Wootton, Barbara

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Il successo più significativo di Federal union e del federalismo britannico, fra il 1938 e il 1940, fu quello di aver portato il progetto federalista all’ordine del giorno del dibattito sugli obiettivi di guerra alleati. Ciò peraltro fu reso possibile soprattutto dalla conversione al Federalismo dei capi laburisti, che ritenendo la Francia più avanzata del Regno Unito sulla strada della democrazia economica, si attendevano da una federazione anglo-francese anche cospicui benefici per la classe lavoratrice britannica, schiacciata dal consolidato dominio dei conservatori.

Il sostegno socialista al progetto federalista era certamente un fatto nuovo nella storia del socialismo britannico, poiché, sino ad allora, il federalismo era generalmente avversato a sinistra come tentativo di trapiantare in Europa l’esperienza politica americana, alternativa a quella sovietica, ritenuta ancora la prima ed essenziale realizzazione storica del socialismo. La crisi della Seconda e Terza internazionale, il Patto Molotov–Ribbentrop, la minaccia alle istituzioni democratiche e alle faticose conquiste sociali, nelle due democrazie‑guida dell’Europa occidentale, portarono infine i laburisti a trovare nella relazione speciale anglo‑francese la soluzione alla crisi in cui era incappato il socialismo internazionale. Il federalismo offriva loro il quadro di riferimento giuridico e istituzionale in cui quell’unione poteva concretizzarsi e dare i frutti sperati.

Il deciso sostegno a Federal union nel corso della guerra da parte dei due più prestigiosi capi laburisti – Clement Attlee ed Ernest Bevin – e di molti giovani – come W., Ronald Gordon Mackay, Kingsley Martin, Noel Brailsford e Harold Wilson – che tanta parte avrebbero avuto nella storia del socialismo britannico del dopoguerra, fu un risultato immediato della battaglia interna a Federal union tra europeisti e atlantismi, vinta dai primi. Dopo la celebre dichiarazione di Attlee – “l’Europa deve federarsi o perirà” – anche il Primo Lord dell’ammiragliato e capo del Cooperative party, William Gallache – ala politica del movimento Cooperative customers, associato al partito laburista e con il sostegno di otto milioni di consumatori – aveva patrocinato la federazione europea quale parte integrante degli obiettivi di guerra alleati, venendo così a far cadere la preclusione dottrinale del socialismo organizzato al progetto di una federazione europea.

Il federalismo, che sino a quel momento a sinistra era considerato il frutto ibrido di un connubio tra l’illuminismo kantiano e la dottrina liberal‑liberista, veniva improvvisamente spogliato di valenze ideologiche e identificato come una forma giuridica nella quale doveva calarsi un contenuto storico: l’Europa. Le due principali democrazie europee avrebbero dovuto formare immediatamente un nucleo federale capace di attrarre nella propria orbita le altre – ormai poche – democrazie e, dopo la sconfitta militare del nazismo, anche una Germania ricondotta alla democrazia. E possiamo aggiungere che il ruolo di rilievo svolto nel dopoguerra dal movimento socialista, nella costruzione dell’unità europea, non sarebbe stato possibile senza questo cruciale passaggio laburista. (v. “Federal union news”, n. 34).

