A B C D E F G H I J K L M N O P R S T U V W X Z

Mitrany, David

image_pdfimage_print

M. (1888-1975) fu un economista, un giornalista e un esperto di politica internazionale. Lasciato il proprio paese natale, la Romania, dopo il servizio militare, trascorse alcuni anni in Germania e, nel 1912, si trasferì in Inghilterra (v. Regno Unito) e studiò presso la London School of Economics. Divenuto docente universitario, grazie a una brillante carriera accademica entrò a far parte nel 1933 dello staff dell’Institute for Advanced Study di Princeton (New Jersey). Collaborò con il Foreign Office. Viene ricordato per la teoria funzionalista (v. Funzionalismo) proposta, nel 1943, nella sua opera più importante: A Working Peace System. An Argument for the Functional Development of International Organization (trad. it. Le basi pratiche della pace. Per una organizzazione internazionale su linee funzionali, 1945). Tale teoria, indicando una “via” alternativa a quella federalista, ha fortemente influenzato il processo di integrazione europea.

La prospettiva funzionalista

M. immagina un mondo in cui una “rete” di istituti funzionali (Authority), gestendo le attività internazionali e occupandosi della soluzione dei problemi sociali ed economici al di fuori della dimensione politica delle relazioni internazionali, sia in grado di garantire pace e cooperazione: «La pace non può essere assicurata se noi pretendiamo di organizzare il mondo giusto su quelle basi che lo dividono. Nella misura, invece, nella quale attività tali da organizzare la pace si svilupperanno ed avranno successo, si può sperare che la mera prevenzione dei conflitti, per quanto essa possa essere d’importanza essenziale, cadrebbe col tempo in una posizione subordinata nell’ambito dei problemi internazionali, mentre ci occuperemo di ciò che è il compito reale della nostra comune società: la vittoria sulla povertà, sulla malattia e sull’ignoranza. L’impalcatura del Federalismo politico-territoriale era opportuna quando la vita aveva limiti locali più ristretti e i legami delle varie attività erano ancora deboli. Ma ora la nostra reciproca interdipendenza sociale pervade e circonda ogni nostra attività e il suo aspetto politico si svilupperà anche esso come parte di quella interdipendenza se riusciremo a darle una forma organica funzionale. Gli elementi di un sistema funzionale potranno cominciare ad operare senza un’autorità politica ad essi sovrapposta, mentre invece un’autorità politica senza attive funzioni sociali rimarrebbe un tempio vuoto» (v. Mitrany, 1945, p. 89). L’integrazione tra gli Stati deve quindi essere innanzitutto “funzionale” e precedere la formazione di un’autorità politica (va però rilevato che M., come si vedrà in seguito, considera difficilmente percorribili le “vie politiche”).

L’analisi della politica internazionale

Le premesse dell’elaborazione teorica di M. sono l’esigenza, già fortemente avvertita negli anni precedenti la Seconda guerra mondiale, di un rinnovato sistema di rapporti internazionali e quello che può essere definito il fallimento della Società delle Nazioni (SDN), dimostratasi incapace di prevenire le aggressioni e di organizzare la pace.

Tale insuccesso, che viene considerato da M. il punto di partenza di qualsiasi analisi riguardante la politica internazionale, è imputabile principalmente a due cause e, in buona sostanza, a due punti di vista. Si ha, infatti, la prospettiva di coloro che attribuiscono il fallimento della SDN alla mancanza di senso di responsabilità manifestato dalle piccole nazioni e/o alla politica estera delle potenze maggiori, fondata sull’egoismo e, potremmo dire, sulla volontà di potenza. Esiste poi una seconda prospettiva, legata a una visione di tipo federalista, che M. ritiene più interessante. Si tratta della “diagnosi” di coloro che attribuiscono l’inefficienza della SDN a carenze riguardanti la sua forma organica e alla limitata estensione del suo ambito di intervento: l’errore di fondo è rappresentato dal fatto che la SDN non ha mai avuto la possibilità di agire con una maggiore incisività. M. considera con interesse questa prospettiva di analisi, che riguarda, in primo luogo, le “funzioni” di una organizzazione internazionale. Essa, infatti, basa il suo successo sulla possibilità e capacità di coordinare attività, anche di importanza strategica, storicamente riservate, all’interno delle singole nazioni, allo Stato. Si attua, in pratica, un trasferimento del processo di costruzione dello Stato moderno, che ha assunto nel tempo sempre più attività prima di competenza di organizzazioni di livello municipale, provinciale e regionale, dal piano nazionale a quello internazionale.

