Federalismo

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L’idea federale appare, sulle due sponde dell’Atlantico, pressappoco nello stesso periodo: il Federalist, nel quale vengono spiegate le ragioni per cui è bene che gli Stati Uniti d’America si diano una costituzione federale, viene pubblicato a New York nel 1788; il saggio Per la pace perpetua – nel quale si sostiene che per superare il problema della guerra è necessario creare una federazione di popoli – vede la luce a Königsgberg, in Prussia, nel 1795. Soltanto sette anni, quindi, separano l’opera di James Hamilton, John Jay e Alexander Madison da quella di Immanuel Kant.

Ma si tratta di una vicinanza temporale che permette di misurare tutta la distanza politica, storica e culturale che separa il Nuovo dal Vecchio mondo. Il Federalist è il commento e la difesa appassionata della nuova Costituzione varata dalla Convenzione di Filadelfia nel 1787; è scritto da uomini che hanno preso parte ai suoi lavori e che ora ne difendono l’esito in una battaglia elettorale dall’esito incerto, il cui scopo è l’approvazione della Costituzione stessa da parte dei vari Stati (vale la pena di ricordare che, pochi anni dopo, tutti gli autori del Federalist ricopriranno incarichi politici di rilievo e che uno di essi, James Madison, sarà eletto per due volte alla presidenza degli Stati Uniti). Costoro vivono in giovani e piccole repubbliche, relegate ai margini della politica mondiale, dove non esistono contrasti di potenza, né gravi conflitti socio-economici; il passato che hanno alle spalle non è lungo e molte cose (dalla recente guerra contro la Gran Bretagna (v. Regno Unito) alla lingua e alla religione) spingono i loro concittadini ad unirsi. Per una pace perpetua, invece, è l’opera di un grande filosofo (che al massimo, nel suo paese, poteva aspirare alla “libertà della penna”): essa è diretta a un pubblico ristrettissimo di persone colte ed è senza dubbio dotata di un grande valore ideale, ma rimarrà del tutto priva di efficacia storico-politica: la storia europea, infatti, non andava, in quegli anni, verso il superamento degli Stati nazionali, ma verso un loro deciso rafforzamento, in parte proprio a causa delle idee democratiche convulsamente affermatesi durante la Rivoluzione francese. Gli Stati nazionali europei erano grandi potenze, divise da una lunga storia di conflitti (politici e religiosi) e caratterizzati da società con forti diseguaglianze giuridiche e socio-economiche.

Un insieme di circostanze, insomma, fece sì che il federalismo nascesse negli Stati Uniti come Atena dalla testa di Giove, già armato di tutto punto: esso era un’articolata teoria politico-istituzionale sorta per risolvere un problema determinato, come unire le tredici ex colonie inglesi senza sacrificare la loro indipendenza. In Europa, invece, il federalismo rimase sino a tutto l’Ottocento una teoria filosofica o sociale in senso lato, volta a risolvere il problema generale della guerra, priva di elaborazione giuridico-istituzionale e di qualsiasi presa sulle vicende reali della politica. Bisognerà aspettare il dramma delle due guerre mondiali (e, in particolare, della seconda), perché nel vecchio continente il federalismo assuma il profilo concreto, ancorché minoritario, di un movimento politico, al quale gli italiani (da Luigi Einaudi ad Altiero Spinelli) daranno un contributo teorico di grande rilievo e che a partire dal 1945 sarà il “lievito” del difficile e lento processo di unificazione europea.

Le differenti circostanze storiche, insieme alle diverse sensibilità culturali (empiristico-pragmatica quella anglo-americana, razionalistico-teorica quella europea), hanno fatto sì che negli Stati Uniti il federalismo rimanesse essenzialmente una teoria dello Stato (certamente ispirata ad alcuni presupposti etico-politici, di tipo democratico, ma confinata nella sfera istituzionale), mentre in Europa ambisse al rango di concezione politica generale, fondata sul valore della pace, e mirante non solo a risolvere il problema della guerra, ma anche a porre le premesse per la soluzione di problemi sociali ed economici. L’obiettivo storico immediato del federalismo sviluppatosi nel vecchio continente era comunque il superamento degli Stati nazionali, ragion per cui esso è stato sinonimo – dai primi anni Quaranta sino alla fine degli anni Settanta – di europeismo. È soltanto a partire dagli anni Ottanta che il federalismo verrà declinato, in Europa, non soltanto nella direzione sovranazionale, ma anche in quella infranazionale, cioè all’interno dei singoli Stati, come rivendicazione di forti autonomie locali.

