Comunità europea di difesa

image_pdfimage_print

Dalla nascita del sistema bipolare al problema del riarmo tedesco

Alla fine della Seconda guerra mondiale, si riproponevano in Europa due problemi dalla cui soluzione dipendeva il ristabilimento di un equilibrio europeo e mondiale: la questione tedesca e quella della sicurezza della Francia. Mentre in Francia si affrontava il problema tedesco con l’obiettivo di metter fine, una volta per sempre, a ogni possibile ripresa di una politica aggressiva da parte germanica, negli Stati Uniti lo si affrontava principalmente nel quadro della politica di contenimento della spinta espansionistica sovietica. Nel nuovo contesto bipolare, la ricostruzione della Germania appariva condizione necessaria e urgente per promuovere insieme quella dell’Europa.

L’aggravarsi della Guerra fredda rendeva la situazione drammatica. Il blocco sovietico di Berlino, nel giugno del 1948, costituiva il primo inquietante segnale. Se si voleva porre un argine sicuro all’avanzata sovietica in Europa, occorreva una “normalizzazione” della zona. Ogni decisione tesa a ricostruire l’apparato statale tedesco d’anteguerra non poteva d’altra parte non suscitare reazioni contrastanti in Francia, dove paura del passato e disponibilità alla riconciliazione contribuivano alla formulazione di una politica estera esitante, talora a rimorchio, ma spesso anche in contrasto con gli alleati. Come opporsi alla ricostruzione dello Stato tedesco, che pareva imposta dal “pericolo rosso”, senza creare i presupposti per un assoggettamento dell’Europa centrale ai voleri sovietici e come, d’altra parte, acconsentire alla ricostruzione dello Stato tedesco, della sua economia, del suo esercito, senza gettare le premesse per una nuova revanche? Questi erano i termini di una difficoltà obiettiva: quella di creare un legame tra Francia e Germania capace di neutralizzare le due maggiori fonti della potenza tedesca, cioè l’industria pesante renana e l’esercito.

Il problema del riarmo tedesco comparve sibillinamente già nel Trattato istitutivo della Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) firmato il 4 aprile 1949, là dove, all’art. 6, questo prevedeva che la garanzia nordatlantica si sarebbe estesa, oltre che ai territori degli Stati contraenti, anche alle forze di occupazione in Europa. D’altronde la Francia, nel corso delle conversazioni che condussero al Patto atlantico, si dichiarò fautrice della forward strategy cioè della “difesa avanzata” sull’Elba e non sul Reno. Nell’agosto del 1949 scoppiò la prima bomba atomica sovietica, prospettando all’Occidente la paurosa eventualità di una guerra europea da affrontarsi con le sole armi convenzionali. L’equilibrio delle forze vedeva sul potenziale fronte dell’Elba da parte sovietica 27 divisioni più 60.000 effettivi della Volkspolizei, da parte atlantica, 12 divisioni mal equipaggiate e senza coordinamento (v. Clesse, 1989, p. 12). Gli elementi di base della questione erano dunque già sul tappeto nel corso del 1949, ma solo gli avvenimenti dell’anno successivo ne avrebbero rivelato l’urgenza.

Il 25 giugno scoppiò la guerra di Corea. E questo fu il detonatore di una situazione che avrebbe potuto altrimenti trascinarsi ancora a lungo. La Corea, come la Germania, era divisa in due zone, separate dal 38° parallelo, in cui si erano consolidate realtà politico-statuali antagonistiche. Si prospettava il pericolo concreto che il tentativo di riunificare il paese con la forza effettuato dai nord-coreani potesse essere ripetuto nel cuore dell’Europa. Il massiccio coinvolgimento militare americano nel Pacifico, poi, aumentava le preoccupazioni del Pentagono circa la possibilità di contenere un eventuale attacco sovietico in Germania. Il nuovo conflitto ebbe due conseguenze importanti: dimostrò concretamente che la Guerra fredda poteva generare la guerra “calda” e parve costituire una sorta di “test” con cui i sovietici saggiavano le reazioni americane all’espansione comunista, in attesa di colpire il settore cruciale, l’Europa.

La Germania diventava agli occhi di tutti la nuova Corea, l’anello debole della difesa occidentale. I primi a preoccuparsene furono, come ovvio, i tedeschi. Konrad Adenauer, in un memorandum consegnato agli alti commissari alla fine di giugno, chiese per la Repubblica Federale Tedesca (RFT) la creazione di un corpo di polizia federale, auspicando nel contempo il rafforzamento della difesa ai confini e della polizia ferroviaria. Gli fu risposto con promesse vaghe. A fine luglio, il segretario di Stato americano Dean Acheson sottopose al presidente Harry Spencer Truman l’ipotesi di una partecipazione tedesca in una posizione chiave del sistema europeo di difesa e l’incontro si concluse con un accordo sull’opportunità d’inserire contingenti militari tedeschi o in un esercito europeo o in un esercito atlantico con comando integrato.

