tra slavi e albanesi. In coerenza con lo schema Berlin plus, il DSACEUR venne nominato Comandante delle operazioni, assistito da un Direttore UE delle operazioni. La NATO supportò l’UE con una pianificazione tattica, operativa e strategica, e un quartiere generale UE dell’operazione venne istituito presso il Supreme headquarters allied powers Europe della NATO (SHAPE) a Mons (Belgio), per assistere il Comandante delle operazioni. Inoltre, un Elemento di comando UE fu creato presso il Comando regionale NATO di Napoli (Allied forces South Europe, AFSouth), e il Capo di Stato maggiore di AFSouth divenne Capo di Stato maggiore dell’Elemento di comando UE. Queste doppie posizioni UE-NATO garantirono il legame tra le due organizzazioni a tutti i livelli della catena di comando durante l’operazione. L’intervento ebbe successo, ma la cooperazione con la NATO evidenziò qualche problema nella condivisione di informazioni, nella catena di comando e nella divisione del lavoro. Dopo il subentro dell’UE, la NATO aveva mantenuto una presenza sul campo per aiutare le autorità macedoni nella Riforma del settore della Sicurezza, nell’adattamento agli standard NATO in vista dell’ingresso del paese nell’organizzazione e nella protezione dei confini, il che creò difficoltà all’UE nell’essere riconosciuta dalle autorità macedoni come il primo security provider nel paese. Inoltre, mentre l’UE condivideva le informazioni di intelligence e i rapporti dell’operazione con la NATO, questa non faceva altrettanto con i rapporti dell’operazione della NATO in Kosovo, con conseguenze potenzialmente rilevanti in termini di sicurezza, dato che l’instabilità in Kosovo si riverberava anche in Macedonia.

Dopo che nel giugno 2003 fu deciso il dispiegamento nella Repubblica Democratica del Congo della prima missione UE di peacekeeping in piena autonomia e senza avvalersi degli assetti della NATO (operazione Artemis), una seconda (e a oggi, ultima) missione PESD in regime Berlin plus fu dispiegata in Bosnia-Erzegovina (EUFOR Althea) nel dicembre 2004 per subentrare alla NATO, sul posto dal 1995 per assicurare la sicurezza nel paese e garantire il rispetto degli accordi di Dayton. Il passaggio NATO-UE in Bosnia fu molto più complesso e delicato rispetto alla Macedonia, perché la presenza NATO era stata di successo e nelle élites e nella popolazione bosniaca era diffuso lo scetticismo nei confronti dell’UE causato dal ricordo del fallimento europeo nella guerra del 1992-1995. Fu dunque necessaria un’attenta preparazione della transizione, che al contempo delineò chiaramente i confini dei rispettivi compiti, evitando tensioni. Il Deputy SACEUR elaborò l’Operation plan (OPLAN) di Althea, mentre a livello politico il NAC e il CPS avviarono serrate consultazioni per il subentro dell’UE. La preparazione dell’operazione si concluse con la visita congiunta in Bosnia del Segretario generale della NATO e dell’Alto rappresentante PESC per illustrare alle autorità locali le modalità e i tempi del passaggio di consegne.

L’operazione Althea, non ancora conclusa, è stata in grado di differenziarsi dall’operazione NATO pur giovandosi della continuità con essa. Gran parte delle truppe alleate in Bosnia erano infatti europee e, cambiati insegne ed elmetto, rimasero sul campo quali contingenti UE. Tale continuità conferì credibilità ad Althea mentre la relativa pacificazione tra i gruppi etnici permise all’UE di focalizzarsi maggiormente sulla lotta al crimine organizzato, ritenuto minaccia fondamentale alla stabilità e alla pace. La NATO era rimasta in Bosnia con un piccolo contingente e un proprio quartier generale per aiutare le autorità locali a sviluppare le proprie capacità di difesa, ma NATO e UE impararono la lezione macedone e seppero cooperare evitando la competizione. In particolare, esse collaborarono nella ricerca e cattura di criminali di guerra, mentre fu stabilito un regolare scambio di informazioni tra il quartier generale UE e quello NATO sul campo.