Il modello americano

Le colonie inglesi dell’America del Nord divennero, nel 1776, tredici repubbliche indipendenti e si costituirono in un’organizzazione internazionale regolata dagli Articles of confederation, che non limitavano in alcun modo l’indipendenza e la sovranità dei singoli Stati. Ma la struttura confederale rivelò ben presto gravi limiti, tra i quali spiccava la debolezza del governo centrale (che poi era, in sostanza, un Comitato degli Stati). Per rimediare a tali gravi difetti fu convocata la Convenzione di Filadelfia, la quale però andò al di là del suo mandato e varò, nel 1787, una nuova Costituzione, in base alla quale gli Stati Uniti si trasformavano in uno Stato federale. Questa soluzione inedita nacque da un compromesso tra coloro i quali volevano mantenere l’assetto confederale – e quindi la piena sovranità dei singoli Stati – e coloro i quali volevano fondere le tredici repubbliche in un unico Stato. Entrambi gli schieramenti erano “prigionieri”, per così dire, del modello dello Stato unitario e da questo punto di vista la soluzione federale fu, come è stato giustamente osservato, un «compromesso creativo» (v. Levi, 1994, p. 33). La sua novità consisteva nell’introdurre – accanto alla divisione funzionale tra potere legislativo, esecutivo e giudiziario – una divisione territoriale tra il potere del governo centrale e quello dei singoli Stati. Tale divisione, di tipo “orizzontale” e quindi configurante una sorta di “co-sovranità”, aveva lo scopo di mantenere stabilmente l’Unione (dando la necessaria forza al governo centrale) e, al tempo stesso, di assicurare a ogni Stato membro un’ampia sfera di indipendenza.

Al governo centrale spettavano competenze esclusive in materia di politica estera, difesa e moneta; alcune competenze erano comuni (come quelle giudiziarie, fiscali e di bilancio, ma sempre in ambiti chiaramente distinti) e infine tutto il resto spettava ai governi dei singoli Stati. Un ruolo di decisiva importanza era stato conferito al potere giudiziario, chiamato a decidere sui conflitti di attribuzione tra governo federale e governi degli Stati: in tal modo si evitava che tali conflitti fossero risolti dalle parti in causa, cioè dal potere centrale (come accade negli Stati unitari) o da quelli locali (come avviene nelle confederazioni). La magistratura si configurava pertanto come una sorta di potere intermedio tra governo federale e singoli Stati, assumendo un rilievo sconosciuto al costituzionalismo sei-settecentesco. L’equilibrio costituzionale federale si rifletteva anche nella composizione del legislativo, nel quale un ramo (il Congresso) rappresentava il popolo della federazione in misura proporzionale al numero degli elettori e l’altro ramo (il Senato) rappresentava i popoli dei singoli Stati in modo eguale, indipendentemente dalla popolazione: così le leggi dovevano ottenere la maggioranza non solo di tutto il popolo dello Stato federale, ma anche dei popoli dei singoli Stati. Questa complessa articolazione dei poteri faceva sì che nello Stato federale la stessa maggioranza non potesse mai controllare contemporaneamente il governo centrale e i governi degli Stati e ciò rendeva il popolo, come scrisse Hamilton, «padrone del proprio destino».