All’Assemblea consultiva del Consiglio d’Europa, nell’agosto del 1950, Winston Churchill sostenne la necessità di creare subito un valido schieramento difensivo europeo e chiese all’Assemblea d’indirizzare un messaggio audace ai governi, indicando l’obiettivo per salvare la democrazia in Europa: la costituzione di un esercito europeo sotto un comando unificato.

Pochi giorni dopo, in occasione di una riunione degli alti commissari il 17 agosto al Petersberg, Adenauer pregò Cormac McCloy, Mickey Kirkpatrick e François Poncet «di mettere in grado la Repubblica federale di costituire un corpo di truppe capaci di respingere efficacemente un eventuale attacco della Volkspolizei» e diede la sua adesione al progetto di Churchill.

Nel frattempo, il Dipartimento di Stato americano dava mano attivamente a un progetto di difesa europea, inquadrata nel Patto atlantico, con la partecipazione di contingenti tedeschi sotto un comando unico. L’8 settembre Truman approvò il cosiddetto one package, ossia la formazione di un esercito integrato cui l’Europa avrebbe dovuto partecipare con 60 divisioni, sotto il comando americano, con uno Stato maggiore internazionale, in cui sarebbe stato inserito un numero ancora imprecisato di divisioni tedesche, in seguito quantificato in 10 divisioni. Il presidente americano si era dunque schierato a favore dell’impegno americano in Europa, ma a patto che gli europei accettassero di collaborare sulla base delle proposte statunitensi.

Il 12 settembre, i ministri degli Esteri francese, inglese e americano si riunirono a New York per preparare il lavoro del Consiglio atlantico. Acheson, affiancato dal contrammiraglio Thomas H. Robbins, propose a Ernest Bevin e a Robert Schuman l’one package. Nelle conversazioni a tre del 13-14 settembre non si raggiunse però nessun accordo, perché Schuman tenne testa al segretario di Stato americano, accettando la creazione di un comando unico integrato e l’aumento degli effettivi e della produzione d’armi in Europa, ma non il riarmo della Germania. Lo stesso copione si ripropose alla riunione del Consiglio atlantico del 15 settembre dove, seppur isolato, Schuman mantenne la sua posizione, dichiarando di non voler respingere a priori l’idea di una partecipazione tedesca alla difesa occidentale, ma di esser pronto a discuterne soltanto nel momento in cui il Patto atlantico fosse diventato un’organizzazione solida e funzionante. Durante le numerose riunioni che si susseguirono in quei giorni, gli americani persistettero nella richiesta del riarmo tedesco, sottolineando come da questo dipendesse il voto positivo del Congresso americano sui nuovi crediti necessari al riarmo europeo.

I francesi restarono sulle loro posizioni, ma si trovavano ormai a un bivio. Non era più tempo per dilazioni. La riunione del Comitato di difesa atlantico, che avrebbe dovuto tenersi il 16 ottobre a Washington, fu spostata al 28 per permettere ai francesi di discutere la questione in Parlamento. Si trattava di trovare il modo con cui procedere al riarmo tedesco.

Dal memorandum di Jean Monnet al Piano Pleven

Fu Jean Monnet a suggerire la via per uscire dall’impasse. Mentre era in corso la Conferenza di New York, aveva riunito il gruppo che già aveva ideato le basi del progetto della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA): Étienne Hirsch, Pierre Uri, Bernard Clappier, Paul Reuter, ai quali s’aggiunse Hervé Alphand. Sul modello politico-istituzionale della CECA, egli propose di collegare il riarmo tedesco al processo d’integrazione europea (v. Integrazione, metodo della; Integrazione, teorie della), inserendo i nuovi contingenti militari tedeschi in un esercito europeo integrato al livello di unità le più basse possibili, unificato sotto il profilo del comando, dell’organizzazione, dell’equipaggiamento e del finanziamento e gestito da comuni istituzioni sovrannazionali. Il comando supremo sarebbe stato atlantico. Monnet inviò un memorandum in tal senso al premier René Pleven, il 14 ottobre, presentando due giorni dopo a Pleven e Schuman un progetto di dichiarazione governativa sulla difesa comune. I due accettarono immediatamente nelle sue linee generali il progetto che, rivisto e modificato più volte, passò in breve tempo alla fase operativa.

Il 24 ottobre, Pleven annunciava all’Assemblea nazionale e al mondo intero l’intenzione della Francia d’impegnarsi per la costituzione di un esercito europeo, collegato a istituzioni politiche dell’Europa unita. Nel progetto esposto erano presenti tutti gli elementi che avrebbero costituito la base delle discussioni della Conferenza per la costituzione di una Comunità europea di difesa: un’Assemblea, un ministro della Difesa nominato dai governi e responsabile congiuntamente di fronte a questi e a quella; un Consiglio dei ministri degli Stati partecipanti, intermediario tra la Comunità e gli Stati membri. Si parlava di bilancio comune per finanziare l’esercito europeo e di mantenere invariati gli accordi presi con la NATO. Erano già delineati alcuni degli obblighi del “ministro europeo” e si prospettava la necessità di una fase transitoria. Al primitivo progetto di Monnet erano state tuttavia apportate alcune modifiche, che si sarebbero rivelate altrettanti elementi di debolezza. Il 25, con 343 voti contro 220, l’Assemblea approvava il progetto.

