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Trattato di Parigi

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Con il Trattato di Parigi, firmato il 18 aprile del 1951 dai sei Stati fondatori dell’attuale Unione europea (UE) – Belgio, Francia, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi e Repubblica Federale Tedesca (RFT) (v. Germania) – veniva istituita la prima delle Comunità europee, la Comunità del carbone e dell’acciaio (CECA). Entrato in vigore il 23 luglio del 1952, con una durata di cinquanta anni, il Trattato è scaduto il 23 luglio 2002.

Come stabilito dall’art. 2, esso era finalizzato alla realizzazione di un mercato comune dei prodotti carbosiderurgici, cioè dei due fattori essenziali per lo sviluppo dell’economia di quegli anni, nonché all’incremento delle potenzialità occupazionali e al miglioramento degli standard di vita nei paesi aderenti. Di fatto, l’accordo sottoscritto nella capitale francese suggellava l’avvio del processo di integrazione continentale (cui la creazione del Consiglio d’Europa non sembrava fornire adeguato impulso e fondamento), consacrando altresì la definitiva riconciliazione franco-tedesca, dopo secoli di aperta rivalità (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).

Sul piano istituzionale, il testo dava vita a una entità inedita, dotata di personalità giuridica (v. Personalità giuridica dell’Unione europea) (art. 6) e concepita secondo il modello settoriale (o verticale), a carattere sovranazionale, ideato da Jean Monnet. Nella prospettiva dei suoi promotori più impegnati, la nascente Comunità avrebbe dovuto costituire tanto l’embrione di una Comunità economica europea, poi concretizzatasi nei Trattati di Roma del 1957, quanto della federazione europea di là da venire (v. anche Federalismo).

La firma dell’accordo, di portata innegabilmente epocale, sia nel breve sia nel lungo periodo, costituì il momento conclusivo di una faticosa tornata negoziale, avviata il 20 giugno del 1950, all’indomani della celebre Dichiarazione Schuman (v. Piano Schuman) (9 maggio), e segnata da aspri scontri tra i delegati dei sei governi aderenti.

Costoro apparivano sicuramente determinati a riscrivere i reciproci rapporti entro una nuova cornice di collaborazione e solidarietà. E questo non solo per tener fede agli impegni presi con Washington al momento dell’Adesione al Piano Marshall, ma soprattutto per accelerare i tempi della ricostruzione economica e per conferire maggior peso all’Europa nel contesto bipolare. Ciononostante, buona parte degli Stati fondatori manteneva più di qualche reticenza verso i contenuti sovranazionali della proposta del Quai d’Orsay, in particolare per quel che riguardava i poteri da conferire all’Alta autorità, fulcro e motore del modello comunitario monnetiano.

In verità, Parigi e anche Bonn, principali interessate al pool carbosiderurgico, abbracciavano decisamente il progetto innovatore, la prima mirando al libero accesso ai giacimenti della Ruhr, nonché a tenere sott’occhio la ripresa economica e militare dello Stato tedesco, la seconda perché ansiosa di riguadagnare una condizione di parità con i partner europei e occidentali, oltre che di emanciparsi dal controllo internazionale sul proprio apparato produttivo. Al contrario, dal “fronte dei piccoli”, con l’Olanda alla testa, giungevano precise richieste di maggiore tutela degli interessi nazionali. I paesi del Benelux, infatti, pur non sottovalutando gli importanti vantaggi prospettati dal Piano Schuman, non ultimo il pieno rilancio dei rapporti economici con la Repubblica Federale Tedesca (RFT), guardavano con forte apprensione alla prospettiva di un direttorio franco-tedesco operante al vertice dell’edificio europeo.

A preoccupare non poco era anche l’autoesclusione della Gran Bretagna (v. Regno Unito), che più di qualunque altro avrebbe potuto garantire gli equilibri europei. Fu in tale contesto che maturò la proposta del Benelux di istituire un Consiglio dei ministri a carattere intergovernativo (v. Cooperazione intergovernativa), il quale, dopo accese discussioni e con grande soddisfazione della diplomazia dei piccoli Stati, venne inserito nella versione definitiva del Trattato, ultimata il 19 marzo 1951.

Particolarmente controverso, inoltre, fu il dibattito sulla sede delle Istituzioni comunitarie, conclusosi soltanto pochi giorni prima dell’entrata in vigore del Trattato, che sul punto non si era espresso. A fronte delle diverse candidature presentate, tra le altre da Liegi, Strasburgo, l’Aia e Torino, si stabilì che l’Alta autorità e la Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) fossero ospitate dalla capitale lussemburghese, mentre l’Assemblea si sarebbe riunita a Strasburgo, ove si trovava anche l’organo consultivo del Consiglio d’Europa (v. anche Sedi istituzionali).

