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Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa

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Principi ispiratori e finalità

La Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa può essere considerata uno dei successi più misconosciuti della storia dei rapporti Est-Ovest nell’ultimo quarto del XX secolo o – se si preferisce – un esempio di scuola dell’eterogenesi dei fini nella condotta delle relazioni internazionali.

L’idea di un “patto paneuropeo sulla sicurezza collettiva”, che consentisse di dare una sanzione definitiva agli assetti derivati dalla Seconda guerra mondiale e impedisse il riarmo della Germania, era stata lanciata dalla diplomazia sovietica sin dagli anni Cinquanta. Contestata regolarmente dagli Stati Uniti e dalla Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (North Atlantic treaty organization, NATO) – che vedevano in essa il tentativo di arrivare ad una accettazione non più solo di fatto, ma internazionalmente riconosciuta della divisione in blocchi del continente europeo – la proposta era stata rilanciata a varie riprese dal Patto di Varsavia, sia pure con minori entusiasmi, e aveva raccolto l’attenzione di alcuni paesi neutrali – la Finlandia in testa, ma anche la Svizzera – che vi avevano visto, per contro, un’occasione per recuperare spazio politico in una scena che li esponeva al rischio di essere marginalizzati dalla logica del confronto Est-Ovest.

Manovre tattiche a parte, l’atmosfera negli anni Cinquanta non era tale da rendere possibile aperture di questo genere: la crisi di Berlino prima e i fatti di Ungheria poi, per non parlare della Polonia, avevano di volta in volta chiuso le finestre che si erano in qualche momento intraviste. Un discorso di Andrej Gromyko a Roma nel 1966 aveva ottenuto un’attenzione nuova e avrebbe potuto determinare sviluppi positivi, ma questa volta furono i fatti di Praga a bloccare tutto. Con l’inizio degli anni Settanta, tuttavia, la distensione aveva preso più fermamente piede e l’idea di una Conferenza europea venne rilanciata, ottenendo una migliore accoglienza da parte dei principali protagonisti. Gli USA reagirono in maniera meno negativa del passato: pur considerando l’esercizio potenzialmente controproducente e probabilmente inutile, non si opposero all’avvio di contatti, in attesa di giudicare quali ne avrebbero potuto essere gli sviluppi. L’“anno dell’Europa” di Henry Alfred Kissinger, i buoni rapporti fra Richard Nixon e Leonid Brežnev, l’interesse degli alleati europei, tutto contribuì a favorire l’avvio del processo.

Il negoziato in vista della Conferenza

Il negoziato per definire contenuti e modalità operative della futura Conferenza, iniziato a Dipoli in Finlandia nel 1972 e continuato poi a Ginevra nel 1973, si concluse nel 1975 con la firma solenne, a Helsinki, dell’“Atto finale” con cui si dava formalmente avvio alla Conferenza per la sicurezza e cooperazione in Europa. Furono tre anni complicati, durante i quali si trattò non solo di stabilire le forme di un dialogo fra alleanze e gruppi di paesi che avevano nel reciproco contrasto la loro raison d’etre, ma di ricercare un denominatore intorno al quale ancorare una base comunemente intesa di dialogo, senza porre in discussione i cardini delle concezioni politco-strategiche degli uni e degli altri e individuando, al tempo stesso, i margini di manovra costruttiva accanto e attorno a esse. Per molti aspetti si trattava di conciliare l’inconciliabile: la vocazione democratico-liberale dei paesi occidentali e la struttura centralizzatrice leninista del blocco orientale – cui ben poco poteva contribuire a mo’ di cerniera la posizione mediana dei paesi neutri e non allineati (i cosiddetti NNA) – riflettevano modelli di società fortemente divaricati, il cui unico punto d’incontro era dato dalla percezione – vaga – che intorno al progetto di questa Conferenza potesse alla fin fine raggiungersi un risultato a somma positiva. Si aggiunga a ciò la circostanza che, nella misura in cui attribuiva uno status “europeo” agli USA e al Canada, la nuova Conferenza sanciva il diritto americano al coinvolgimento permanente nella condotta delle cose europee e nella sicurezza del continente. Il risultato raggiunto fu dovuto in larga misura al lavoro accorto delle diverse delegazioni che, soprattutto nella fase ginevrina, seppero ridare smalto ad uno strumento, quello delle conferenze diplomatiche, che avrebbe potuto apparire fuori contesto rispetto ai tempi. Helsinki rappresentò un successo significativo per gli strumenti della diplomazia tradizionale.