La nascita dello Stato federale americano agì potentemente sulla cultura politica e sull’immaginario europei: per la prima volta veniva realizzata una repubblica in uno Stato di grandi dimensioni (cosa che tanto Montesquieu quanto Jean-Jacques Rousseau avevano giudicato impossibile) e ciò era stato reso possibile da un innovativo assetto istituzionale che permetteva di combinare i vantaggi dei piccoli Stati con quelli dei grandi. A soli quattro anni dalla sua apparizione il Federalist venne tradotto in francese: e tra il 1792 e il 1795 apparvero altre due traduzioni dell’opera di Hamilton, Jay e Madison. Il modello americano, tuttavia, non venne affatto imitato: anzi la Francia, grazie ai prefetti napoleonici, perfezionò – nei primi anni dell’Ottocento – il modello dello Stato unitario e accentrato, che non riconosceva alcuna autonomia ai poteri locali. Soltanto Benjamin Constant, nel suo grande trattato inedito sui Principi di politica (terminato nel 1806 e dove più volte aveva citato l’esempio della giovane repubblica americana), scrisse che «il governo di un grande paese dovrebbe sempre improntare gran parte della sua natura al federalismo» (v. Constant, 1806, p. 428): ma le sue tesi, circoscritte all’ambito costituzionale e ribadite nei testi pubblicati sotto la Restaurazione, erano destinate a non avere seguito.

Il federalismo nell’Europa dell’Ottocento

Il testo dal quale si è soliti datare la nascita dell’idea federale in Europa è, come abbiamo visto, Per la pace perpetua di Kant. In quest’opera il filosofo tedesco si poneva il problema di superare l’anarchia che continuava a regnare nei rapporti tra gli Stati e che, in caso di controversie incomponibili, li conduceva inevitabilmente alla guerra. La soluzione kantiana consisteva nel legare il problema della pace alla costituzione interna degli Stati: una volta che si fossero diffusi i regimi di tipo repubblicano – i regimi, cioè, basati sulla divisione dei poteri e sui principi di eguaglianza, libertà e indipendenza – la guerra sarebbe stata sempre più difficile, perché in tali regimi, a differenza di quanto avveniva negli Stati assoluti, era necessario il consenso dei cittadini per intraprendere la guerra. Gli Stati possono aspirare alla pace perpetua, concludeva Kant, soltanto dandosi una costituzione repubblicana e poi costituendosi in una federazione di popoli. Come gli individui, nell’impostazione giusnaturalistica, escono dallo stato di natura (dove la loro libertà, priva di ogni limite, conduce all’anarchia e alla violenza) tramite un patto, dal quale sorge lo Stato, così i popoli escono dallo stato di natura in cui ancora si trovano i rapporti internazionali e tramite un accordo fondano una lega della pace (foedum pacificum) il cui scopo non è porre termine a una determinata guerra, ma a tutte le guerre e per sempre.

In Kant manca del tutto la nozione di un assetto istituzionale di tipo federale. E infatti egli nega che si possa parlare di una federazione di Stati: nei suoi scritti l’idea della federazione è pensata come una delle “vie” per risolvere il problema della guerra. Per Pierre-Joseph Proudhon invece – che scrive a metà dell’Ottocento ed è uno degli esponenti del pensiero socialista – l’idea federale si contrappone all’accentramento tipico dello Stato moderno, nonché al collettivismo statalista che si fa strada in alcune correnti del socialismo. Il vizio capitale di ogni sistema politico, secondo Proudhon, sta nell’unità e indivisibilità del potere, che va superata tramite il principio federale delle autonomie locali. Proudhon, inoltre, si batte contro l’ipotesi socialista di una proprietà collettiva dei mezzi di produzione, perché è convinto che la concentrazione del potere politico ed economico nelle stesse mani conduca alla dittatura in ogni ambito della vita sociale. Egli teorizza quindi una sorta di federalismo “agricolo-industriale”, basato sulla compresenza di associazioni di liberi produttori (imprese autogestite, comuni rurali) proprietarie dei mezzi di produzione.

Quanto all’Italia, il maggiore pensatore di ispirazione federalista fu Carlo Cattaneo, il quale auspicò la nascita, in Italia, di uno Stato federale e, in Europa, di una federazione: «Avremo pace vera – scrive nelle sue Memorie sull’insurrezione del 1848 – quando avremo gli Stati Uniti d’Europa». Il suo costante riferimento è alla Svizzera e agli Stati Uniti: ma nei suoi testi si cercherebbe invano una teoria giuridico-politica del federalismo. Anche nel nostro paese il federalismo fu per tutto l’Ottocento una dottrina per pochi, per intellettuali, e non un principio d’azione politica.