Il processo di conversione dei socialisti al federalismo costituzionale dei liberali – pur rimanendo profonde le divergenze riguardo a problemi come il rapporto tra il mercato e la libertà, tra il mercato e l’efficienza produttiva, tra il meccanismo dei prezzi e i bisogni dei consumatori – fu completato tuttavia solo con W. (Cambridge 1897-Londra 1988), docente di Studi sociali all’Università di Londra (1927-1944) e vicepresidente della Camera dei Lord (1967-1988). Erede della tradizione del fabianesimo, che già negli anni Venti aveva individuato nella pianificazione lo strumento adatto a impedire la sovrapproduzione e le crisi cicliche del capitalismo, W. dimostra di aver assimilato gli insegnamenti di Lord Lothian (Philip Kerr) e di Lionel Robbins nel saggio Socialism and federation della primavera del 1940. W. vi osservava che l’idea per cui si dovesse raggiungere anzitutto il socialismo e che tutto quanto concerneva i rapporti internazionali si sarebbe risolto da sé, fosse un’idea che ignorava le lezioni dell’esperienza. In tal modo si sarebbero certamente conseguiti alcuni obiettivi inclusi «nell’elenco delle esigenze essenziali del socialismo», ma si sarebbero «rimandati indefinitamente» i piani per l’uguaglianza, e per il benessere quotidiano dell’uomo comune. Si sarebbe tenuto in sospeso, o abbandonato, ogni progresso «perché non abbiamo pensato abbastanza al problema dell’ordine internazionale e in ispecie dell’ordine europeo». Il movimento socialista aveva tentato, fino a quel momento, di eludere quel problema, sia con il pacifismo, sostenendo la solidarietà internazionale fra gli appartenenti alla classe lavoratrice e la loro determinazione a non combattere né armarsi gli uni contro gli altri; sia con un completo voltafaccia verso i fronti popolari, verso il sostegno ai programmi di sicurezza nazionale o collettiva, e infine, nel caso dei socialisti diventati maggioranza, «verso la partecipazione di tutto cuore alla guerra». Esso si era così guadagnato «l’amaro rimprovero che è colpa dei socialisti se, quando dobbiamo combattere, combattiamo sempre male equipaggiati e impreparati» (v. Wotton, 19409).

Entrando nel merito delle cause della guerra, W. rilevava che la teoria delle cause esclusivamente economiche della guerra era infondata. La guerra volta alla conquista di nuovi mercati o alla conservazione di quelli consolidati appariva come «un’impresa votata all’insuccesso», dal momento che la guerra moderna poteva conseguire tante cose, ma non poteva «mai regalare o mantenere dei mercati, nemmeno a chi resta vincitore». L’esperienza della grande guerra stava appunto a testimoniare la perdita, da parte della Gran Bretagna, dei mercati americani e dei paesi neutrali a vantaggio degli Stati Uniti, e la perdita di ricchezza e di potere politico proprio da parte di coloro che si ritenevano gli artefici della guerra, vale a dire i capitalisti. Lo zelo con cui molti capitalisti avevano sostenuto l’appeasement, vale a dire la «politica di conciliazione e di pace ad ogni costo», stava a indicare che essi s’erano resi conto che il loro vantaggio non stava «dalla parte della guerra». La guerra era, sotto il profilo economico, «l’immancabile rovina […] così dei ricchi come dei poveri». La guerra era, in realtà, «un mostro che si nutre di se stesso». La contraddizione era che si doveva «avere l’impero per proteggerci contro il rischio della guerra; e […] far la guerra per proteggere il nostro impero». Per spezzare il «circolo vizioso della guerra», non bastava indagare sulle sue cause o su quelle dei conflitti di classe. Si doveva piuttosto «creare un’autorità supernazionale con il potere e il dovere di mantenere l’ordine internazionale, dal quale dipendeva anche il progresso sociale» (ivi, pp. 235-37).

Lo Stato nazionale s’era ormai rivelato in Europa un anacronismo storico, poiché come unità politica non era più in grado di garantire e di controllare lo sviluppo delle forze produttive, che, inevitabilmente, tendevano a superare i confini geografici dello Stato, senza trovare, però, un’autorità internazionale capace di regolarne lo sviluppo, orientandolo a finalità positive. Era la federazione europea l’unità politica adeguata alla pianificazione della vita economica, senza la quale non erano raggiungibili né l’uguaglianza né la prosperità. Dava inoltre la possibilità al sindacalismo, “grande alleato del socialismo internazionale”, di organizzarsi al solo livello politico che consentisse un reale controllo del processo di produzione, dello scambio e del consumo. Mentre negli Stati Uniti il movimento sindacale s’era costituito in potenti associazioni “nazionali”, ma su scala continentale, date le dimensioni del paese, in Europa aveva subito la stessa sconfitta delle Internazionali socialiste. Anche il sindacalismo crollò nel 1914, «sotto la pressione del patriottismo […] e crollò di nuovo negli anni tempestosi che precedettero la presente guerra». Perfino durante gli intervalli di relativa pace la sua attività si era «limitata a consultazioni e conferenze (sempre senza la possibilità di azione) e a un’assistenza finanziaria reciproca di carattere saltuario e di portata modesta». Queste «conferenze erano incontri tra stranieri, non fra concittadini» (ivi, pp. 239-40).