Il 18 aprile 1951, come accennato, i ministri degli Affari esteri Konrad Adenauer per la RFT (di cui era anche cancelliere), Joseph Bech per il Lussemburgo, Robert Schuman per la Francia, Carlo Sforza per l’Italia, Dirk Stikker e Jan van den Brink (ministro del Commercio estero) per i Paesi Bassi, Paul van Zeeland e Joseph Meurice (ministro per gli Affari economici) per il Belgio procedevano alla firma del Trattato CECA.

La fase di ratifica fu relativamente breve e incontrastata in Olanda, Belgio e Lussemburgo, ove i Parlamenti nazionali completarono la procedura rispettivamente il 31 ottobre del 1951, il 5 febbraio e il 13 maggio del 1952. L’Italia, che ratificò il Trattato soltanto il 16 giugno del 1952, dovette far fronte alle pressioni della grande industria, sia pubblica sia privata, preoccupata di perdere i propri privilegi. Non meno tesa la situazione in Germania, causa le resistenze dell’opposizione socialdemocratica: il Bundestag, a ogni modo, riuscì ad adottare l’accordo già l’11 gennaio 1952.

Nel complesso, soltanto in Francia il processo di ratifica portò a uno scontro acceso e prolungato tra le forze cattoliche e moderate, favorevoli alla costruzione comunitaria, e il Partito comunista, convinto che la CECA fosse espressione dell’imperialismo statunitense, oltre che strumento di propaganda antisovietica. A complicare il quadro, peraltro, contribuivano le riserve golliste sul carattere sovranazionale della Comunità. Il dibattito si chiuse, almeno formalmente, non prima del 1° aprile 1952, allorché il Trattato CECA ottenne il favore del Senato (Consiglio della Repubblica) con 182 voti favorevoli e 32 contrari, ma l’Assemblea nazionale aveva già proceduto alla ratifica il 13 dicembre precedente.

Per quanto attiene alla struttura del testo, il Trattato di Parigi risultava suddiviso in quattro sezioni: la prima relativa alla CECA in quanto tale, la seconda riguardante le sue istituzioni, la terza le disposizioni economiche e sociali, la quarta le disposizioni generali. Vi comparivano inoltre tre protocolli, uno sui Privilegi e immunità della Comunità, uno sullo statuto della Corte di giustizia e un altro ancora sui rapporti tra la Comunità e il Consiglio d’Europa, nonché una convenzione (v. Convenzioni) sulle misure transitorie per l’attuazione del Trattato, le relazioni con i paesi terzi e le Clausole di salvaguardia. Infine, uno scambio di lettere fra i governi francese e tedesco riguardante la Saar.

Con particolare riferimento all’apparato istituzionale, che è all’origine di quello attuale dell’UE, la responsabilità e il controllo della gestione delle risorse carbosiderurgiche venivano affidati a quattro organi collegiali: l’Alta autorità, l’Assemblea, il Consiglio dei ministri e la Corte di giustizia.

Vero e proprio governo comunitario, l’Alta autorità rappresentava la creazione più originale del Trattato di Parigi. Il collegio era composto da nove membri indipendenti, di cui otto decisi dai paesi membri con una maggioranza di almeno cinque sesti, il nono eletto all’interno dell’Alta autorità con un minimo di cinque voti su otto, con una durata in carica di sei anni (dopo il periodo iniziale, ogni due anni un terzo dei membri doveva essere rinnovato). Il presidente e il vicepresidente, con mandato biennale, venivano designati tra i membri dell’Alta autorità dai governi degli Stati aderenti, sentito il parere del collegio. Istituzione sovranazionale, le cui decisioni venivano prese a maggioranza semplice, l’Alta autorità della CECA era responsabile del miglioramento dei meccanismi di produzione e di fornitura del carbone e dell’acciaio; vigilava sulla realizzazione degli obiettivi del Trattato e garantiva il rispetto delle condizioni di concorrenza, il libero accesso ai prodotti e la pubblicità dei prezzi.

Per provvedere alla realizzazione di tali obiettivi e per esercitare in piena indipendenza le sue funzioni, l’esecutivo della CECA disponeva di effettivi poteri, da esercitare nell’interesse generale della Comunità, tra i quali la facoltà di emettere decisioni, raccomandazioni e opinioni, la possibilità di intervento sui mercati carbosiderurgici nazionali e l’autonomia finanziaria (la quale era assicurata dai prelievi sulla produzione e da emissioni di prestiti). L’Alta autorità, infine, veniva coadiuvata da un comitato consultivo, composto da rappresentanti del mondo imprenditoriale, dei consumatori, dei sindacati e dei commercianti.