La Prima guerra mondiale e le prime iniziative concrete

La Grande guerra esasperò, per un verso, i sentimenti nazionalistici, spegnendo il dibattito sulla federazione europea avviato da alcuni isolati protagonisti negli ultimi decenni dell’Ottocento (tra di essi, Charles Lemmonier, che nel 1872 lanciò una rivista intitolata “Les États Unis d’Europe” e Johann Kaspar Bluntschli, un giurista svizzero che nel 1881 propose l’unione di diciotto Stati europei); ma, per altro verso, la guerra – soprattutto quando divennero evidenti le proporzioni della catastrofe – suscitò sentimenti opposti, aprendo la strada alla speranza in un nuovo ordine internazionale, fondato sull’autodeterminazione dei popoli e sul diritto internazionale. Di qui – per impulso del presidente americano Woodrow Wilson – la nascita della Società delle Nazioni, che prese la forma di una confederazione.

Ed è proprio alla natura confederale della Società delle Nazioni che Luigi Einaudi rivolse le sue penetranti critiche, attraverso una serie di lettere scritte per il “Corriere della Sera” tra il 1917 e il 1919, firmate con lo pseudonimo di Junius e che sarebbero poi state raccolte in volume, sotto il titolo di Lettere politiche, nel 1920. Einaudi prendeva le mosse proprio dalla storia americana, ricordando come la prima Costituzione statunitense, quella confederale, avesse dato luogo a disordini, anarchia ed egoismi, mentre l’adozione di una Costituzione federale, nel 1788, avesse conferito stabilità all’Unione e creato le premesse per la sua straordinaria ascesa politica ed economica. Analogamente, l’unico modo per far sì che la Società delle Nazioni non rimanesse un vuoto nome ma trasformasse realmente il tessuto sociale e politico dell’Europa, era che gli Stati nazionali rinunciassero al «dogma della sovranità assoluta» ed entrassero nell’ordine di idee di possedere soltanto «una sovranità relativa», limitata dall’esistenza di altri Stati sovrani e dalla necessità di cooperare con essi. Einaudi sapeva che l’idea di una federazione europea avrebbe incontrato molteplici resistenze politiche e psicologiche e ipotizzò una prima fase in cui si sarebbero create federazioni “omogenee”, composte da nazioni latine, germaniche e slave. Ma al di là della possibile estensione di una federazione europea, egli aveva le idee chiare sul metodo per crearla: l’organismo economico creato dagli Alleati a Londra per sovrintendere all’acquisto delle materie prime durante la guerra doveva essere tenuto in vita e trasformato in comitato esecutivo per la ricostruzione economica dell’Europa. Occorreva poi stringere intorno all’Europa una fitta rete di trattati economici e sociali (protezione dei lavoratori immigrati, ripartizione delle materie prime per la ricostruzione, disciplina della navigazione fluviale, utilizzazione dei porti per i paesi senza sbocchi sul mare, lotta all’evasione fiscale), che avrebbe condotto al superamento del dogma della sovranità assoluta degli Stati nazionali.

Di lì a pochi anni (1923-24) si avviò, per iniziativa del conte austriaco Richard Coudenhove-Kalergi, la prima iniziativa concreta per la costituzione di un’Unione paneuropea (v. “Paneuropa”); il nobile austriaco inviò ai parlamentari francesi una lettera nella quale sosteneva che gli Stati europei dovevano unirsi in un patto federale, al fine di raggiungere una dimensione paragonabile a quella delle tre grandi potenze destinate a dominare la scena mondiale (Unione Sovietica, Impero britannico, Stati Uniti). L’iniziativa suscitò il consenso di molti uomini politici e grandi intellettuali. L’adesione più utile venne da Aristide Briand, a lungo ministro degli Esteri della Francia, il quale propose nel 1929 che tra gli Stati europei si stabilisse una specie di vincolo federale, anzitutto sul piano economico e poi, pur non intaccando la sovranità dei singoli Stati, sul piano politico e sociale. Una conferenza cui parteciparono i rappresentanti di 27 paesi incaricò Briand di redigere un questionario, che fu sottoposto alle capitali nel 1930. Era la prima volta che l’idea federale faceva la sua comparsa sui tavoli delle cancellerie europee: ma le risposte dei governi furono reticenti ed evasive.

