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Giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea

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Nell’ambito dell’evoluzione del Diritto comunitario, ha giocato e continua a giocare un ruolo di assoluta rilevanza la Corte di giustizia delle Comunità europee (CGCE) (v. Corte di giustizia dell’Unione europea). Questa, attraverso una costante interpretazione giurisprudenziale, ha enucleato vari principi in merito ai rapporti tra diritto comunitario e diritto interno degli Stati. In particolare la CGCE, attraverso la procedura del rinvio pregiudiziale ex art. 234 TCE (Trattato istitutivo della Comunità europea) (v. anche Trattato di Parigi; Trattati di Roma), garantisce l’interpretazione e l’applicazione uniformi del diritto comunitario all’interno degli ordinamenti statali attraverso una stretta cooperazione tra i due livelli: il giudice comunitario può intervenire nell’ambito dei procedimenti interni per fornire ai giudici nazionali le indicazioni cui essi devono attenersi nell’applicazione del diritto comunitario che venga in rilievo e risulti necessario per giungere alla decisione. Qui di seguito verranno indicate alcune sentenze della CGCE attraverso le quali è stata elaborata una serie di principi volti a disciplinare i rapporti tra il diritto comunitario e i diritti nazionali degli Stati membri, quali, in particolare: il principio del primato del diritto comunitario sul diritto interno, il principio dell’efficacia diretta delle norme comunitarie, il principio generale del rispetto dei diritti fondamentali e il principio della responsabilità degli Stati membri per la violazione delle norme comunitarie (v. Infrazione al diritto dell’Unione europea).

Il primato delle norme di diritto comunitario sulle norme nazionali

Sentenza 15 luglio 1964, causa C-6/64 tra NV Costa c. ENEL. Il giudice conciliatore di Milano, nell’ambito di una controversia in merito al pagamento di una bolletta dell’energia elettrica, sollevava un rinvio pregiudiziale alla CGCE, chiedendole di interpretare gli artt. 102, 93, 37 TCEE (oggi 97, 88, 31 TCE) e 53 TCE (poi abrogato), che, secondo quanto rilevato dall’avvocato Costa, erano stati violati dalla legge nazionale.

La Corte, in proposito, ha osservato che «[…] a differenza dei comuni trattati internazionali, il Trattato CEE ha istituito un proprio ordinamento giuridico degli Stati membri all’atto dell’entrata in vigore del Trattato e che i giudici nazionali sono tenuti ad osservare. Infatti, istituendo una Comunità senza limiti di durata, dotata di propri organi, di personalità, di capacità giuridica, di capacità di rappresentanza sul piano internazionale, ed in ispecie di poteri effettivi provenienti da una limitazione di competenze o da un trasferimento di attribuzioni degli Stati alla Comunità, questi hanno limitato, sia pure in campi circoscritti, i loro poteri sovrani e creato quindi un complesso di diritto vincolante per i loro cittadini e per loro stessi. […] più in generale, lo spirito e i termini del Trattato, hanno per corollario l’impossibilità degli Stati di far prevalere contro un ordinamento giuridico da essi accettato a condizione di reciprocità, un provvedimento unilaterale ulteriore, il quale pertanto non potrà essere opponibile all’ordine comune. Se l’efficacia del diritto comunitario variasse da uno Stato all’altro in funzione delle leggi interne posteriori, ciò metterebbe in pericolo l’attuazione degli scopi del Trattato contemplata nell’art. 5, secondo comma e causerebbe una discriminazione vietata dall’art. 7. […] Dal complesso dei menzionati elementi discende che, scaturito da una fonte autonoma, il diritto nato dal Trattato non potrebbe, in ragione appunto della sua natura, trovare un limite in qualsiasi provvedimento interno senza perdere il proprio carattere comunitario e senza che risultasse scosso il fondamento giuridico della stessa Comunità.

Il trasferimento, effettuato dagli Stati a favore dell’ordinamento giuridico comunitario, dei diritti e degli obblighi corrispondenti alle disposizioni del Trattato implica quindi una limitazione definitiva dei loro diritti sovrani, di fronte alla quale un atto unilaterale ulteriore, incompatibile col sistema della Comunità, sarebbe del tutto privo di efficacia».