Un’impostazione di questo tipo non convince M., che considera difficilmente praticabile quella che potremmo definire la via federalista, fondata sulla fiducia in una progressiva federalizzazione della società internazionale. Le perplessità di M. nascono innanzitutto dal fatto che le federazioni abbiano sempre avuto un’estensione nazionale; conseguentemente, non è scontato il successo di un’operazione che prevede lo spostamento di un determinato sistema in un ambito sicuramente più ampio e, soprattutto, caratterizzato da una maggiore complessità.

È a questo punto che M., chiedendosi se il federalismo sia effettivamente in grado di garantire pace e sicurezza nel mondo, introduce il concetto di “unità politico-territoriali separate”, superando la distinzione, tipica dei federalisti, tra “federazione” e Stato nazionale. Tali unità politico-territoriali, separate, diverse e, almeno potenzialmente, rivali, rappresentano una costante minaccia, in quanto la loro stessa esistenza può causare in qualsiasi momento controversie e, addirittura, guerre. In quest’ottica, cosa rappresenta una federazione? Per M. semplicemente un’unità politico-territoriale di nuovo tipo, che provoca solo uno spostamento o una riduzione delle linee di separazione: in altre parole, il federalismo non è un mezzo affidabile per l’ottenimento di una pace permanente. Solo la progressiva scomparsa delle divisioni politiche può assicurare dei rapporti internazionali veramente rinnovati, garanzia di pace e sicurezza.

Per M., quindi, il mondo si trova di fronte a un bivio: o si giunge alla creazione di un unico soggetto politico, una specie di super Stato, un’unica organizzazione mondiale di tipo statuale, che finirebbe con l’eliminare con la forza le divisioni esistenti, oppure si affida il superamento delle divisioni politiche a un sistema in grado di innescare un processo progressivo di diffusione e di integrazione di attività internazionali e di permettere la nascita di “istituti di carattere internazionale”, aventi il compito di favorire una graduale integrazione degli interessi vitali di tutte le nazioni.

I limiti del federalismo

La critica di M. al federalismo, puntuale e articolata, parte dall’analisi della contrapposizione, presente nell’elaborazione teorica federalista, tra “Unione di popoli” e  “Unione di Stati”. I federalisti considerano condizione essenziale per il successo di una federazione il fatto che questa sia una Unione di popoli, pena lo sprofondamento negli insuccessi della SDN., minata fin dal primo momento di vita da un vero e proprio difetto costitutivo: avere degli Stati come membri. Quindi, rileva M., i federalisti non puntano a raggiungere la buona intesa delle unità politiche dirigenti, ma auspicano e ricercano quella delle diverse comunità politiche nazionali, cioè dei popoli.

Ma cosa si intende per popolo? Si considera popolo la totalità di ogni singola nazione, senza distinzioni di classe o di appartenenza politica: nel “popolo” sono ricompresi tutti i gruppi, tutte le “frazioni”. Ciò, per M., rappresenta un elemento di debolezza e di potenziale pericolo, poiché si traduce nell’inclusione, automatica si potrebbe dire, di gruppi ostili all’Unione, che affiancherebbero all’interno della federazione tutti coloro che invece sono favorevoli all’idea di federarsi. La tenuta di una federazione sarebbe continuamente messa in discussione dalla costante contrapposizione delle due “frazioni”: in democrazia, ad esempio, l’affermazione di una nuova maggioranza, contraria all’Unione, potrebbe comportare la disgregazione della federazione. E le collettività politiche, osserva M., sono sempre soggette ad alterazioni e, in certi casi, a cambiamenti radicali, in grado di allentare o addirittura distruggere i vincoli comuni.

M. critica anche le proposte avanzate dai federalisti con l’intento di trovare la soluzione di un così grave problema. Essi individuano due possibili criteri di selezione da utilizzare nella scelta dei membri della federazione, che può essere costituita su base geografica o su base ideologica. Nel primo caso, il criterio geografico porterebbe alla creazione di una federazione continentale, in cui le differenze di natura ideologica sarebbero ininfluenti; nel secondo caso, il criterio ideologico condurrebbe alla nascita di una federazione omogenea dal punto di vista ideologico, ad esempio di una federazione formata da democrazie: le naturali divisioni geografiche non sarebbero neppure prese in considerazione.

