Convenzione di Arusha

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Il 2 dicembre 1969, durante un Vertice all’Aia, i sei paesi membri della Comunità economica europea (CEE) diedero parere favorevole alla ripresa dei contatti per l’ingresso di Regno Unito, Irlanda, Danimarca e Norvegia, dopo il fallimento delle trattative seguite alle prime due richieste di adesione dell’agosto 1961 e del maggio 1967, riaprendo la questione dei futuri rapporti fra la CEE e le ex colonie britanniche.

In occasione dei primi negoziati per l’adesione del Regno Unito, la richiesta di associazione per le proprie ex colonie venne portata avanti dai rappresentanti britannici, senza informare i governi interessati. La mancata consultazione suscitò i timori africani sulla matrice del regime di associazione, sospettato di perpetuare, anche dopo l’indipendenza, la sudditanza politica rispetto alla ex madrepatria.

Una serie di avvenimenti di quegli anni, infatti, avevano messo in cattiva luce l’atteggiamento di alcuni governi europei nei confronti dei nuovi Stati indipendenti africani. I paesi del gruppo di Casablanca, costituitosi nel gennaio 1961 al termine della omonima Conferenza (ne facevano parte i paesi del cosiddetto “neutralismo positivo”, tra cui Egitto, Algeria, Marocco, Guinea, Mali, Ghana, tutti schierati su posizioni oltranziste nei confronti delle ex madrepatria), consideravano l’associazione alla CEE come un mezzo per impedire la coesione fra i paesi africani e per rallentarne il cammino verso la piena sovranità. A questi si contrapponeva il più moderato gruppo di Brazzaville – costituitosi nel dicembre 1960 a Brazzaville, in occasione di una riunione patrocinata dal presidente della Costa d’Avorio Félix Houphouet-Boigny, e che comprendeva il Madagascar e tutti gli Stati della ex Africa occidentale francese (AOF) e Africa equatoriale francese (AEF) ad eccezione di Guinea, Mali e Togo – a cui aderiva la maggior parte degli Stati africani e malgasci associati (SAMA). In particolare, fra gli episodi più significativi di quegli anni, si possono menzionare: il taglio dell’assistenza francese alla Guinea e la sua esclusione dalle Convenzioni di Yaoundé dopo il suo voto contrario al referendum voluto da Charles De Gaulle; gli esperimenti nucleari francesi nel Sahara, compiuti nonostante le proteste degli Stati africani e la rottura delle relazioni diplomatiche con la Nigeria; la minaccia tedesca di blocco dell’aiuto europeo al Mali nel caso avesse riconosciuto la Repubblica Democratica Tedesca e il ruolo del Belgio durante la crisi congolese, seguita alla secessione della regione del Katanga e culminata nel colpo di Stato che mise fine alla presidenza di Patrice Lumumba.

Tutti i paesi africani coinvolti dalla richiesta di associazione inoltrata per loro dal governo inglese (tranne la Sierra Leone) rifiutarono la proposta durante la Conferenza dei primi ministri del Commonwealth del settembre 1962. Tuttavia, il successivo veto francese all’ingresso del Regno Unito nella CEE, che eliminava lo scoglio politico della presenza della ex madrepatria nella associazione, riaprì la strada ai negoziati, consentendo ai paesi del Commonwealth di cercare un accordo che difendesse il diritto di accesso delle proprie esportazioni sul mercato comunitario che cresceva più rapidamente di quello inglese.

L’accordo concluso dalla CEE con Turchia e Grecia servì da esempio per un patto fra Stati sovrani, come previsto dall’articolo 238 del Trattati di Roma e dalla Dichiarazione di intenti del 1963. Quest’ultima prevedeva, per i paesi terzi con struttura economica e produttiva paragonabile ai paesi associati, tre formule di accordo: l’accessione alla Convenzione di Yaoundé secondo la procedura prevista dalla stessa Convenzione, un regime di associazione sui generis sulla base dell’articolo 238 con reciprocità di diritti e obblighi nel settore degli scambi commerciali, oppure un semplice accordo commerciale non discriminatorio. La persistenza di accordi commerciali all’interno del Commonwealth, i quali offrivano accesso privilegiato su base non reciproca alle merci africane, e l’impegno francese nel proteggere la posizione degli associati, rendevano più facilmente percorribile la seconda strada.