I “dieci principi” dell’Atto finale incardinano, in maniera reciprocamente determinante, impegni in apparenza contraddittori e non armonizzabili: il riconoscimento dell’inviolabilità delle frontiere con il diritto di una loro modifica pacifica, il rispetto dei Diritti dell’uomo con quello del principio di non ingerenza negli affari interni. Essi disegnano un’Europa “dall’Atlantico agli Urali” in cui le libertà individuali connaturate alle democrazie liberali sono chiamate a convivere con il primato dell’autorità statale. I dieci principi dunque, avrebbero potuto essere applicati nella misura in cui fosse stato possibile individuare un elemento di flessibilità che consentisse di assorbire le aree grigie al margine di ambedue i blocchi. Il marchingegno escogitato dai negoziatori di Helsinki fu quello dell’applicazione contestuale e senza distinzioni di tutti i dieci principi: un ossimoro concettuale solo in apparenza, che nella realtà permise alla CSCE di funzionare, facendo avanzare il terreno comune ogniqualvolta questo avesse a manifestarsi e consentendo nelle fasi di tensione una mediazione interna grazie alla flessibilità – non dichiarata ma in certa misura intrinseca – nell’interpretazione dei dieci principi.

Ciò che consentì alla flessibilità suaccennata di esplicare i suoi effetti fu soprattutto l’adozione del principio del consenso nel processo decisionale. Una struttura come la CSCE non avrebbe potuto essere governata dalla regola della maggioranza; votare non avrebbe voluto dire altro che cristallizzare il confronto e rendere impossibile ogni progresso. Il consenso invece, inteso non come unanimità ma come assenza manifesta di posizioni contrarie, lasciava ampio margine a posizioni differenziate – grazie anche alla possibilità di una loro registrazione nel processo verbale – senza che ciò dovesse determinare una paralisi decisionale. Era un esempio classico di come le “aree grigie” fra i due blocchi potessero essere utilizzate per far avanzare pragmaticamente il dialogo e, soprattutto nei primi anni di vita della CSCE, si rivelò uno strumento prezioso, in grado di assorbire posizioni estreme in attesa che la situazione evolvesse in maniera positiva. Un caso limite di tale applicazione fu quello della Romania a cavallo degli anni Novanta. Il regime di Nicolae Ceauşescu non poteva sopportare, negli ultimi anni di vita, il peso dell’applicazione delle regole CSCE, specie in materia di diritti umani, ma non poteva al tempo stesso permettersi il lusso di una fuoriuscita pura e semplice dall’organizzazione. Il ricorso alle dichiarazioni inserite a processo verbale, ma senza alterare il consenso, venne spinto ai suoi estremi da Bucarest; un espediente che – paradossalmente – permise più tardi alla Romania di riprendere il suo posto nella “famiglia” della CSCE senza dover fare ricorso ad abiure particolari.

Caratteristiche organizzative e strutture della Conferenza

La CSCE presentava molti elementi distintivi rispetto agli organismi internazionali in senso classico, collocandosi in una posizione mediana, un po’ Conferenza diplomatica e un po’ istituzione “leggera”, fortemente destrutturata. La mancanza di un Segretariato vero e proprio era compensata dalla previsione delle cosiddette “Riunioni sui seguiti”, anch’esse per certi versi momenti di verifica intrusiva del rispetto degli impegni presi e per altri occasioni di incontro e di ricerca di mediazioni possibili, rivolte al futuro. La natura degli impegni assunti infine, politicamente e non giuridicamente vincolanti, differenziava anche sotto questo profilo la nuova struttura paneuropea dalle istituzioni germinate dal nascente sistema internazionale multilaterale postbellico.