Entrambi i tipi di federazione, per M., non rappresentano una via percorribile e, soprattutto, non garantirebbero quello che è l’obiettivo finale: la pace.

Per quanto riguarda le Unioni continentali, esse, da una parte, aprirebbero la strada al predominio dei membri più potenti delle varie federazioni; dall’altra, tradirebbero, in un certo senso, le finalità di pace e cooperazione internazionale, visto che avvierebbero un processo unitario su vasta scala, tendente a produrre una sorta di unità nazionale ampliata. Essendo esclusa la possibilità di costruire una federazione mondiale, ci si troverebbe di fronte a federazioni di dimensioni continentali, potenzialmente rivali, che, nel tempo, prenderebbero il posto delle Grandi potenze nell’arena internazionale: in teoria, le rivalità tra Grandi potenze e Alleanze potrebbero trasformarsi nelle rivalità tra continenti interi.

M., inoltre, ovviamente sensibile alle questioni economiche, rileva un ulteriore pericolo derivante dall’esistenza di Unioni continentali: esse, disponendo di molte più risorse dei singoli Stati nazionali, avrebbero la possibilità di praticare politiche di tipo autarchico, aggravando così sempre più divisioni e controversie all’interno della comunità internazionale. In realtà, qualsiasi riorganizzazione di tipo territoriale non risolverebbe il problema, ma produrrebbe solo una variazione dimensionale del problema: la divisione del mondo in unità politico-territoriali separate non verrebbe intaccata. E questo è, per M., il punto centrale e problematico: l’esistenza di comunità politiche concepite come unità territoriali chiuse, tendenzialmente omogenee dal punto di vista politico e alla ricerca dell’autosufficienza economica.

Passando poi a considerare le “Unioni ideologiche”, M. ritiene che una federazione fondata sul criterio ideologico, pur fornendo quell’unità di pensiero assente nelle “Unioni continentali”, non costituirebbe una garanzia di stabilità e di durata. Infatti, prendendo come esempio una federazione tra democrazie, nei paesi democratici è assai improbabile che possa esistere una vera omogeneità ideologica: ciò comporterebbe l’esistenza di gruppi democratici all’interno dei paesi non democratici esclusi dalla federazione e di gruppi antidemocratici nei paesi democratici inclusi. Da una parte, quindi, i gruppi democratici verrebbero abbandonati, dall’altra quelli antidemocratici avrebbero la possibilità di minacciare dall’interno la nuova organizzazione politica. M. prende in considerazione anche gli eventuali cambi di regime nei paesi membri della federazione, che, sulla base del criterio ideologico, potrebbero dare il via a una serie di ammissioni ed espulsioni, che determinerebbero una situazione talmente caotica da risultare ingestibile. Tutto ciò, questa è la conclusione del ragionamento, non è compatibile con le esigenze di compattezza e di solidità, sia dal punto di vista politico, sia dal punto di vista economico, che devono caratterizzare una federazione.

Il metodo funzionale

M. avverte la necessità di costruire un sistema in grado di associare le diverse nazioni, trovando un terreno comune: tale terreno è rappresentato dallo svolgimento di attività comuni. Egli, inoltre, studiando le forme di amministrazione statale del suo tempo, giunge alla conclusione che sempre più acquistano importanza le organizzazioni specifiche create per specifiche funzioni. Tali organizzazioni, sottratte, entro certi limiti, alle tradizionali suddivisioni giurisdizionali di diritti e poteri, nascono sulla base delle esigenze che via via emergono e delle condizioni particolari di tempo e di luogo. M., in questo senso, osservando i profondi cambiamenti avvenuti all’interno dei vari Stati nazionali, ritiene che le necessità pratiche abbiano spesso preso il posto delle norme costituzionali nel definire e determinare concetti come quelli di autorità e di azione pubblica; concetti che hanno subito nel tempo una metamorfosi.

In particolare, M. rileva l’esistenza di due tendenze di segno opposto: la prima verso una centralizzazione dei servizi e dell’autorità; la seconda nella direzione di una crescente delega di poteri e compiti ad autorità di livello regionale o di altro genere. E se si considera la dimensione internazionale, si può notare che attività comuni sono organizzate per mezzo di accordi ad hoc di tipo funzionale, nonostante la parallela formazione di una legislazione fondata su norme e convenzioni giuridiche. Organi amministrativi e accordi esecutivi di questo genere, pertanto, rivestono per M. una grande importanza nell’ambito dell’organizzazione amministrativa moderna.