Sentenza 9 marzo 1978, causa C-6/64 tra Amministrazione delle finanze dello Stato c. Simmenthal S.p.A. La SpA Simmenthal, costretta al pagamento dei diritti di controllo sanitario sulla carne importata dalla Francia e ritenendo che tale imposizione costituisse un ostacolo alla Libera circolazione delle merci, violando il diritto comunitario, adiva il giudice competente (il pretore di Susa). Quest’ultimo, ritenendo che i controlli alla frontiera si configurassero come misure ad effetto equivalente a restrizioni quantitative e gli oneri imposti per ragioni di controllo sanitario quali tasse a effetto equivalente a dazi doganali, ingiungeva all’amministrazione delle finanze dello Stato il rimborso dei diritti indebitamente riscossi. L’amministrazione faceva opposizione al decreto ingiuntivo. Il giudice, allora, adiva la CGCE sottoponendole due questioni pregiudiziali: se disposizioni nazionali successive e contrastanti con norme comunitarie dovessero essere immediatamente disapplicate; se il giudice nazionale dovesse attendere l’abrogazione delle norme in contrasto da parte del legislatore nazionale o la dichiarazione di incostituzionalità da parte di altri organi costituzionali. Al riguardo la CGCE ha osservato che le norme di diritto comunitario devono espletare la pienezza dei loro effetti, in maniera uniforme in tutti gli Stati membri, a partire dalla loro entrata in vigore e per tutta la durata della loro validità; esse sono, quindi, fonte immediata di diritti e di obblighi per tutti coloro ch’esse riguardano, siano Stati membri ovvero i singoli soggetti a rapporti giuridici disciplinati dal diritto comunitario. Questo effetto riguarda anche tutti i giudici che, aditi nell’ambito delle loro competenze, hanno il compito, in quanto organi di uno Stato membro, di tutelare i diritti attribuiti ai singoli dal diritto comunitario.

La CGCE ha precisato che «[…] in forza del principio di preminenza del diritto comunitario, le disposizioni del Trattato e gli atti delle istituzioni, qualora siano direttamente applicabili, hanno l’effetto, nei loro rapporti con il diritto interno degli Stati membri, non solo di rendere ipso jure inapplicabile, per il fatto stesso della loro entrata in vigore, qualsiasi disposizione contrastante con la legislazione nazionale preesistente, ma anche – in quanto dette disposizioni e detti atti fanno parte integrante, con rango superiore rispetto alle norme interne, dell’ordinamento giuridico vigente nel territorio dei singoli Stati membri – di impedire la valida formazione di nuovi atti legislativi nazionali, nella misura in cui questi fossero incompatibili con norme comunitarie».

Pertanto, il giudice nazionale, incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le disposizioni di diritto comunitario, ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore senza chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante altro procedimento costituzionale.

La diretta efficacia delle norme del trattato istitutivo della Comunità europea (TCE)

Sentenza 5 febbraio 1962, causa 26/62 tra NV Algemene Transport – en Expeditie Onder – neming Van Gend en Loos c. amministrazione olandese delle imposte. La società olandese Van Gend en Loos propose reclamo avverso il provvedimento dell’amministrazione doganale olandese in virtù del quale fu costretta a pagare un diritto di importazione dell’8% ad valorem su merci importate dalla Repubblica Federale Tedesca. Ritenendo tale imposizione contraria all’art. 12 TCEE (ora 25 TCE), che vietava agli Stati membri di alzare i dazi doganali oltre il livello esistente il 1° gennaio 1958 – data di entrata in vigore del Trattato CEE (v. Comunità economica europea) – la società adiva le vie legali avverso il predetto provvedimento. Il giudice tributario (Tariefcommissie) di Amsterdam chiese alla CGCE, ai sensi dell’art. 177 TCEE (ora 234 TCE), di verificare la possibile efficacia diretta dall’art. 12 TCEE negli ordinamenti giuridici nazionali. La CGCE, riconoscendo l’effetto diretto della disposizione in questione, ha osservato che lo scopo del Trattato CEE, cioè l’instaurazione di un mercato comune il cui funzionamento incide direttamente sui soggetti della Comunità, implica che esso va al di là di un accordo che si limita a creare degli obblighi reciprochi fra gli Stati contraenti. Già nel preambolo del Trattato, oltre a menzionare i governi, si fa richiamo ai popoli e, più concretamente ancora, all’instaurazione di organi investiti istituzionalmente di poteri sovrani da esercitarsi nei confronti sia degli Stati sia dei loro cittadini.