Nel 1939 nasceva infine in Inghilterra la Federal union, il primo movimento europeistico ispirato agli ideali del federalismo: ad esso aderirono importanti teorici come Lionel Robbins, Philip Henry Kerr (noto come Lord Lothian) e Barbara Wootton, le cui opere – scritte in uno stile chiaro ed incisivo – mettevano in evidenza come la causa ultima dell’anarchia internazionale e della guerra non fosse di tipo economico (il capitalismo) o ideologico (il nazionalismo), ma di tipo istituzionale (l’esistenza di Stati nazionali che non riconoscevano alcuna autorità al di sopra della propria).

Il Manifesto di Ventotene e il Movimento federalista

Le idee federalistiche che videro la luce nel primo dopoguerra – e che rimasero patrimonio di alcune minoranze isolate – diedero frutto vent’anni più tardi, durante la Seconda guerra mondiale. Nel 1939 Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, due giovani antifascisti che si trovavano al confino nell’isola di Ventotene, ebbero modo di leggere le Lettere politiche di Einaudi. Incuriosito, Rossi chiese l’autorizzazione di scrivere ad Einaudi e da questi ricevette alcuni studi dei teorici inglesi del federalismo, tra i quali Lionel Robbins (il direttore della London School of Economics che, tra il 1937 e il 1939, aveva pubblicato Economic planning and international order e The economic causes of war). Da queste letture e dalle discussioni che Rossi e Spinelli ebbero con Eugenio Colorni, un giovane socialista, nacque nel 1941 il Manifesto per l’Europa libera e unita, noto come Manifesto di Ventotene, dapprima fatto circolare clandestinamente e poi pubblicato a Roma nel gennaio del 1944.

I suoi estensori intendevano segnare una svolta, nella storia del federalismo europeo, perché non si limitavano ad enunciare una teoria, ma proponevano un programma concreto, da realizzarsi tramite l’azione politica. Il distacco dalle elaborazioni ottocentesche era netto: i punti di riferimento non erano più Giuseppe Mazzini e Carlo Cattaneo, ai quali veniva riservato un rapido omaggio di maniera, ma gli scritti di Robbins e il modello della Federal Union. L’idea centrale che ispirava il Manifesto era che «la contraddizione essenziale, responsabile delle crisi, delle guerre, delle miserie e degli sfruttamenti […] è l’esistenza di Stati sovrani […] consideranti gli altri Stati come concorrenti e potenziali nemici, viventi gli uni rispetto agli altri in una situazione di perpetuo bellum omnium contra omnes» (v. Rossi e Spinelli, 1943, p. 31). Non si trattava di un’idea nuova (Einaudi e i teorici della Federal union l’avevano già espressa con chiarezza), ma il contesto in cui veniva enunciata era profondamente mutato, sia perché l’internazionalismo democratico e quello socialista avevano rivelato i loro gravi limiti, sia perché la Seconda guerra mondiale – a soli vent’anni dalla prima – le aveva fornito una drammatica evidenza. La guerra faceva sì che l’idea di una federazione europea, sino a pochi anni prima del tutto utopistica, fosse ora, secondo gli estensori del Manifesto, a portata di mano: «Il crollo della maggior parte degli Stati del continente sotto il rullo compressore tedesco – essi affermavano – ha già accomunato la sorte dei popoli europei, che o tutti insieme soggiaceranno al dominio hitleriano, o tutti insieme entreranno, con la caduta di questo, in una crisi rivoluzionaria in cui non si troveranno irrigiditi e distinti in solide strutture statali. Gli spiriti sono già ora molto meglio disposti che in passato ad una riorganizzazione federale dell’Europa. La dura esperienza degli ultimi decenni ha aperto gli occhi anche a chi non voleva vedere, ed ha fatto maturare molte circostanze favorevoli al nostro ideale» (v. Rossi e Spinelli, 1943, p. 48).