Essendo solo abbozzato, prima di presentarlo al Consiglio atlantico a Washington, il Piano fu rivisto dai membri del Gabinetto militare riuniti da Jules Moch, oltre ad alcuni collaboratori civili. Ne uscì il progetto di esercito europeo che i francesi presentarono al Comitato di difesa atlantico, a Washington, il 28 ottobre. Qui Moch espose il piano francese di un esercito europeo a carattere sovrannazionale, integrato nell’esercito NATO, sotto il comando del Supreme headquarters allied powers Europe (SHAPE), passo importante per la costruzione dell’Europa unita. Tre erano le condizioni per la riuscita del Piano: la firma del Trattato della CECA, la creazione di un supporto politico all’esercito europeo sotto forma di un abbozzo di Assemblea europea, la nomina di un ministro europeo della Difesa responsabile davanti a questa e ai governi degli Stati membri. Moch terminò proponendo la convocazione, subito dopo la firma del Trattato della CECA, di una conferenza di tutti gli Stati interessati, incaricata di studiare dettagliatamente il progetto.

A un esame superficiale, la proposta americana e quella francese non erano poi così distanti: entrambe accettavano il principio dell’integrazione degli eserciti, del comando unico nord-atlantico, della difesa sulla linea dell’Elba. Esistevano, però, forti motivi di contrasto: gli americani prevedevano un’integrazione a livello di corpo d’armata con costituzione di divisioni tedesche, mentre i francesi propendevano per un’integrazione a livello di battaglioni, reggimenti, o al massimo dei combat teams internazionali; gli americani sostenevano l’inclusione di ufficiali tedeschi nello Stato maggiore internazionale del Comando supremo e nei corpi d’armata con divisioni tedesche, mentre i francesi escludevano la costituzione di qualsiasi Stato maggiore tedesco; gli americani affidavano l’amministrazione delle divisioni tedesche a un civile tedesco, con il controllo di una missione alleata, mentre i francesi l’affidavano a un ministro della Difesa europeo, con il controllo di un’Assemblea europea; gli Stati Uniti, infine, a differenza dei francesi, erano propensi ad autorizzare nuove produzioni di materie prime e di materiale militare leggero da parte germanica. Un consistente motivo di dissenso derivava anche dai tempi di attuazione del Piano francese: quando – si chiedevano gli americani – un esercito europeo avrebbe potuto collaborare concretamente alla difesa dell’Europa? Non rappresentava forse il progetto francese una manovra dilatoria tesa a procrastinare la soluzione del problema del riarmo tedesco?

In realtà, la peculiarità del progetto francese, ciò che lo distingueva dall’one package e che non poteva essere gettato sul tavolo del compromesso, era il suo carattere sovrannazionale, che andava ben al di là delle alleanze militari di tipo tradizionale (quale, in definitiva, quella prevista dal progetto americano), per mettere in gioco la stessa sovranità degli Stati in un settore cruciale della loro esistenza e dare così una chance all’Europa.

Dopo lunghe dispute, venne accettata a Washington una risoluzione belga di compromesso: il Comitato di difesa affidò al Comitato dei supplenti (che suppliva il Consiglio atlantico ed era formato da dodici diplomatici in rappresentanza dei dodici ministri degli Esteri atlantici) assistito dal Comitato militare (che suppliva il Comitato di difesa ed era formato dai dodici capi di Stato maggiore in rappresentanza dei dodici ministri della Difesa) lo studio delle diverse proposte sul riarmo tedesco. Era l’ultima carta per scongiurare una crisi in seno all’Alleanza atlantica. Il 31 ottobre, gli americani proposero e ottennero il rinvio della discussione dei punti 7 e 8 all’ordine del giorno, che prevedevano la creazione di una forza integrata per la difesa dell’Europa, la costituzione di un quartier generale supremo e la designazione di un comandante (che avrebbe dovuto essere Dwight Eisenhower). La partecipazione statunitense alla difesa europea veniva esplicitamente legata alla presenza di unità tedesche. Inutile aggiungere che si era ormai ai ferri corti.