La stessa funzione attribuita alla Corte dall’art. 234 TCE di garantire l’uniforme interpretazione del Trattato da parte dei giudici nazionali costituisce la riprova del fatto che gli Stati hanno riconosciuto al diritto comunitario un’autorità tale da poter esser fatto valere dai loro cittadini davanti a detti giudici. In considerazione di tutte queste circostanze si deve concludere che la Comunità costituisce un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, a favore del quale gli Stati hanno rinunziato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani, ordinamento che riconosce come soggetti, non soltanto gli Stati, ma anche i loro cittadini.

Pertanto, la CGCE conclude precisando che «il diritto comunitario, indipendentemente dalle norme emananti dagli Stati membri, nel momento stesso in cui impone ai singoli degli obblighi, attribuisce loro dei diritti soggettivi. Si deve ritenere che questi sussistano, non soltanto nei casi in cui il Trattato espressamente li menziona, ma anche come contropartita di precisi obblighi imposti dal Trattato ai singoli, agli Stati membri o alle singole istituzioni comunitarie».

Questa celebre sentenza sulla diretta efficacia di alcune disposizioni del Trattato è stata seguita da numerose altre pronunce della CGCE che di volta in volta ha individuato altre disposizioni aventi efficacia diretta. In particolare, nella sentenza C-2/74, causa Reyners c. Stato belga del 21 giugno 1974, la CGCE ha stabilito che l’art. 52 TCEE (ora 43 TCE) sancendo alla fine del periodo transitorio la piena libertà di stabilimento e prescrivendo un obbligo di risultato preciso, è una norma direttamente efficace; nella sentenza C-33/74, causa Van Binsbergen c. Van de Bedrijfsvereniging voor de Metaalnijverheid del 3 dicembre 1974, la CGCE ha stabilito che gli artt. 59, par. 1 e 60, par. 3 TCEE (ora 49 e 50 TCE), nella parte in cui stabiliscono la soppressione delle discriminazioni che colpiscono il prestatore di servizi a causa della sua nazionalità o della sua residenza, hanno efficacia diretta e possono essere fatti valere davanti al giudice nazionale; nella sentenza C-41/74, causa Van Duyn c. Home Office del 4 dicembre 1974 la CGCE ha stabilito che la riserva sancita dall’art. 43, 3 TCEE (limitazione della libera circolazione dei lavoratori per motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica, ora 39, 3 TCE), non osta a che le norme dello stesso attribuiscano in capo ai singoli diritti soggettivi da far valere in giudizio; nella sentenza C-43/75, causa Defrenne c. Sabena dell’8 aprile 1976, la CGCE ha stabilito che il principio della parità di retribuzione fra lavoratori di sesso maschile e femminile stabilito dall’art. 19 TCEE (ora 141 TCE) fa parte dei principi fondamentali della Comunità e pertanto può essere fatto valere dinanzi ai giudici nazionali.

La diretta efficacia delle norme contenute nelle direttive

Sentenza 22 giugno 1989, causa C 103/88, Fratelli Costanzo S.p.A. c. Comune di Milano. Esclusa da una gara di appalto sulla base di una norma nazionale di adattamento della direttiva n. 71/305, la SpA Fratelli Costanzo presentava ricorso avverso una delibera municipale dinanzi al TAR della Lombardia. Il giudice adito sottopose alla CGCE le seguenti questioni: se il singolo poteva invocare davanti al giudice nazionale una normativa comunitaria, se la normativa nazionale fosse in contrasto con quella comunitaria; se, in caso affermativo, anche un’amministrazione pubblica municipale, al pari del giudice nazionale, fosse tenuta ad applicare la norma comunitaria, disapplicando quella nazionale in contrasto con la stessa.

La CGCE ha osservato, preliminarmente, che in tutti i casi in cui alcune disposizioni di una direttiva appaiano, dal punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise, i singoli possono farle valere dinanzi ai giudici nazionali nei confronti dello Stato, sia che questo abbia recepito tempestivamente la direttiva nel diritto nazionale sia che l’abbia recepita in modo inadeguato.