I federalisti ritenevano superato l’internazionalismo d’ispirazione liberal-democratica o socialista, che legava il superamento del problema della guerra all’affermazione, all’interno dei singoli Stati, dei rispettivi ordinamenti politico-sociali; di conseguenza, essi non accettavano la tradizionale divisione politica tra destra (conservatrice/liberale) e sinistra (riformatrice/socialista) e miravano a sostituirla con la divisione tra restauratori dei vecchi Stati nazionali e fautori delle nuove istituzioni federali, ritenendo che soltanto la soluzione federale avrebbe permesso di sanare la contraddizione di fondo che aveva segnato il mondo moderno, quella tra una sempre più estesa interdipendenza tra le varie regioni del mondo e la permanenza di istituzioni politiche di tipo nazionale.

A questa riflessione di fondo si accompagnava una riflessione sulla strategia politica da perseguire, sviluppata soprattutto da Spinelli. Il problema che i federalisti si sarebbero trovati di fronte era che i governi sarebbero stati i protagonisti di qualsiasi tentativo di unificazione europea e, al tempo stesso, gli ostacoli principali sul suo cammino, giacché qualsiasi potere dato ad istituzioni europee sarebbe stato sottratto a quelle nazionali. Di qui la necessità di due scelte ben precise: la prima era costituire una forza federalista autonoma dai governi e dai partiti nazionali, che doveva includere tutti coloro i quali si riconoscevano negli ideali federalisti, avere una struttura sovranazionale e instaurare un rapporto diretto con l’opinione pubblica (pur senza partecipare alle elezioni nazionali). La seconda era che il processo di costruzione di un’Europa federale doveva avvenire per via democratica, cioè attraverso un’assemblea costituente eletta direttamente dai cittadini europei.

Il Movimento federalista europeo – nato nell’agosto del 1943 a Milano (v. anche Rollier, Mario Alberto) e dal quale nel dopoguerra sarebbe nata l’Unione europea dei federalisti (che riuniva tutti i gruppi federalisti formatisi nei vari paesi europei) – voleva essere ciò che noi oggi definiremmo un movimento “trasversale”. Senza identificarsi in alcun partito (e superando, come abbiamo visto, la tradizionale dicotomia destra/sinistra) voleva penetrare in ciascuno di essi al fine di fare del problema del superamento degli Stati nazionali l’angolo visuale dal quale guardare ai problemi politici, economici e sociali. Gli obiettivi concreti cui miravano i federalisti erano la creazione di un esercito unico, l’unità monetaria, l’abolizione delle barriere doganali e degli ostacoli ai movimenti delle persone, la rappresentanza diretta dei cittadini nei consessi federali, una politica estera unica; per tutto il resto, ogni Stato doveva conservare un’ampia autonomia.

Uno dei primi ad aderire al Movimento federalista fu Einaudi, il quale, dopo un incontro in Svizzera con Rossi e Spinelli, accettò di scrivere un saggio sui Problemi economici della federazione europea. In questo testo, Einaudi riprese e sviluppò le tesi esposte nel primo dopoguerra: la sovranità assoluta degli Stati nazionali, spingendo ciascuno di essi a perseguire l’autosufficienza economica, conteneva l’anacronistico principio dell’autarchia. Soltanto una federazione avrebbe creato le condizioni per quella libertà economica che Einaudi considerava presupposto indispensabile della libertà politica. A chi obiettava che un mercato sovranazionale avrebbe danneggiato l’economia dei singoli Stati, Einaudi ribatteva che la libera concorrenza e la libera circolazione delle merci avrebbe arrecato grandi vantaggi ai popoli europei. E a chi paventava la nascita di grandi potentati economici che avrebbero nuociuto alla vitalità spirituale delle culture nazionali, Einaudi rispondeva sostenendo che la creazione della federazione avrebbe abbassato considerevolmente le spese militari e liberato risorse ed energie per una più estesa partecipazione alla vita politica e culturale.