Al fondo, lo scambio politico alla base della nascita della CSCE – e che la distensione aveva per la prima volta reso concreto – era abbastanza chiaro. Il riconoscimento dell’immutabilità del sistema geopolitico emerso dalla Seconda guerra mondiale da un lato; l’accettazione del principio che libertà individuali e diritti umani erano valori condivisi, il cui rispetto avrebbe dovuto travalicare il confine fra i due blocchi, dall’altro. A molti all’epoca era sembrato uno scambio fra una realtà fattuale e un’altra, virtuale e, partendo da tale valutazione, in molti attaccarono le intese di Helsinki in Occidente, nella convinzione che il “dono” fatto a Brežnev con il riconoscimento della sua zona d’influenza in Europa orientale non avrebbe potuto essere facilmente compensato. Alla fine, tuttavia, lo scambio si sarebbe rivelato vincente per l’Occidente. Le disposizioni del cosiddetto “terzo cesto” – quello dedicato ai contatti fra le persone – hanno contribuito in maniera assai maggiore di quanto non si pensi a scardinare l’apparato autoritario del blocco socialista: già la semplice pubblicazione del testo dell’Atto finale aveva provocato aspettative che, per quanto rapidamente represse, si rivelò impossibile cancellare. Le frontiere poste a difesa dell’intangibilità dei sistemi sociali all’interno dei blocchi si mostrarono una difesa assai fragile nei confronti della proliferazione delle idee. Certo, per arrivare a questo risultato dovettero passare quindici anni ed esso non sarebbe stato raggiunto – o non sarebbe stato raggiunto con altrettanta facilità – se l’URSS non fosse implosa. La CSCE tuttavia, giocò un ruolo non secondario nel facilitare tale processo; un ruolo maggiore di quanto non avessero mai immaginato i suoi fondatori, dall’una come dall’altra parte dello spartiacque Est-Ovest.

L’essenza di tale scambio politico si rifletteva a sua volta nella struttura della CSCE. L’articolazione in tre “cesti” – rispettivamente sulla sicurezza, sui rapporti economici, sui contatti fra le persone e la cultura, più una “appendice” sul Mediterraneo, fortemente voluta dall’Italia – corrispondeva alle priorità rispettive: il primo e il terzo per dare spazio alle preoccupazioni sovietiche e per sostanziare le attese USA e occidentali, il secondo per riempire in qualche modo la distanza con un contenitore “pragmatico”. In ciascuno di essi gli impegni previsti dall’Atto finale trovavano una collocazione organica e, ancora una volta, interdipendente. Al buon funzionamento avrebbero dovuto presiedere le Riunioni sui seguiti previste dall’Atto finale, concepite ancora una volta con una costruttiva ambiguità: funzione di controllo ed impulso per gli uni, di contatto non coercitivo per gli altri.

Immaginata allo scopo di accompagnare il processo di distensione, allargandone via via – e in maniera consensuale – il raggio d’azione, la CSCE è stata uno specchio fedele dell’evoluzione del rapporto Est-Ovest. Le prime Riunioni sui seguiti, a Belgrado nel 1977 e a Madrid nel 1980-83, subirono il peso del deteriorato clima dei rapporti e si conclusero con un sostanziale nulla di fatto. Se a Belgrado il dialogo fu in pratica assente, alla Riunione di Madrid, prolungatasi per circa tre anni fra interruzioni e rinvii, lo scontro assunse carattere più duro, mettendo in luce tutte le difficoltà che il processo immaginato a Helsinki aveva incontrato, una volta ridiventata dominante la logica della Guerra fredda sull’onda, fra l’altro, della crisi degli euromissili. Anche sotto questo aspetto, tuttavia, sarebbe improprio condannare in toto l’esperienza di quegli anni e desumerne un fallimento – o peggio l’inutilità – dell’esercizio CSCE. Le Riunioni sui seguiti permisero di misurare in maniera più precisa l’area del contrasto, utilizzando parametri accettati in partenza, anche se oggetto di letture non concordanti. Allo stesso tempo, tale caratteristica rese più facile al processo CSCE cogliere gli spiragli che talvolta si delineavano nel confronto fra le posizioni, consentendo di consolidare i margini di intesa possibili. L’esempio più significativo di tale dimensione fu quello della Conferenza sul disarmo in Europa, la CDE, nata sull’onda dell’esigenza sentita di non lasciare senza contromisure la terra bruciata di Madrid, e che determinò, con il cosiddetto “Documento di Stoccolma”, l’adozione di una serie importante di misure di sicurezza e di fiducia reciproca sul piano militare – le Confidence and security-building measure (CSBM) – cui avrebbe dopo pochi anni fatto seguito il negoziato sulla riduzione delle forze convenzionali in Europa – il Treaty on conventional forces in Europe (CFE).