Il primo Stato dell’Africa anglofona a concludere la trattativa fu la Nigeria; la Convenzione fu firmata a Lagos il 16 luglio 1966 dopo tre anni di negoziati che videro ancora una volta da una parte Francia e Stati associati, uniti nella richiesta di misure atte a garantire vantaggi reciproci fra le parti e, dall’altra, Germania e Paesi Bassi, ansiosi di raggiungere un accordo con quello che era il più importante Stato anglofono africano, in modo da sancire la validità della Dichiarazione di intenti.

La Convenzione prevedeva il libero accesso nella CEE dei prodotti nigeriani, tranne per quattro prodotti concorrenti di importazioni dagli Stati africani e malgasci associati (SAMA) (cacao, olio di palma, olio di semi di arachide e legno compensato) per i quali vennero fissate quote che stabilivano restrizioni quantitative all’importazione di tali merci. Il principio della reciprocità (in base al quale i paesi terzi che ottengono come vantaggio di accedere al mercato comunitario devono accettare di aprire i loro mercati ai prodotti della CEE) veniva, almeno nominalmente, rispettato: la Nigeria aboliva erga omnes le tariffe doganali sulle importazioni, tranne per 26 prodotti per i quali la CEE avrebbe goduto di riduzioni tariffarie dal 2% al 5%; questo vantaggio non avrebbe, però, danneggiato significativamente gli altri partner commerciali della Nigeria, essendo già la CEE il maggiore fornitore per questi prodotti.

Lo scoppio della guerra civile nel paese africano, che vide la Francia appoggiare i secessionisti biafrani, impedì la ratifica della Convenzione che, così, non venne mai applicata e restò solo un importante precedente sulla via dell’ampliamento della collaborazione CEE-Africa.

I paesi della Comunità dell’Africa orientale (Repubblica Unita di Tanzania, Repubblica dell’Uganda e Repubblica del Kenya) avevano sottoposto agli Stati europei un memorandum esplorativo prima dell’inizio dei negoziati CEE-Nigeria. I negoziati, da subito complicati, come per l’accordo di Lagos, dalla difficoltà di raggiungere un compromesso sul tema della reciprocità di trattamento, rifiutata dai paesi ex Commonwealth, vennero ulteriormente ritardati da una serie di fattori, fra cui il raffreddamento dei rapporti fra Germania federale e Tanzania per l’intenzione di quest’ultima di procedere al riconoscimento della Germania democratica, il rallentamento di tutti i lavori in seno alla CEE per il boicottaggio francese delle istituzioni comunitarie nel 1965, le difficoltà per i paesi dell’Africa orientale di raggiungere posizioni comuni, la priorità data al più importante accordo con la Nigeria.

La conclusione di quest’ultimo, tuttavia, fungendo da modello, accelerò le trattative che si conclusero nel settembre del 1969 con la firma della Convenzione di Arusha (Tanzania), che entrò in vigore nel gennaio del 1971 e la cui scadenza fu fissata il 31 gennaio 1975, in concomitanza con la scadenza della seconda Convenzione di Yaoundé.

Come per la Convenzione di Lagos, l’accordo aveva un contenuto prevalentemente commerciale e non prevedeva alcuna forma di assistenza tecnica o finanziaria. Tutte le esportazioni dall’Africa orientale avrebbero goduto del libero accesso sui mercati europei a eccezione di tre prodotti, particolarmente importanti per i SAMA, per i quali vennero previste limitazioni quantitative: caffè (quota annuale di 56 mila tonnellate), ananas in scatola (860 mila tonnellate) e chiodi di garofano (120 tonnellate). La CEE avrebbe goduto di preferenze tariffarie dal 2% al 9% su 59 prodotti (ne erano stati richiesti 220 a fronte di un’offerta di 26) che insieme costituivano il 15% del valore delle importazioni totali dagli Stati membri (8 milioni di sterline keniote). In sostanza, tale sistema di preferenze tariffarie agevolava le esportazioni di merci comunitarie, alle quali erano applicate imposte (le tariffe, appunto) più basse rispetto a quelle degli altri concorrenti.

Vennero istituiti: un Consiglio di associazione, composto dai ministri degli Stati partecipanti all’accordo o da eventuali supplenti, con poteri di decisione relativi alla realizzazione degli obiettivi previsti dalla Convenzione, e una Commissione parlamentare dell’Associazione, composta su base paritaria da membri del Parlamento europeo e dei parlamenti degli Stati associati, che si sarebbe riunita annualmente per discutere i problemi dell’associazione.

Marco Zupi (2008)