Era la ricetta di un liberale, convinto assertore dell’economia di mercato: Einaudi, come Rossi, vedeva nella libera concorrenza su scala continentale una garanzia di libertà e prosperità. Diverso era l’approccio di Colorni e Spinelli, provenienti dall’esperienza socialista e comunista e delusi dall’internazionalismo proletario, che guardavano alla federazione europea come ad una nuova via per realizzare i loro ideali antinazionalisti. Ma se la strada era stata diversa, l’approdo fu comune e questo approdo fu un federalismo che faceva tutt’uno con l’europeismo.

Il ruolo del federalismo nella costruzione europea

Inutile negare che i generosi seguaci del Movimento federalista, nonostante il loro atteggiamento anti-dottrinario, continuavano in realtà a nutrire molte illusioni. Anzitutto sulla capacità del movimento di condizionare e “guidare”, in qualche modo, i partiti tradizionali, le cui organizzazioni politiche erano ben altrimenti solide e si occupavano di problemi molto più “concreti”, legati agli interessi immediati dei cittadini. In secondo luogo, sulla capacità di influire sulla pubblica opinione: le idee federaliste, nella loro specifica e concreta articolazione, rimasero confinate ad alcune “minoranze attive” e non riuscirono mai a suscitare le passioni e le mobilitazioni o il silenzioso ma solido consenso che le vecchie ideologie erano ancora in grado di provocare. Infine, nonostante la catastrofe della guerra e una predisposizione mai esistita prima a guardare con benevolenza verso un’Europa unita (predisposizione, però, accentuata soprattutto nei paesi sconfitti o minori), la ricostruzione materiale e morale sarebbe avvenuta essenzialmente entro il quadro degli Stati nazionali, i quali non avrebbero rinunciato affatto alle loro prerogative: tra gli estremi del federalismo da un lato e del confederalismo dall’altro (l’Europa delle patrie cara a Charles de Gaulle), il metodo che in concreto ha presieduto alla lenta e difficile costruzione delle Istituzioni comunitarie è stato il Funzionalismo.

E tuttavia l’azione del federalismo europeo è stata un importante stimolo, sia perché ha tenuto sempre viva l’idea di un’Europa unita, sia perché ha ispirato alcuni passaggi decisivi dell’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), come il tentativo di creare un esercito (v. Comunità europea di difesa) e istituzioni politiche comuni (v. Comunità politica europea) (tentativo fallito, nel 1954, per responsabilità francese), l’istituzione di un Parlamento europeo eletto direttamente dai cittadini europei (le cui competenze sono rimaste tuttavia modeste) e la nascita della moneta unica (vera competenza federale, che ha sottratto il rilevante potere sulla moneta ai singoli Stati) (v. Unione economica e monetaria; Banca centrale europea; Euro). Se è vero, come ha scritto Sergio Romano (v., 2000, p. 363), che l’Europa è una potenza “zoppa” perché ha un mercato unico (v. Mercato unico europeo), una moneta unica e persino, dopo gli accordi di Schengen, un’unica frontiera, ma continua ed essere priva di un ministro degli Esteri, dell’Economia, degli Interni e della Giustizia – e il suo ministro della Difesa è l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (North Atlantic treaty organization, NATO), nella quale il ruolo americano è preponderante – va riconosciuto che la gamba sana deve molto all’impegno dei federalisti.

Paradossalmente, l’attuale successo dell’Unione europea rende più difficilmente realizzabile, nel breve periodo, l’ipotesi federalista: l’Allargamento del numero dei paesi aderenti, soprattutto dopo il crollo dei regimi comunisti dell’Est europeo, e la richiesta di adesione da parte di altri paesi (da quelli della penisola balcanica a quelli del sud est europeo, sino alla Turchia) testimonia della capacità di attrazione delle Istituzioni comunitarie, ma rende sempre più variegato il tessuto dell’Unione, accentuando le differenze economico-sociali e politico-culturali tra i diversi paesi che la compongono. In questo quadro un’Europa veramente federale – con un parlamento, un governo e una corte di giustizia comuni – rimane più un ideale regolativo, per dirla col vecchio Kant, che un progetto realizzabile a breve scadenza.

Stefano De Luca (2009)

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