Successivamente, la CGCE ha precisato che «qualora sussistano i presupposti necessari affinché le disposizioni di una direttiva siano invocabili dai singoli dinanzi ai giudici nazionali, tutti gli organi dell’amministrazione, compresi quelli degli enti territoriali, come i Comuni, siano tenuti ad applicare le suddette disposizioni» e a disapplicare la norma nazionale eventualmente in contrasto.

Sulla diretta efficacia delle direttive la CGCE è intervenuta numerose volte. A titolo esemplificativo si veda al riguardo la sentenza del 5 aprile 1979, C-148/78, procedimento penale a carico di Tullio Ratti, nella quale affermava esplicitamente che se «è vero che i regolamenti in forza dell’art. 189 TCEE (ora 249 TCE), sono direttamente applicabili e quindi atti, per natura, a produrre effetti diretti, da ciò non si può inferire che le altre categorie di atti contemplati dal suddetto articolo non possono mai produrre effetti analoghi, sarebbe incompatibile con l’efficacia vincolante che l’art. 189 riconosce alla direttiva l’escludere, in linea di principio, che l’obbligo da esse imposto possa essere fatto valere dalle persone interessate; particolarmente nei casi in cui le autorità comunitarie abbiano, mediante direttiva, imposto agli Stati membri di adottare un determinato comportamento, l’effetto utile dell’atto sarebbe attenuato se agli amministrati fosse precluso di valersene in giudizio ed ai giudici nazionali di prenderlo in considerazione in quanto elemento del diritto comunitario; di conseguenza lo Stato membro che non abbia adottato, entro i termini, i provvedimenti d’attuazione imposti dalla direttiva, non può opporre ai singoli l’inadempimento, da parte sua, degli obblighi derivanti dalla stessa».

Principi generali di diritto: il rispetto dei diritti fondamentali

Sentenza del 12 novembre 1969, causa 29/69 tra Erich Stauder c. Città di Ulm – Solzialamt. La decisione della Commissione europea n. 69/71, al fine di favorire nel mercato comune lo smercio delle eccedenze di burro, autorizzava tutti gli Stati membri a porre a disposizione di alcune categorie di consumatori, beneficiari di determinate forme di assistenza sociale, del burro a prezzo inferiore al normale. L’art. 4 di tale decisione, per evitare che il prodotto immesso sul mercato fosse sviato dalla sua destinazione, subordinava la fornitura di burro a prezzo ridotto alla presentazione di un “buono individualizzato”, risultando però, nella versione tedesca della normativa comunitaria, che dovesse trattarsi di un “buono indicante il nome” del beneficiario, non essendo quindi possibile (diversamente da quanto accadeva in altri Stati sulla base delle diverse versioni linguistiche della decisione) di avvalersi di mezzi di controllo diversi dalla designazione normativa del beneficiario. Il signor Stauder, titolare del diritto in parola in quanto invalido di guerra, ritenendosi pregiudicato dal fatto di poter usufruire di burro a prezzo ridotto solo dichiarando il proprio nome al venditore, citava in giudizio, dinanzi al tribunale amministrativo di Stoccarda (Verwaltungsgerucht), la città di Ulm, chiedendo un provvedimento provvisorio di abolizione di detto obbligo. Al fine di determinare l’esatta portata della disposizione controversa e di verificare la compatibilità con i principi generali del diritto comunitario, il giudice adito interrogava in via pregiudiziale la CGCE. Quest’ultima, affermando per la prima volta che l’ordinamento comunitario assicura la tutela dei diritti fondamentali della persona, ha, in particolare, osservato che quando una decisione unica è destinata a tutti gli Stati membri, l’esigenza che essa sia applicata e quindi interpretata in modo uniforme esclude la possibilità di considerare isolatamente una delle versioni, e rende al contrario necessaria l’interpretazione basata sulla reale volontà del legislatore e sullo scopo da questo perseguito, alla luce di tutte le versioni linguistiche. Pertanto, la disposizione di cui è causa deve essere interpretata nel senso che essa non impone – senza tuttavia vietarla – l’identificazione normativa del beneficiario.

La CGCE ha, poi, precisato che «ciascuno degli Stati membri può pertanto scegliere fra vari metodi di individualizzazione. Così interpretata, la disposizione di cui è causa non rileva alcun elemento che possa pregiudicare i diritti fondamentali della persona, che fanno parte dei principi generali del diritto comunitario, di cui la Corte garantisce l’osservanza».