Il Comitato dei supplenti si riunì a Washington il 4 novembre. L’americano Charles Spofford, rinunciando alla creazione di divisioni tedesche, fece il primo passo. Egli propose la costituzione di combat teams, gruppi di 5-6000 uomini, simili alle brigate di un tempo, ma più ricchi di armi speciali e di servizi. Spofford chiese però, come contropartita, la rinuncia da parte francese a ogni infrastruttura politica collegata all’esercito europeo e in particolar modo alla richiesta di un ministro della Difesa europeo. Il 14, Pleven, Schuman e Moch decisero di accettare il principio dei combat teams, ma di non cedere sugli altri punti. I negoziati continuarono, trascinandosi più a lungo del previsto sinché, a inizio dicembre, la situazione si sbloccava. Dopo un incontro a Londra, il 2, tra Schuman, Pleven, Clement Attlee e Bevin, i francesi decisero di accettare il piano Spofford solo come soluzione transitoria, non rinunciando alla formazione di un esercito europeo. A Bruxelles, il 18 dicembre, si riunirono il Consiglio atlantico e il Comitato di difesa. Il piano Spofford con le garanzie richieste dalla Francia venne approvato, a condizione che le forze europee consolidassero la Comunità atlantica e la difesa comune, fossero inquadrate nella NATO e promuovessero un’associazione più stretta dei paesi dell’Europa occidentale. Venne nominato un comandante supremo delle Forze alleate che, per acclamazione, fu Eisenhower. Si ammise il principio di due negoziati simultanei. Il primo avrebbe riunito al castello del Petersberg, presso Bonn, gli alti commissari delle potenze occupanti e i rappresentanti del governo tedesco occidentale al fine di definire la partecipazione militare tedesca all’Alleanza atlantica. Il secondo avrebbe avuto luogo a Parigi, per definire i principi della costituzione di un esercito europeo in cui la Germania sarebbe stata sottoposta alle medesime restrizioni degli altri paesi.

I lavori della Conferenza di Parigi e le trattative per la costituzione di un esercito europeo

La convocazione della Conferenza di Parigi per discutere la costituzione di un esercito europeo fu annunciata formalmente dal governo francese il 24 gennaio 1951 e il 26 vennero diramati gli inviti a tutti gli Stati europei firmatari del Patto atlantico, alla Repubblica federale di Germania e anche, in qualità di osservatori, a Stati Uniti e Canada. Il 15 febbraio, alla Conferenza erano rappresentati cinque Stati con pieni poteri – Francia, Repubblica federale di Germania, Italia, Belgio, Lussemburgo – e, in qualità di osservatori, Paesi Bassi (che si sarebbero uniti ai cinque in autunno), Regno Unito, Portogallo, Danimarca, Canada, Stati Uniti.

Nel discorso inaugurale, Schuman chiarì l’opportunità di prevedere una tappa di transizione nel corso della quale un alto commissario europeo della difesa avrebbe utilizzato gli elementi nazionali messi a sua disposizione. Le divisioni europee sarebbero state create, per giustapposizione di gruppi tattici di diverse nazionalità, soltanto in un secondo stadio. A loro volta, le divisioni avrebbero costituito un esercito europeo, reclutato e preparato dall’alto commissario europeo, ma messo a disposizione del comandante in capo dello SHAPE. Solo a questo punto il Commissario avrebbe assunto il ruolo di ministro europeo della Difesa. Il Piano prevedeva la costituzione d’istituzioni politiche europee.

Il 1° marzo si tenne la prima riunione del Comitato di direzione, composto dai capi-delegazione (il francese Hervé Alphand, il tedesco Theodor Blank, il belga barone J. Guillaume, il lussemburghese Pierre Majerus, l’italiano Paolo Emilio Taviani), sotto la presidenza dell’ambasciatore Alphand. Alle dipendenze del Comitato di direzione avrebbero lavorato tre comitati tecnici, competenti rispettivamente in problemi giuridici, militari e finanziari. Durante i primi mesi di lavoro, la delegazione italiana, guidata da Taviani, contava su Antonio Venturini, i colonnelli Guido De Fonzo e M. Turrini, Paolo Pansa Cedronio, Michele Gaetano De Rossi, Pietro Stoppani.

Dopo l’apertura dei lavori, si dovette attendere il mese di aprile perché avessero luogo nuove riunioni dei comitati. A due mesi dall’inizio della Conferenza, risultava evidente la mancanza di un accordo politico tra gli Stati europei. Le opposizioni interne si rafforzavano un po’ dovunque e il perdurante atteggiamento americano negativo nei confronti della CED impediva ogni evoluzione positiva dei negoziati. Un ulteriore impedimento ai negoziati della Conferenza era costituito dalla preoccupazione di ostacolare i lavori atlantici. La Conferenza continuò pertanto a trascinarsi stancamente, badando soprattutto a questioni di dettaglio, ai problemi minori su cui era possibile trovare un accordo senza l’intervento di precise direttive dei governi.

Una forte accelerazione dei lavori venne dall’improvviso cambiamento nell’atteggiamento di Francia e Stati Uniti. Alla fine di maggio, i francesi, intimoriti dallo sviluppo dei negoziati sul riarmo tedesco in corso al Petersberg, cominciarono a sondare la disponibilità delle delegazioni a redigere un rapporto provvisorio sui lavori della Conferenza. Il 29 giugno, con una dichiarazione alla stampa diplomatica, Alphand – portavoce di Schuman – ribadì l’opposizione della Francia a ogni riarmo tedesco non inquadrato in un esercito europeo, ma alluse anche alla possibilità di alzare il grado d’integrazione delle unità nazionali omogenee. Ciò avrebbe consentito un accordo tra la concezione francese dei combat teams e quella tedesca delle divisioni, disincagliando la Conferenza dall’impasse in cui si trovava.