Tutto ciò non è però facilmente trasferibile dal piano nazionale a quello internazionale. Un metodo basato sull’adempimento di compiti, di funzioni, cioè un metodo funzionale, si chiede M., può essere applicato su scala internazionale al di fuori di un sistema politico? Eccoci quindi al tema del rapporto tra un’organizzazione di tipo funzionale e la dimensione del “politico”. M. non esclude la possibilità di una sistemazione generale politica, considerata non incompatibile, in linea di principio, con il Funzionalismo; tuttavia, ricordando che governare significa essenzialmente svolgere un’attività pratica, critica il ricorso a formulazioni costituzionali tanto care ai teorici. Ciò rappresenta uno dei fondamenti del pensiero di M., che propugna con forza il superamento delle vecchie, superate divisioni di competenza sancite dalle costituzioni, che possono rivelarsi un intralcio per quello che potremmo definire il nuovo che avanza, cioè gli sviluppi funzionali nel quadro delle attività internazionali.

Il metodo funzionale, di conseguenza, può essere praticamente operativo anche senza un’organica e immediata impalcatura costituzionale, poiché le strutture costituzionali predeterminate, spesso troppo teoriche e tecnicistiche e/o condizionate dalle passioni politiche del momento, sono inadeguate e, quindi, inutili di fronte alla richiesta che tutti gli esseri umani avanzano: pace e condizioni di vita accettabili. In altri termini, i popoli possono certamente applaudire costituzioni e proclamazioni di diritti, ma, in realtà, ricercano solo la soddisfazione di necessità improrogabili.

M., per chiarire il senso della teoria funzionalista da lui elaborata, utilizza come esempio l’azione del presidente statunitense Roosevelt (v. Roosevelt, Franklin Delano), il quale, di fronte alla gravissima crisi in cui si trovava il suo paese, non aveva fatto ricorso a procedure di tipo politico-giuridico, proponendo riforme costituzionali, ma aveva affrontato le necessità politiche e pratiche del momento, individuando specifici metodi di soluzione pratica di singoli problemi. Anche in questo caso le generalizzazioni teoriche e i metodi amministrativi preesistenti si sarebbero rivelati inefficaci.

Trovare la soluzione pratica di singoli problemi, infatti, significa stabilire volta per volta compiti, cioè “funzioni”, innescando un meccanismo automatico, spontaneo, in grado di riprodurre in ambito amministrativo-organizzativo ciò che avviene negli organismi viventi: ogni funzione genera gradualmente le altre, creando una suddivisione funzionale simile a quella delle cellule.

Il metodo funzionale, perciò, è fondato essenzialmente su automatismi che tendono a escludere l’intervento della “politica”, intesa, da questo punto di vista, come il terreno della conflittualità; e M., non va dimenticato, elabora la propria teoria con il dichiarato proposito di indicare la via da seguire per giungere a una condizione di pace mondiale permanente.

Da questo punto di vista, i benefici del metodo funzionale sono evidenti: esso, conducendo all’instaurazione di organi amministrativi comuni, determina il sorgere di una comunanza di abitudini e interessi, che di fatto rendono inutili i confini tra gli Stati. Inizia quindi un processo di cooperazione e integrazione basato su quello che possiamo definire l’“interesse comune”; tale processo va a incidere positivamente sul problema della sicurezza. Per M. è possibile, in un contesto internazionale di questo tipo, trasformare la “difesa” in “polizia”, poiché il significato stesso della parola sicurezza viene ridefinito: per sicurezza non si intende più l’intangibilità dei confini statali, da difendere con gli eserciti, ma una vita sociale tranquilla garantita da un regime comune funzionale.

Un ulteriore esempio della pacifica collaborazione indotta dal metodo funzionale si può dedurre dal modo in cui viene affrontata la delicata questione dell’eguaglianza tra gli Stati membri nella direzione di una organizzazione internazionale funzionale. In essa, sottolinea M., sorge una corrispondenza tra l’autorità e la responsabilità; cioè la partecipazione e il peso di ciascun membro non derivano dalla maggiore o minore potenza, ma dalla maggiore o minore responsabilità di fatto. Per questa ragione, ogni trasferimento di autorità deve restare entro limiti specifici e determinati in relazione agli scopi che si intendono raggiungere. Gli Stati meno potenti accettano così senza particolari resistenze un assetto organizzativo finalizzato al compimento di funzioni che creano vantaggi per tutti, per le potenze maggiori come per quelle minori: anche in questo caso entra in gioco il principio dell’“interesse comune”.