Il problema pratico era quello di decidere, al termine della guerra, quel che si dovesse fare dell’impero nazista, che seppur «con la conquista e sotto la tirannide» aveva unificato la maggior parte dell’Europa continentale. Si poteva frantumarlo e restaurare i vecchi Stati nazionali, dimenticando che la causa dell’anarchia internazionale, e quindi della guerra, stava proprio nella loro sovranità illimitata, ma, si chiedeva W., «è immaginabile che un socialista voglia veramente seguire questa via?». Ciò significava erigere diversi sistemi doganali, sistemi di leggi, monete, «per escludere i lavoratori di uno Stato dal territorio gelosamente riservato ai loro compagni di un altro Stato»; significava «riaprire la porta a tutte le vecchie dispute fra cosiddetti paesi ricchi e paesi poveri e al vergognoso sistema per cui i popoli coloniali sfruttati passano dall’una all’altra mano come la posta della ignominiosa partita della politica di potenza in Europa». Un movimento fondato «con l’esortazione ai lavoratori del mondo di unirsi» e che condannava «la tutela politica e l’asservimento economico degli uomini di colore» non poteva sostenere «un programma così basso ed egoista». Non si doveva dunque mirare alla disintegrazione, ma alla «trasformazione dell’esecrato impero nazista» in una federazione democratica. Si trattava di una questione politica, non di un’opportunità economica, che in ogni caso non doveva tenere «alcun conto delle frontiere politiche». La storia degli ultimi dieci anni bastava «a far cadere l’idea troppo semplice che l’economia sia sempre la padrona e non mai la serva della politica». E concludeva: «l’unità europea non è nata e non si manterrà solo perché presenta dei vantaggi economici; essa durerà nel periodo, e solo nel periodo, in cui ci sarà un governo politico stabilito che sia in condizione di esprimere il bisogno di quell’unità e di sostenerla con la forza della legge» (ivi, pp. 240-42).

In Socialism and federation W. cercò anche di mostrare come il socialismo e il federalismo non fossero alternativi, ma «parti complementari dello stesso intero». La natura e le potenzialità della federazione dipendevano dalla volontà dei cittadini, espressa attraverso il sistema democratico. La federazione era in se stessa, come la pianificazione e la collettivizzazione, «uno strumento neutrale», era compito dei socialisti «orientare le sue grandi potenzialità» verso le proprie finalità. Il boicottaggio dei movimenti federalisti appariva come «rifiutarsi di salire su un autobus» perché gli autobus potevano essere usati «per trasportare la gente a riunioni anti‑socialiste». La libertà civile e politica, le esigenze sociali ed economiche, la creazione di un’autorità sovrannazionale erano tre elementi ugualmente essenziali alla costruzione di una comunità mondiale, nella quale soltanto l’internazionalismo socialista, così a lungo dolorosamente frustrato, poteva conseguire i suoi obiettivi e liberare tutte le sue potenzialità. La vera alternativa che stava di fronte a un socialista era, secondo W., da un lato, «continuare a socializzare, a pianificare e a uguagliare all’interno del proprio territorio particolare e sotto la propria bandiera particolare, lasciando i suoi compagni ancora stranieri a fare lo stesso in un identico isolamento». Poteva, inoltre, «chiudere gli occhi di fronte alla grande divergenza tra i programmi socialisti che la decadenza dell’internazionalismo ha evidenziato». Poteva, poi, «seguire la strada degli ultimi venticinque anni, nel corso dei quali i socialisti di questo continente due volte hanno rinunciato alla loro lotta di classe e ai loro programmi sociali, per imbracciare le armi contro i propri compagni». Venticinque anni in cui «il socialismo nel nostro tempo» era stato «degradato nella parodia bastarda conosciuta come nazionalsocialismo». Il socialista poteva, dall’altro, «rifiutare quello che si è dimostrato essere semplicemente il socialismo del campo di battaglia o del gabinetto di guerra». Poteva «riconoscere, con le parole di Laski, “la necessità del controllo mondiale dove la decisione riguarda il mondo”, riconoscendo che “la sovranità dello Stato è incompatibile con un giusto sistema di relazioni internazionali”» (ivi, pp. 294-98).