Il secondo test per gli Accordi Berlin plus permise all’UE di dispiegare la sua operazione militare più imponente di sempre (7000 uomini) e si risolse in un successo, ma sia Concordia che Althea avevano dimostrato i limiti pratici del sistema Berlin plus. La complessità e i tempi necessari per la sua attuazione pratica ne restringevano l’applicabilità alle missioni di sostituzione di operazioni NATO preesistenti. Esso aveva permesso la socializzazione tra le due organizzazioni e l’instaurarsi di un’abitudine alla consultazione sul campo, ma la cooperazione aveva dimostrato di funzionare meglio laddove vi era tempo sufficiente per concordare i dettagli. Laddove tali tempi non c’erano, la cooperazione si rivelò difficoltosa se non inesistente. Ad esempio, alla richiesta da parte dell’Unione africana (UA) di un supporto logistico alla propria missione in Darfur (AMIS II), NATO e UE risposero nel giugno 2005 con due missioni di assistenza parallele e autonome che furono solo in parte coordinate sul campo dal personale delle due organizzazioni presso il quartier generale UA, ad Addis Abeba.

Gli stessi Accordi Berlin plus, d’altro canto, avevano funzionato perché di natura tecnica e non politica, e proprio sul fronte politico lasciavano aperti diversi problemi derivanti per molti versi dalle dinamiche interne alle due organizzazioni e che hanno finito per bloccare l’impiego dei Accordi Berlin plus per nuove missioni. La NATO si era allargata molto (dai 19 membri del 1989 ai 29 del 2004) e seguendo l’evoluzione delle priorità statunitensi si era trasformata nel tempo, ma non era ancora stato chiarito che tipo di organizzazione essa fosse. Non era più l’organizzazione di difesa collettiva della Guerra fredda, aveva retoricamente scoperto il comprehensive approach alla sicurezza o almeno l’esigenza di operazioni civil-militari, e aveva intrapreso proprie operazioni civili come quelle a sostegno delle vittime del terremoto in Pakistan dell’8 ottobre 2005 e dell’uragano Katrina negli Stati Uniti dell’agosto 2005. Tuttavia, essa rimaneva un’alleanza militare per nulla adeguata a dispiegare capacità civili in ambiti quali polizia, stato di diritto e diritti umani. Non a caso, l’UE diventò oggetto di pressioni affinché si accordasse con la NATO per una sorta di “Berlin plus in reverse”, in base al quale l’UE avrebbe messo a disposizione della NATO i suoi assetti civili e capacità dispiegabili. Sul fronte UE, l’ingresso di Cipro e Malta nel 2004 aveva complicato le relazioni con la NATO. Ankara cominciò a bloccare ogni scambio ufficiale UE-NATO in cui fosse presente anche Cipro mentre l’Unione non riteneva di poter discutere questioni relative alla sicurezza europea e internazionale senza la partecipazione di tutti i suoi membri. La conseguenza fu il sostanziale blocco del dialogo politico UE-NATO e la sistematica esclusione dall’agenda di qualsiasi questione che non fosse legata alle missioni correnti in regime di Berlin plus, e cioè la sola missione Althea in Bosnia.

Dal punto di vista tecnico, gli Accordi Berlin plus hanno avuto successo nei due casi in cui sono stati utilizzati, cioè in Macedonia e Bosnia, e la cooperazione tra ufficiali e organizzazioni sul campo è stata molto buona. Ma dal punto di vista politico le difficoltà sono evidenti. Come è stato notato, l’UE ha saputo trarre vantaggio dalle relazioni con la NATO, apprendendo da essa modalità di intervento e replicandone gli assetti istituzionali. Ma ciò ha accentuato una tendenza alla autonomizzazione della PESD, nonché a una graduale europeizzazione e “deNATOizzazione” delle politiche nazionali degli Stati membri.  Non a caso, l’operazione in Bosnia è stata l’ultima in regime Berlin plus, nonostante altre ne fossero state proposte successivamente (ad esempio per la crisi in Libano del 2006). Lungi dall’aver dato vita a un “Berlin plus in reverse”, UE e NATO hanno piuttosto proceduto più di una volta a operazioni parallele negli stessi contesti – come nel già citato caso del Darfur nel 2005, o come nel caso dell’Operazione NAVFOR Atalanta, lanciata dall’UE l’8 dicembre 2008 per contrastare la pirateria al largo delle coste somale, dopo che la NATO aveva lanciato una missione quasi identica. La cooperazione sul campo sviluppatasi tra la missione in Darfur o le missioni civili EULEX Kosovo e EUPOL Afghanistan con le missioni NATO in loco, per quanto lodevole è del tutto asistematica in quanto gli Accordi Berlin plus nulla prescrivono circa le missioni civili e circa le relazioni tra missioni UE e NATO autonome presenti sullo stesso territorio.

Il sistema Berlin plus avrebbe bisogno di una revisione e di un ampliamento, ma a causa di ostacoli di natura prettamente politica fino a ora non è stato possibile né utilizzarlo pienamente, né lanciare nuove missioni che di esso si avvalgano.

Giovanni Finizio (2017)

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