Nella prospettiva funzionalista, quindi, una conclamata ineguaglianza di fatto si contrappone a una finzione legale di eguaglianza: l’ineguaglianza tra gli Stati esiste, ma è sottratta al campo della forza e trasferita in una dimensione “tecnica”, in cui contano solo le differenze reali nelle capacità e negli interessi di ciascun membro rispetto a ogni singola specifica funzione.

Tutto ciò comporta l’eliminazione delle rivalità tra i vari Stati, la cui dignità nazionale è al riparo da possibili “offese”, in quanto si può trovare in una posizione di inferiorità non uno Stato, ma semplicemente una sua particolare mansione. Si tratta, inoltre, di una inferiorità di fatto, evidente, accettata, parziale e, soprattutto, mutevole. Ciò significa che ciascun membro di una organizzazione di questo tipo, migliorando la propria capacità di compiere una determinata attività funzionale, ha la possibilità, nel tempo, di raggiungere un livello più alto nella gerarchia del controllo internazionale di tale attività.

M. ritiene perciò che solo il metodo funzionale possa permettere un graduale progresso nella direzione di una vera eguaglianza tra gli Stati, al di là delle finzioni giuridiche, e possa rappresentare il passaggio da una eguaglianza formale a una eguaglianza “pratica”, basata su dati di fatto incontrovertibili. Non solo: un’organizzazione internazionale funzionale, sviluppandosi, ampliando la quantità (e anche la qualità) dei servizi comuni distribuiti, favorisce a tal punto un avvicinamento nelle condizioni di vita comune, nelle abitudini e perfino nel modo di pensare, da costituire, in certi casi, un primo passo verso un’associazione di natura politica.

Tuttavia, nonostante qualche timida “apertura” nei confronti di una possibile integrazione politica, M. resta ancorato a una concezione funzionalista “pura”, che esclude l’intervento della politica. Ne è una dimostrazione uno degli elementi più importanti della procedura funzionale: l’autodefinizione, cioè la capacità della funzione di determinare gli organi che le sono più appropriati. Il metodo funzionale non si limita, infatti, a indicare la natura di una determinata attività, ma individua anche i poteri di cui l’adempimento di tale attività necessita. È la funzione stessa, in altri termini, a stabilire lo strumento adatto per un’attività specifica, a provvedere alle modifiche necessarie in tale strumento nelle successive fasi di attività e, in ultima analisi, a “decidere” a quale istituto funzionale (Authority) debba essere affidata la gestione di data attività.

Un’altra questione importante è rappresentata dal fatto che il sorgere nel tempo di sempre nuovi istituti funzionali renda probabilmente prima o poi necessarie forme di coordinamento, nonostante ciascun istituto possa e, in un certo senso, debba operare in autonomia. Ancora una volta tutto deve essere compiuto secondo i criteri del metodo funzionale: qualsiasi attività di coordinamento tra istituti funzionali deve essere fondata su esigenze concrete, sulla soluzione di problemi pratici, senza fare ricorso a piani formali predeterminati.

Per quanto riguarda poi la gestione degli istituti funzionali, M. propone la creazione di un corpo internazionale di funzionari, indipendenti, senza legami condizionanti di tipo politico o nazionale: un corpo, pertanto, formato da “tecnici”, selezionati esclusivamente in base alle loro competenze.

La “depoliticizzazione delle decisioni”, in definitiva, rappresenta il “cuore” del modello di organizzazione internazionale funzionale proposto da M. per indicare le “basi pratiche della pace”.

Stefano Parodi (2017)

Bibliografia

Mitrany D., A Working Peace System. An Argument for the Functional Development of International Organization, RIIA, London 1943; trad. it. Le basi pratiche della pace. Per una organizzazione internazionale su linee funzionali, Cambridge University Press, Cambridge 1945.

Mitrany D., The Prospect of Integration: Federal or Functional, in “Journal of Common Market Studies”, 4, n. 2, 1965.

Mitrany D., The Functional Theory of Politics, London School of Economics & Political Science, Martin Robertson, London 1975.

Parodi S., La teoria funzionalista di David Mitrany. Con riproduzione anastatica della traduzione italiana del volume di David Mitrany “Le basi pratiche della pace”. Per una organizzazione internazionale su linee funzionali, Centro Editoriale Toscano, Firenze 2013.