W. era già intervenuta sul tema nel 1939 con il saggio Economic problems of Federal Union prendendo le distanze dal progetto di Clarence Streit, che per quanto concerneva i problemi economici della federazione aveva un «sapore di laissez‑faire» che faceva «pensare al 19°, più che al 20° secolo». Circa la libertà di migrazione all’interno della federazione, W. osservava che, non esistendo le medesime condizioni di vita all’interno degli Stati federati, era prevedibile attendersi flussi migratori dalle regioni economicamente depresse verso quelle ricche, con conseguenze sociali destabilizzanti, ove non fosse intervenuta l’autorità federale. (v. Wotton, 1939, pp. 150-51).

W. criticava poi l’introduzione del libero mercato tra gli Stati federati senza misure federali volte a sostenere gli Stati più deboli. Il primo effetto di una completa abolizione di tutte le barriere al commercio sul territorio dell’unione avrebbe significato, secondo W., «sicuramente gettare milioni di persone nella disoccupazione». Il passaggio da un’economia protetta a una libera doveva essere graduale e guidato secondo un piano, avendo quale fine il benessere della federazione nel suo complesso (ivi, p. 153).

Il contenuto di questo “piano” poteva essere liberale o socialista e W. notava che l’eventuale natura liberale del governo federale non poteva ostacolare riforme di natura socialista all’interno degli Stati federati qualora fossero sostenute da maggioranze socialiste. Secondo W. la federazione era uno strumento, che contribuiva alla creazione del regno del diritto, all’interno del quale era possibile lavorare per una piena realizzazione delle idealità liberali e socialiste. Infine, secondo W., la federazione avrebbe promosso la crescita del movimento sindacale, come aveva mostrato l’esperienza degli Stati Uniti dove «è possibile dare vita a sindacati in grado di concertare azioni su vaste aree geografiche» (v. Wootton, 1940, p. 239).

Pur condividendo, in linea di principio, il progetto sostenuto dalla Federal Union di dare l’avvio alla federazione europea sulla base di quella anglo-francese, W. metteva tuttavia in guardia i lettori dall’attendersi un passaggio automatico dalla cooperazione bellica anglo‑francese a un’unione costituzionale. Non era possibile, sosteneva W., considerare la cooperazione tra la Francia e il governo britannico come una forma di effettiva federazione. Ci poteva essere qualcosa in essa che sarebbe potuta «diventare il nucleo della federazione», ma la popolazione britannica e francese non avevano «alcuna opportunità di eleggere un governo comune». In quelle circostanze, ciò che si poteva ottenere era «solo un’esperienza molto interessante di gestione coordinata di problemi tecnici». Occorreva un fattore di discontinuità, per passare da una cooperazione tra Stati sovrani a un’unione organica di popoli, che da W. veniva identificata in un vero e proprio processo costituente (v. Angell, Wotton, 1940, p. 74).

Andrea Bosco (2010)

Bibliografia

Angell N., Wootton B., International cooperation. The constitutional aspects, in National Peace Council (a cura di), What Kind of Peace?, London, 1940.

Kramnick I., Sheerman B., Harold Laski. A life on the left, Hamish Hamilton, London, 1993.

Laski H., Liberty in the modern State, Allen & Unwin, London 1930.

Wootton B., Economic problems of Federal Union, in “New Commonwealth Quarterly”, n. 5, 1939.

Wootton B., Socialism and federaton, Londra 1940, trad. it. Il fallimento internazionale del socialismo, in M. Albertini (a cura di), Il federalismo. Antologia e definizione,  il Mulino, Bologna 1978.

Wootton B., In a world i never made, Allen & Unwin, London 1967.