Contemporaneamente a questo cedimento del governo francese, si assistette a un mutamento dell’atteggiamento del governo americano nei confronti della CED, soprattutto dopo un colloquio a Parigi, a fine giugno, tra Monnet ed Eisenhower, durante il quale l’uomo politico francese tentò con successo di convincere il generale americano dell’importanza che la CED avrebbe avuto per la pace in Europa. L’unità europea era d’altronde da tempo un tema dominante della politica americana; presso l’Amministrazione, nel Congresso; erano in molti a subire il fascino delle idee di Monnet, Richard Nikolaus Coudenhove-Kalergi, Lord Lothian, Clarence Streit. Il 3 luglio, a Londra, Eisenhower pronunciò un discorso in cui s’impegnava senza riserve a favore dell’unione europea, considerandola come condizione essenziale della sicurezza e della prosperità dell’Europa. A sua volta, Acheson redasse un memorandum favorevole alla CED che, dopo varie discussioni al Dipartimento di Stato e al Pentagono, fu approvato da Truman il 30 luglio.

Il mutato atteggiamento americano nei confronti della CED diede nuovo impulso ai lavori della Conferenza di Parigi già nel corso del mese di luglio. Il 24 venne approvato un Rapport intérimaire da sottoporre ai governi interessati, che, oltre a fare il punto della situazione sui lavori per la creazione dell’esercito europeo, aveva come obiettivo quello di chiedere ai governi precise istruzioni per i successivi lavori della Conferenza e per la stesura del trattato definitivo. Non mancava nel Rapport un’aperta ammissione dei motivi di disaccordo che, su parecchi argomenti, avevano condotto la Conferenza a un punto morto.

Tutti sembravano concordi sugli obiettivi e sui principi generali del costituendo esercito europeo: la fusione delle forze armate sotto il controllo d’istituzioni sovrannazionali comuni, la non discriminazione tra gli Stati membri, la cooperazione con la NATO, il carattere puramente difensivo e pacifico della nuova organizzazione. Sulla falsariga della Comunità del carbone e dell’acciaio, le istituzioni previste erano quattro: un Commissario europeo (v. anche Commissione europea), un Consiglio dei ministri, un’Assemblea (v. anche Parlamento europeo), una Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea). Ma a questo punto cominciavano le difficoltà. L’Autorità europea sarebbe stata costituita da una sola persona, il Commissario, o da un collegio, il Commissariato? Anche le modalità riguardanti la nomina del Commissario e la sua eventuale sostituzione in caso di morte o di sopravvenuto impedimento nel corso del mandato, oltre che la durata di quest’ultimo, rimanevano imprecisate. Nell’esercizio dei suoi poteri, il Commissario avrebbe potuto prendere decisioni (obbligatorie per tutti gli Stati partecipanti), formulare raccomandazioni (obbligatorie soltanto riguardo ai fini, non ai mezzi per realizzarli) o emettere pareri, non vincolanti. I suoi poteri si sarebbero avvicinati a quelli di un ministro della Difesa e avrebbero interessato in particolar modo l’istruzione e l’approntamento delle Forze europee, il cui reclutamento sarebbe rimasto nazionale sino al momento in cui fosse stato preso in carica dalla Comunità; la direzione di scuole europee per la formazione degli ufficiali; i controlli e le ispezioni indispensabili; la dislocazione territoriale delle Forze, conformemente alle direttive NATO; la preparazione e l’esecuzione (a seguito del parere favorevole del Consiglio dei ministri) di programmi di produzione bellica europea; le nomine in ordine ai gradi e ai ruoli; l’amministrazione del personale e la gestione dei beni; i progetti di bilancio; i rapporti tra la Comunità, gli Stati membri, i paesi terzi e le organizzazioni internazionali. Al Consiglio dei ministri, formato da rappresentanti degli Stati membri, i delegati affidavano il compito di armonizzare l’azione del Commissario e la politica dei governi degli Stati membri, nonché di formulare le direttive generali entro cui il Commissario avrebbe svolto la sua azione. Non erano ancora stati stabiliti i casi in cui il Consiglio avrebbe deciso con il Voto alla unanimità, a maggioranza qualificata o a maggioranza semplice e rimaneva irrisolta la questione della ponderazione dei voti all’interno del Consiglio (v. Ponderazione dei voti nel Consiglio). Il problema riguardava anche l’Assemblea, alla quale peraltro erano stati attribuiti poteri limitati: essa avrebbe ricevuto ogni anno dal Commissario un rapporto, discutendolo poi in seduta pubblica e formulando osservazioni e auspici. Il Rapport Intérimaire riconosceva all’Assemblea anche il potere di censura nei confronti del Commissario, e quindi di una sua eventuale destituzione.