Lungo tutta questa fase più conflittuale del processo, si assisté ad una forte crescita della visibilità degli NNA. La loro funzione di cerniera appariva esaltata dalla necessità di disporre – come contraltare al mutismo inter-blocchi – di una mediazione non conflittuale, alla quale affidare il compito di esplorare negli interstizi del confronto i possibili passi avanti e di consolidarli, attraverso iniziative assunte in proprio, ma attentamente negoziate dietro le quinte, in intese spesso non formalizzate, ma comunque importanti, per mantenere aperta la porta del dialogo. Paesi come la Finlandia e la Svizzera – ma anche, in misura minore, l’Austria e la stessa Santa Sede – acquisirono grazie alla CSCE una statura e un’esperienza internazionali che consentirono loro di giocare un ruolo ben al di sopra di quello che la loro forza intrinseca avrebbe normalmente legittimato. Oltre alle Riunioni sui seguiti, uno spazio importante in questo processo fu occupato dalle Riunioni di esperti su temi specifici – quali la soluzione pacifica delle controversie o la cultura – che si tennero negli intervalli fra le Riunioni principali. Esse non portarono ad un ampliamento della portata degli impegni, ma svolsero la funzione di camera di compensazione e di contatto, anche aldilà dell’argomento specifico per cui erano state convocate.

Il ruolo della Conferenza fino agli anni Ottanta

La CSCE come “contenitore” a spettro aperto dunque, ricettore di tendenze più che foro autonomamente propositivo? È una definizione che qualcuno potrebbe giudicare semplicistica, ma che corrisponde abbastanza bene al ruolo svolto sino alla seconda metà degli anni Ottanta. Nel 1986, quando si aprì a Vienna la terza Riunione sui seguiti, il quadro era in rapidissimo mutamento: le aspettative di distensione evocate nel 1975 a Helsinki si ripresentavano with a vengeance, man mano che avanzava la crisi del sistema sovietico e la perestrojka gorbacioviana cercava puntelli in Occidente. La CSCE poteva ora esercitare in positivo la sua funzione di “termometro”: a Vienna la discussione fra Est e Ovest assunse sempre più la connotazione del dialogo e la componente del “terzo cesto” acquistò un peso assai maggiore. Per la prima volta, grazie alla CSCE, si riconosceva che il rispetto dei diritti umani era una responsabilità collettiva e che, quindi, esso avrebbe dovuto essere aperto allo scrutinio, anche coercitivo, da parte di chiunque avesse fondati motivi per lamentarne una violazione, anche dall’esterno dello Stato in cui questa fosse avvenuta. Allo stesso tempo, il negoziato sulle CSBM subiva una netta accelerazione e quello sulle CFE prendeva le prime mosse, raccogliendo l’eredità delle vecchie Mutual balance force reductions (MBFR). Diversamente dalle Riunioni precedenti, a Vienna molte furono le proposte degli uni e degli altri che finirono per trovare spazio nel documento conclusivo, il quale conteneva per la prima volta numerose disposizioni di sostanza, destinate ad arricchire il complesso degli impegni contenuti nell’Atto finale. Allo stesso tempo, il sistema delle riunioni di esperti veniva reso più strutturato, così da dare continuità al processo di revisione/controllo degli impegni: prima fra tutte la decisione – segno evidente di quanto le cose fossero cambiate – di dar vita a tre Conferenze dette sulla dimensione umana – una delle quali da tenersi a Mosca – per mantenere continuità nell’applicazione degli impegni assunti in materia di diritti umani e deliberarne di nuovi.