L’operato dell’Alta autorità era controllato da un’Assemblea comune, la quale consisteva di 78 delegati dei parlamenti nazionali (18 per la Francia, la Germania e l’Italia; dieci per il Belgio e i Paesi Bassi e quattro per il Lussemburgo). L’Assemblea della CECA, con un presidente eletto al suo interno, si limitava a esercitare funzioni consultive e di supervisione sulle attività comunitarie. Tuttavia, elemento embrionale di un rapporto di fiducia fra esecutivo e camera dei rappresentanti, quest’ultima disponeva della possibilità di votare, a maggioranza dei due terzi, una mozione di censura sul rapporto annuale presentato dall’Alta autorità, provocandone le dimissioni.

Di assai maggior spessore le competenze e il ruolo del Consiglio, formato dai rappresentanti degli Stati membri, i quali ne esercitavano a turno la presidenza, per un periodo di tre mesi. Stando al trattato, il Consiglio era incaricato di fungere da tramite tra l’Alta autorità e i governi nazionali, coordinando l’azione comunitaria con le politiche economiche dei singoli paesi. Poteva inoltre esigere dall’Alta autorità di esaminare le proprie proposte e misure, finalizzate al perseguimento dei comuni obiettivi. Con un sistema decisionale (v. Processo decisionale) fondato sul meccanismo di voto a maggioranza assoluta (purché fosse favorevole almeno uno degli Stati che produceva il 20% o più del valore di carbone e acciaio realizzato nella Comunità), ovvero a Maggioranza qualificata o con Voto all’unanimità, a seconda dei casi, il Consiglio rappresentava il contraltare intergovernativo dell’Alta autorità.

La Corte di giustizia, infine, preposta a garantire la fedeltà alle norme del Trattato (v. anche Diritto comunitario), sia sul piano dell’interpretazione, sia sotto il profilo dell’applicazione (v. Diritto comunitario, applicazione del), si componeva di sette giudici, in carica per sei anni (oggetto di rinnovo parziale ogni tre anni), designati dai governi di comune accordo. Il presidente della Corte, in carica per tre anni, veniva eletto dagli stessi giudici.

Il Trattato di Parigi inaugurava, sui mercati dei paesi firmatari, la libera circolazione dei prodotti carbosiderurgici, i quali venivano svincolati da qualsivoglia restrizione doganale, pratica discriminatoria, anche a livello di prezzi e trasporti, o sovvenzione statale. In tale contesto, l’Alta autorità era incaricata di prendere adeguate misure nei confronti delle industrie colpevoli di ostacolare la libera circolazione (ammende e penalità di mora) e degli Stati membri che avessero causato distorsioni o pregiudicato la concorrenza (si prevedevano diverse forme di Raccomandazione fino all’annullamento degli accordi e delle associazioni tra imprese). In caso di evidente congiuntura economica negativa, o in altre circostanze specifiche, il Trattato conferiva all’esecutivo della CECA la facoltà di stabilire i limiti massimi, o minimi, dei prezzi comunitari, anche per le esportazioni (artt. 47; 60-64; 67; 70).

In tema di produzione, sviluppo e fornitura dei prodotti, l’Alta autorità poteva altresì formulare previsioni per orientare l’azione della CECA; sostenere finanziariamente le imprese nelle rispettive ristrutturazioni e fornire prestiti o garanzie per gli investimenti; effettuare studi sulle condizioni del mercato e sulle tendenze dei prezzi, nonché agire direttamente, mediante l’imposizione di quote di produzione e di ripartizione e sfruttamento delle risorse, qualora si fosse verificata una diminuzione della domanda o una carenza di prodotti (artt. 46-47; 57-59).

Il Trattato affrontava infine le questioni relative ai salari e al movimento della manodopera (artt. 68-69) e le tematiche inerenti la Politica commerciale comune. Con riferimento al primo aspetto, l’Alta autorità era chiamata a promuovere iniziative a sostegno dei lavoratori e a intervenire in caso di eccessivo ribasso dei salari. In materia di politica commerciale con i paesi terzi, la quale rimaneva comunque di competenza esclusiva dei governi nazionali, la Comunità operava al fianco degli Stati fissando i tetti massimi e minimi dei diritti doganali, supervisionando l’amministrazione delle licenze di importazione e di esportazione, vigilando sul rispetto delle regole della libera concorrenza (v. anche Politica europea di concorrenza).

Il Trattato di Parigi ha subito diverse modifiche a opera dei trattati successivi. In particolare: Trattato di Bruxelles sulla fusione degli esecutivi (1965); trattati recanti modifiche a talune disposizioni finanziarie (1970 e 1975); Trattato sulla Groenlandia (1984); Atto unico europeo (1986); Trattato di Maastricht (1992); Trattato di Amsterdam (1997); Trattato di Nizza, un cui allegato, in previsione della scadenza del 23 luglio 2002, disponeva il passaggio dei settori del carbone e dell’acciaio sotto il regime di diritto comune del Trattato che istituisce la Comunità europea (2001); nonché Trattati di adesione sottoscritti tra il 1972 e il 1994.

Francesco Gui (2009)