Se il principio dell’integrazione delle Forze era stato unanimemente accettato, controverso rimaneva il livello al quale l’integrazione si sarebbe dovuta effettuare: la delegazione francese aveva proposto che l’integrazione avvenisse all’interno di divisioni europee, risultando così il groupement de combat (di circa 5000 uomini) la maggiore unità di nazionalità omogenea. La delegazione tedesca, invece, aveva proposto che l’integrazione si realizzasse a livello di corpo d’armata, interessando due o tre unità operative, o blindate (comprendenti 10-11.000 uomini) o di fanteria meccanizzata (composte da 12-13.000 uomini), di nazionalità omogenea, ciascuna sotto il comando di un capo di nazionalità uguale a quella delle truppe.

Le questioni finanziarie risultavano quelle di gran lunga più controverse. Per far fronte alle spese dell’esercito europeo, la Comunità avrebbe beneficiato dei contributi degli Stati membri e di eventuali contributi esterni. Le delegazioni tedesca, italiana e francese auspicavano che le ripartizioni degli oneri fossero collegate alla capacità economica degli Stati partecipanti e non alla loro partecipazione – in termini di effettivi – all’esercito europeo. Questo criterio trovava discordi i paesi “piccoli”, che non intendevano accollarsi de facto l’onere di finanziare personale non nazionale. Il Rapporto fissava in 50 anni la durata di applicazione del Trattato, mentre rimanevano in sospeso la questione linguistica e quella della sede della Comunità. Un capitolo a parte era dedicato alle disposizioni transitorie, che sarebbero state oggetto di una convenzione particolare. Tali disposizioni prevedevano che, pur essendo create immediatamente, le diverse istituzioni della Comunità sarebbero entrate in possesso delle loro competenze solo progressivamente, permettendo un passaggio di poteri graduale dagli Stati membri alla Comunità.

Nell’agosto 1951, la Conferenza di Parigi attraversava dunque una fase d’attesa: la parola era passata ai governi. Il Rapport intérimaire aveva evidenziato i problemi sollevati dalla creazione di un esercito europeo e stava ora ai singoli paesi decidere sul da farsi.

Altiero Spinelli inviava in quei giorni al Presidente del Consiglio italiano, Alcide De Gasperi, un promemoria sul Rapporto provvisorio in cui riconduceva la miriade dei problemi tecnici sollevati dalla Conferenza a una sola domanda: poteva la CED precedere la fondazione costituzionale di uno Stato europeo? La risposta era negativa: solo con la creazione di uno Stato federale europeo – affermava – i problemi posti dalla Conferenza di Parigi, a cominciare dalle spinose questioni della collegialità e del bilancio comune, potevano trovare soluzione (v. anche Federalismo). E concludeva il memorandum con un incitamento alla delegazione italiana alla Conferenza per la CED affinché, abbandonando l’atteggiamento di diffidenza sin allora mantenuto a Parigi, si facesse paladina dell’esercito – e quindi dello Stato – europeo.

Inserimento del progetto di Comunità politica europea nella CED e conclusione della Conferenza di Parigi

I lavori ripresero a pieno ritmo in settembre, in vista dell’imminente riunione del Consiglio atlantico di Ottawa. Si stava ormai avvicinando il tempo delle scelte decisive. A Washington, il 10 settembre, alla Conferenza dei ministri degli Esteri di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, i governi britannico e statunitense dichiararono formalmente di accettare la creazione di un esercito europeo. Il 9 ottobre, la delegazione italiana alla Conferenza di Parigi, alla cui guida Ivan Matteo Lombardo aveva sostituito Paolo Emilio Taviani, presentava un Aide-mémoire che, seguendo i suggerimenti di Spinelli, contestava le conclusioni raggiunte dal Rapport intérimaire e proponeva una soluzione sovrannazionale del problema europeo. Il collegamento dell’esercito europeo a organismi che avrebbero potuto preludere alla creazione di una comunità politica e quindi alla nascita di una patria europea divenne il motivo essenziale degli interventi che Alcide De Gasperi fece a Strasburgo, sia nel corso dell’Assemblea consultiva del Consiglio d’Europa, il 10 dicembre, sia nel corso di una riunione dei sei ministri degli Esteri, il giorno successivo. L’azione della delegazione italiana e di De Gasperi sarebbe sfociata nell’inserimento all’interno del progetto di trattato della CED dell’art. 38 che affidava all’Assemblea della CED un mandato precostituente, preludio alla stesura (terminata nel marzo 1953) di un progetto di Statuto istituente una Comunità politica europea.

L’Europa unita non era mai stata così vicina. In una nuova riunione a Parigi, il 26-27 gennaio 1952, i ministri si accordarono sul nome – Commissariat – e sulla composizione dell’autorità collegiale esecutiva. Essa avrebbe compreso nove membri, di cui non più di due connazionali, nominati per sei anni. Quanto alla composizione dell’Assemblea, i ministri, per evitare il moltiplicarsi delle istituzioni, optarono a favore del mantenimento di un solo organo rappresentativo per la CED e per la CECA, la cui Assemblea era composta da 18 delegati per Italia, Francia e Germania federale, 10 per Belgio e Paesi Bassi e 4 per il Lussemburgo. Tuttavia, nella convinzione che l’Assemblea della CED dovesse avere un più spiccato carattere rappresentativo, fu deciso che i tre maggiori paesi della Comunità avrebbero designato ciascuno tre delegati supplementari, che si sarebbero uniti agli altri per le discussioni concernenti la CED. Anche la Corte di giustizia si sarebbe identificata con quella della CECA. Le sedi delle diverse istituzioni della Comunità, invece, sarebbero state fissate solo dopo la ratifica del Trattato.