A Vienna, insomma, la CSCE tornava a svolgere la funzione per la quale era stata concepita a Helsinki, quella di amplificatore dell’area di consenso e di acceleratore della cooperazione. Anche se non ancora del tutto evidente nel 1989, stava tuttavia venendo a mancare uno dei componenti fondamentali dello scambio politico che aveva presieduto alla sua nascita: quello dell’intangibilità dei sistemi politico-sociali all’interno dei rispettivi blocchi. Uno dei due, infatti, cominciava già a non esistere più ed era ormai l’altro corno dello scambio – quello della promozione delle libertà individuali e dei diritti umani – a definire l’insieme delle volontà comuni. Almeno come aspirazione delle società civili, sempre più debolmente contrastata dagli apparati statuali.

La Conferenza dopo la caduta del “Muro di Berlino” e la “Carta di Parigi”

Appariva ormai evidente la necessità di aggiornare il patto sociale sottostante l’Atto finale, riscrivendolo in modo da renderlo compatibile con la realtà di un’Europa non più divisa e che assisté, proprio durante la preparazione del Vertice di Parigi, nelle riunioni del “Prepcom” di Vienna, alla storica scomparsa di uno degli Stati fondatori: con la fine della Repubblica Democratica Tedesca (RDT) la CSCE passò – letteralmente dalla sera alla mattina – da 35 a 34 membri. Pochi avrebbero immaginato, allora, che sarebbero bastati meno di due anni perché il numero crescesse di nuovo, sino agli attuali 53. Si incaricò Michail Gorbačëv in un discorso al Campidoglio nel novembre 1989 (per un curioso destino, è a Roma che le proposte più significative sulla CSCE sono state avanzate, da parte dei leader sovietici: v. Decaux, 1992, pag. 24) – di chiedere la convocazione di un vertice che sancisse solennemente la ritrovata unità del continente intorno a valori condivisi. Il 1990 vide così un negoziato intensissimo per ridare smalto al processo CSCE, aggiornandolo nelle ambizioni prima ancora che nei contenuti. Il Comitato preparatorio del Vertice di Parigi fu chiamato a completare in meno di sei mesi quello che a Ginevra negli anni Settanta aveva richiesto tre anni; ma questa volta gli impedimenti erano di natura tattica e non già frutto di contrapposizioni fondamentali.

La “Carta di Parigi per una nuova Europa” vide la luce nel novembre 1990, salutata come il documento fondamentale del nuovo rapporto Est-Ovest. Essa conteneva una serie di significativi rafforzamenti dell’insieme delle disposizioni del “terzo cesto”, dava per la prima volta un contenuto serio a quelle del “secondo cesto” e, quanto al primo, partiva dalla constatazione dell’avvenuta conclusione dei negoziati CSBM e CFE per tracciare nuovi obiettivi condivisi in materia di sicurezza militare. La prima riunione del “Foro sulla sicurezza militare” che si tenne a Vienna qualche mese dopo, riuscì a dare un’immagine plastica di quanto fossero cambiate le cose in Europa. In un turbinio di greche e di stellette, Colin Powell e Andrei Grechko – i due capi di Stato maggiore delle superpotenze, che mai prima di allora si erano incontrati in un contesto multilaterale – si scambiarono informazioni e commenti sui rispettivi sistemi militari, in un esercizio di trasparenza dal modesto rilievo strategico, ma dall’immenso significato simbolico.

La Carta di Parigi conteneva altresì il primo abbozzo di quella “istituzionalizzazione” della CSCE che l’Occidente aveva avversato per molti anni e da cui sarebbe nata, qualche anno più tardi, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE). La spiegazione era abbastanza semplice: ora che la funzione di mediazione del confronto era venuta meno e che il rispetto di impegni condivisi, nella sostanza oltreché nella forma, costituiva il parametro unico della funzionalità dell’intero esercizio, la creazione di strumenti permanenti di impulso e controllo diventava una garanzia importante per l’Occidente, in quanto permetteva di radicare meglio l’acquis (v. Acquis comunitario) della democrazia rappresentativa nell’intera Europa allargata. Pur senza arrivare a un vero e proprio Consiglio permanente, veniva creato un Comitato di Alti funzionari con compiti di coordinamento generale e di preparazione delle riunioni ministeriali, ogni anno, e dei Vertici, ogni due. Il Centro per la prevenzione dei conflitti (CPC), doveva dare un’ossatura stabile alle misure di fiducia in campo militare e costruire su di esse una capacità di conflict prevention generale. A ulteriore sottolineatura dell’univocità dell’impegno democratico, era istituito un ufficio per il monitoraggio delle elezioni e si creava una Assemblea parlamentare, con funzioni consultive. In un residuo soprassalto di rispetto per quanti temevano il gigantismo istituzionale, ognuna di queste strutture veniva collocata in luogo diverso: a Vienna, Praga, Varsavia e, nel caso dell’Assemblea, senza dimora fissa.