Successivamente, la CGCE è intervenuta numerose volte, precisando che i diritti fondamentali, quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e dalla Convenzione europea dei Diritti dell’uomo (CEDU), fanno parte dei principi giuridici generali di cui essa garantisce l’osservanza. A titolo esemplificativo si veda al riguardo: la sentenza del 28 ottobre 1975, causa 36/75, Rutili, in cui la Corte si riferiva espressamente agli artt. 8, 9, 10 e 11 della CEDU e all’art. 2 del protocollo n. 4 della stessa CEDU, affermando su tale base che le restrizioni apportate in materia di polizia relativa agli stranieri per esigenze di ordine pubblico e di sicurezza pubblica «non possono andare oltre ciò che è necessario per il soddisfacimento di tali esigenze in una società democratica»; la sentenza del 12 giugno 2003, causa C-112/00, Eugen Schmidberger, Internazionale Transporte und Planzüge c. Repubblica d’Austria, ove la Corte ha precisato che «la tutela dei diritti fondamentali (nella specie appunto la libertà di riunione e d’espressione garantita dagli artt. 10 e 11 CEDU) rappresenta un legittimo interesse che giustifica, in linea di principio, una limitazione degli obblighi imposti dal diritto comunitario, ancorché derivanti da una libertà fondamentale garantita dal Trattato, quale la libera circolazione delle merci»; la sentenza del 14 ottobre 2004, causa C-36/2002, Omega, con la quale la Corte ha affermato che la dignità umana non è solo uno dei valori fondamentali della Costituzione tedesca, ma è parte dei valori tutelati dall’ordinamento comunitario e pertanto prevalente sulle esigenze delle libertà economiche previste dal Trattato.

Principio della responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto comunitario

Sentenza del 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90, A. Francovich e a. c. Italia. Il signor Francovich aveva lavorato come dipendente a Vicenza per l’impresa CDN Elettronica Snc. Quest’ultima, però, gli aveva versato come retribuzione solo acconti sporadici. Egli proponeva, quindi, ricorso dinanzi al giudice competente che condannava l’impresa convenuta al pagamento di una somma di circa 6 milioni di lire. Nel caso in esame veniva in rilievo la direttiva n. 80/987 diretta a garantire ai lavoratori dipendenti un minimo comunitario di tutela in caso di insolvenza del datore di lavoro e, in particolare, imponeva agli Stati membri di istituire un meccanismo di garanzia per i crediti retributivi maturati. Nel caso di specie, l’Italia non aveva ancora attuato la norma entro il termine previsto, e quindi il signor Francovich aveva deciso di far valere il diritto di ottenere dallo Stato italiano gli importi spettanti a titolo di retribuzioni arretrate, poiché quest’ultimo non aveva attuato la norma comunitaria entro il termine previsto, o comunque il diritto di vedersi riconosciuto un indennizzo. Il giudice adito si rivolgeva allora, in via pregiudiziale, alla CGCE chiedendo se, di fronte all’inadempimento dello Stato, i singoli potessero far valere direttamente i benefici della direttiva, nonché e comunque pretendere dallo Stato membro il risarcimento del danno subito. Sul punto, la Corte ha osservato che «il principio della responsabilità dello Stato per i danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario ad esso imputabili è inerente al sistema del Trattato. L’obbligo degli Stati membri di risarcire tali danni trova il suo fondamento anche nell’art. 5 del Trattato, in forza del quale gli Stati membri sono tenuti ad adottare tutte le misure di carattere generale o particolare atte ad assicurare l’esecuzione degli obblighi ad essi derivanti dal diritto comunitario».

Il principio sopra enunciato trova applicazione anche nell’ipotesi in cui la violazione del diritto comunitario derivi dalla decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado. Degna di nota al riguardo è la sentenza Köbler (causa C- 224/01, sentenza 30 settembre 2003) ove la CGCE ha precisato che la tutela dei diritti derivanti dal diritto comunitario «sarebbe affievolita se fosse escluso che i singoli possano, a talune condizioni, ottenere un risarcimento allorché i loro diritti sono lesi da una violazione del diritto comunitario imputabile a una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado di uno Stato membro». La Corte ha quindi negato che siffatta forma di responsabilità possa trovare degli insormontabili ostacoli di principio nell’intangibilità del giudicato e nell’indipendenza del potere giudiziario.

Monica Mattone (2008)

Bibliografia

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