Il 9 maggio il Trattato veniva parafato dai delegati alla Conferenza, che raccomandavano ai rispettivi governi l’adozione dei testi elaborati. Si trattava, oltre al Trattato istituente la CED, del protocollo militare, di quello finanziario, del protocollo addizionale relativo agli impegni degli Stati membri della Comunità verso gli Stati aderenti alla NATO, del protocollo concernente le relazioni tra CED e NATO, del testo di trattato di mutua assistenza tra Regno Unito e Stati membri della CED. Il 19 maggio, i ministri riuniti alla Conferenza di Parigi chiarirono le ultime questioni irrisolte, in particolar modo quelle relative alla ponderazione dei voti e alla durata del Trattato. Un accordo fu raggiunto sulla base dell’equiparazione di Francia, Germania e Italia (ciascuna avente diritto a tre voti). Nel periodo definitivo, ogni Stato membro avrebbe avuto un numero di voti corrispondente al rispettivo contributo in uomini e denaro a favore della Comunità. Quanto alle decisioni prese a maggioranza qualificata, si stabilì che tale maggioranza dovesse rappresentare il 60% dei contributi finanziari e degli effettivi militari della Comunità. La durata del Trattato fu fissata in cinquant’anni e strettamente collegata alla durata del Patto atlantico. Il 23 maggio, i ministri degli Esteri si riunirono a Strasburgo per definire gli ultimi dettagli. Stati Uniti e Gran Bretagna s’impegnarono, ove l’integrità o l’unità della CED fosse minata da chiunque e in qualsiasi luogo, a considerare tale eventualità come una minaccia diretta contro la propria sicurezza. Le due potenze s’impegnarono inoltre a mantenere in Europa effettivi sufficienti ad assicurare la difesa dei territori della NATO e l’integrità della CED. Il 26 maggio, fu firmato a Bonn il “trattato di pace” o “accordo contrattuale”, che concludeva i negoziati intrapresi tra Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, da una parte, e Germania federale, dall’altra, a partire dalla Conferenza di Bruxelles del 19 dicembre 1950. Con tale accordo le tre potenze occupanti rinunciavano alle loro prerogative e le condizioni poste al riarmo della Germania venivano eliminate, ben inteso solo dopo l’entrata in vigore della CED.

Il 27 maggio, i ministri degli Esteri dei sei paesi partecipanti alla Conferenza di Parigi firmarono il trattato istituente la Comunità europea di difesa. Il progetto passava ora alla fase della ratifica.

Il processo di ratifica da parte di Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo e Germania

Nei mesi successivi le forze contrarie alla CED in Francia si andarono consolidando: all’ostilità di Charles De Gaulle, il quale aveva espresso il proprio dissenso immediatamente dopo la firma del Trattato, si affiancava ormai quella di alcuni leader radicali – Édouard Herriot, Édouard Daladier – e di molti socialisti, tra i quali, in prima fila, Jules Moch, nutriti d’istanze sempre più manifestamente nazionalistiche. Tuttavia per tutto il 1952 e il 1953 esisteva, a parere di molti (v. Fauvet, 1959, p. 29), una maggioranza parlamentare favorevole alla CED, coincidente con la maggioranza di governo. Ma Schuman si dimostrò esitante, ritardando a presentare il progetto all’Assemblea.

La caduta del governo Antoine Pinay, a fine dicembre, provocava una svolta. Il 31 dello stesso mese, Vincent Auriol affidava al radicale René Mayer, europeista convinto, l’incarico di formare il nuovo governo. Schuman perdeva gli Esteri, sostituito da Georges Bidault. Mayer, non potendo contare sull’appoggio né dei socialisti né dei moderati, era costretto a fare concessioni ai gollisti, i quali chiedevano la revisione di alcune disposizioni del progetto di trattato della CED. Il 7 febbraio, il Consiglio dei ministri francese approvava otto protocolli addizionali destinati a precisare alcune modalità d’applicazione del trattato. Essi riguardavano l’intercambiabilità del personale militare francese, la possibilità di prelevare reparti dall’esercito europeo e trasformarli in reparti nazionali, il prolungamento oltre il periodo transitorio del voto ponderato all’interno del Consiglio dei ministri, l’addestramento in scuole a statuto europeo del personale militare di carriera dei reparti nazionali, le autorizzazioni e i controlli relativi alla produzione, importazione ed esportazione di materiale bellico destinato a contingenti nazionali, la mobilitazione delle Forze europee di difesa, lo Statuto delle Forze non tedesche presenti sul territorio della Repubblica federale, gli aiuti esterni. Nessuno, inoltre, era in grado di escludere nuove richieste da parte francese.