Anche il principio del consenso, su cui la CSCE si era retta sin dall’inizio, cominciava a subire una prima, significativa erosione: solo la strenua opposizione della Iugoslavia impedì che la Carta di Parigi sancisse l’adozione del cosiddetto “consenso meno uno” – di cui si era cominciato a dibattere nella Riunione sui seguiti di Vienna. Del principio cioè, secondo cui la CSCE avrebbe potuto prendere misure contro uno Stato in violazione degli impegni, anche contro la volontà di quest’ultimo (il “consenso meno uno” sarebbe poi stato adottato dalla CSCE un anno dopo, al Consiglio ministeriale di Berlino, sulla spinta della crisi iugoslava, che costituì il primo banco di prova – non riuscito – della capacità della CSCE post Carta di Parigi, di svolgere un ruolo significativo di conflict management e resolution). L’Atto finale, insomma, veniva non solo aggiornato nella Carta di Parigi, ma considerevolmente rafforzato, dandogli una cogenza assai maggiore, pur senza innovare la sua natura giuridica, in forza della diversa qualità della comune volontà sottostante.

L’inefficienza della Conferenza di fronte alla crisi balcanica

La Carta di Parigi avrebbe dovuto accompagnare la transizione in Europa dal socialismo reale alla democrazia rappresentativa in quello che all’epoca sembrava un arco di tempo ragionevole: un quinquennio e forse più. La sua costruzione logica e l’intero impianto pattizio riflettevano la duplice preoccupazione di dare maggior sostanza cogente agli impegni assunti, ma allo stesso tempo di non provocare fratture troppo rigide in paesi che, dopotutto, erano chiamati ad affrontare una trasformazione che ne stravolgeva le fondamenta. E invece, la transizione avvenne in poco più di un anno, con una serie di accelerazioni indotte dalla dissoluzione dell’URSS e dalle crisi regionali che si susseguirono già nei mesi successivi al Vertice di Parigi. Dapprima la crisi dei paesi baltici e poi la questione iugoslava, iniziata in sordina con la Slovenia e poi dilagata a macchia d’olio, finirono per togliere molta della sua credibilità alla CSCE come foro negoziale e mostrarono i limiti del suo “meccanismo di emergenza” per la gestione delle crisi. Il “meccanismo di emergenza” era l’applicazione pratica del “consenso meno uno” deciso alla Ministeriale di Berlino del 1991. La Carta di Parigi è rimasta così un documento ad un tempo in anticipo e in ritardo sui tempi: i suoi contenuti politici hanno continuato a dispiegare pienamente la loro validità; i suoi strumenti hanno perso rapidamente di efficacia, per il venir meno dei presupposti che li avevano determinati.

La CSCE dimostrò tuttavia, anche in questo frangente, la validità del suo impianto di base e i pregi della sua flessibilità, operando una graduale trasformazione da organismo di impulso politico sostanzialmente destrutturato a istituzione sempre più “solida” con compiti soprattutto di conflict resolution e di monitoraggio dei processi democratici. Alla Riunione sui seguiti di Helsinki del 1992 tale processo ebbe una accelerazione, con l’enfasi posta sul rafforzamento degli strumenti di intervento in materia di diritti umani – anche attraverso la creazione di un Alto rappresentante – e di sicurezza, inserendo l’azione della CSCE più saldamente sotto il cappello del cap. VII della Carta delle Nazioni Unite. Veniva in tal modo spianata la strada per il passaggio all’OSCE, l’organismo permanente che nel 1994 a Budapest, avrebbe preso definitivamente il posto della CSCE.

Conclusioni

Lungo tutto l’arco della sua storia, la CSCE è stata in primo luogo un esercizio europeo: tanto a Est come ad Ovest, è dai paesi europei che è venuto il più forte contributo propositivo e l’impulso politico più costante. Può apparire un paradosso, visto che è stata proprio la CSCE a incardinare il principio che USA e Canada dovessero a tutti gli effetti considerarsi parte integrante della sicurezza europea: gli USA in particolare, non hanno mai abbandonato del tutto la diffidenza per un processo dietro il quale vedevano profilarsi il rischio di offrire ai sovietici uno spazio di manovra per neutralizzare la NATO (sospetti che la Francia di François Mitterrand alimentò nuovamente, anche se non più in un’ottica sovietica, avanzando agli inizi degli anni Novanta, fra i Vertici di Parigi e Helsinki, una sua nuova proposta di Conferenza paneuropea). Anche quando tale rischio apparve ormai superato dagli eventi, gli USA non rinunciarono del tutto a un approccio inquisitivo, e in qualche misura fiscale, nei confronti del processo CSCE. Un approccio che rispondeva a condizionamenti di politica interna americana facilmente percepibili – e comprensibili (le delegazioni USA alle riunioni CSCE erano le uniche a contare al loro interno una rappresentanza ufficiale del Congresso, con il quale mantenevano un filo diretto ed autonomo) – ma che ne hanno limitato l’efficacia, condizionando altresì in qualche misura la capacità propositiva della NATO.

È anche per questa ragione, forse, che la CSCE ha rappresentato un terreno particolarmente fertile per la cooperazione politica europea. Già a Helsinki Aldo Moro, firmando l’Atto finale in qualità di presidente di turno della CEE (Comunità economica europea), rivendicò il diritto di questa a essere parte intera del processo “per le materie di propria competenza”. A tale formula si arrivò al termine di un negoziato defatigante che vide i Nove in contrasto con quasi tutti gli altri partecipanti ma che, una volta risolto, costituì una base non controvertibile sulla quale la CEE poté continuare a costruire. Nelle Riunioni sui seguiti successive – e nelle Riunioni specializzate – le proposte occidentali originarono sempre o quasi dalla Comunità europea, in un contesto negoziale le cui punte più aspre si registrarono, in più di un’occasione, nell’ambito inter-occidentale. Ciò si verificò con particolare evidenza nella preparazione del Vertice di Parigi. La “Carta per una nuova Europa” fu in larghissima misura frutto dell’elaborazione dei Dodici – sotto la presidenza e con il forte impulso dell’Italia – cui si contrappose assai spesso una ostinata resistenza americana. Il timore che la nuova CSCE finisse per virare troppo rapidamente verso un appeasement che all’epoca poteva apparire a taluni un rischio reale, ebbe indubbiamente il suo peso. Ma la ragione principale fu probabilmente un’altra: quella dell’emergere durante il negoziato di un nuovo soggetto, la CE (Comunità europea), capace di muoversi unitariamente e di esercitare, nel particolare contesto politico della CSCE, essendo direttamente meno vincolato a questioni di equilibrio strategico-militare, un’influenza comparabile a quella degli Stati Uniti. Il Vertice di Parigi costituì uno degli esempi di maggior successo – spesso sottaciuto – della cooperazione politica europea. L’eclissi dei paesi dell’Est in quanto gruppo – pur se con significative eccezioni, quali la Polonia e l’Ungheria nonché, a tratti, la stessa Unione Sovietica – e l’inevitabile appannarsi del ruolo degli NNA, aveva dato maggiore risalto al peso degli USA con la NATO e dell’Unione europea (UE); il dinamismo di quest’ultima non venne sempre rettamente inteso e diede luogo a più di una incomprensione con Washington. Peraltro presto superate dalla storia: se i Dodici furono lungimiranti nel disegnare una Carta di Parigi aperta al cambiamento, gli USA più di altri poterono governare l’accelerazione che il crollo del vecchio sistema europeo avrebbe portato all’insieme delle relazioni internazionali.

Antonio Armellini (2008)

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