Molti confidavano ancora nell’efficacia di un’eventuale pressione americana a favore della ratifica. L’elezione alla presidenza di Eisenhower e la nomina di John Foster Dulles, un convinto europeista, al Dipartimento di Stato, inducevano a credere che gli Stati Uniti non avrebbero mancato d’influire sulle scelte europee. L’unità europea diventava in effetti una priorità sotto l’amministrazione repubblicana, che non avrebbe risparmiato nessun tentativo per far ratificare la CED e proseguire il processo d’unificazione europea. Il tema della revisione della politica americana nei confronti dell’Europa nel caso in cui gli Alleati si fossero rifiutati di procedere sulla via dell’integrazione avrebbe rappresentato, con la sua larvata minaccia, una delle strategie adottate dagli Stati Uniti a partire dal gennaio del 1953 per raggiungere lo scopo. Già a fine gennaio, Foster Dulles e il direttore della Mutual security agency, Harold Stassen, compivano un viaggio in Europa con l’obiettivo prioritario di premere sui singoli governi per una rapida ratifica della CED.

A metà febbraio, tuttavia, questa appariva sempre più difficile in Francia. Aron ricorda al riguardo come fosse corrente uno slogan – «la CED riarma la Germania e disarma la Francia» (v. Aron, Lerner, 1956, p. 10) – che dava corpo alle preoccupazioni di ordine militare di fronte al conflitto indocinese.

Il progetto di Trattato veniva depositato ufficialmente davanti all’Assemblea nazionale il 28 gennaio e passava poi all’esame delle due Commissioni degli Affari esteri e della Difesa nazionale. Non c’era neanche tempo per farsi illusioni sulla sua sorte: entrambe le Commissioni nominavano relatori fortemente ostili al trattato (Moch, la prima, il generale Jospeh Pierre Koenig, la seconda). Mayer continuava tuttavia ad essere ottimista, a patto che si riuscisse a risolvere problemi non semplici: la questione della Saar, l’accettazione dei protocolli addizionali, una presa di posizione britannica nettamente a favore dell’esercito europeo, la partecipazione di americani ed europei agli sforzi francesi in Indocina, la realizzazione di un accordo limitato, ma efficace sull’autorità politica. Alla riunione dei sei ministri degli Esteri, a Roma, il 24-25 febbraio 1953, la situazione appariva ancora fluida, pur a fronte di un progressivo irrigidimento, soprattutto da parte tedesca, nei confronti delle richieste francesi. L’esame dei protocolli addizionali proseguiva, sino alla parafatura, il 24 marzo, da parte del Comitato interinale: ogni ostacolo alla ratifica della CED sembrava così rimosso.

Il 1° marzo, Mayer si era dichiarato favorevole alla ratifica, chiedendo che l’Assemblea nazionale si pronunciasse una volta firmati i protocolli. L’inizio delle discussioni in sede parlamentare e la volontà d’accelerare i tempi espressa da Mayer provocavano tuttavia una vivace ripresa polemica in seno all’opinione pubblica e ai partiti. La morte di Stalin, a sua volta, suscitando ovunque speranze di distensione, indeboliva il consenso all’esercito europeo, rallentando la spinta all’unità europea e restituendo forza ai nazionalismi.

I timidi passi del governo francese a favore della ratifica della CED dovevano ben presto rivelarsi illusori. Il 21 maggio, il governo Mayer era rovesciato. Se il contenzioso aveva carattere interno, di politica economica e finanziaria, era a tutti evidente che il vero problema era rappresentato dalla politica estera: il Rassemblement du peuple français, dopo la ratifica della CED al Bundestag tedesco, si rifiutava di accordare a Mayer il potere di condurre una politica favorevole all’esercito europeo. L’andamento e il protrarsi della successiva crisi di governo erano tali da suscitare grandi incertezze sulla sorte del trattato della CED e della politica europea della Francia.

Nel corso del 1954 venivano ultimate le ratifiche del Trattato in quattro paesi europei.

L’Olanda era il primo paese firmatario della CED a perfezionare la ratifica del Trattato e il primo a depositare a Parigi, il 25 gennaio, i relativi strumenti. Già nel novembre del 1952, tutto aveva lasciato presupporre che i Paesi Bassi si sarebbero adoperati per essere i primi a ratificare il progetto, che era stato depositato in Parlamento e presentato al Consiglio di Stato per il parere di costituzionalità. Non sussistevano dubbi né sul voto dei parlamentari né sulla celerità della procedura. Il 3 febbraio 1953, il governo olandese presentava alla Seconda camera degli Stati generali il progetto di legge di ratifica, accompagnato da un messaggio della Regina, la quale, ascoltato il parere del Consiglio di Stato, ne raccomandava l’approvazione. Il progetto passava quindi all’esame delle commissioni competenti della Camera e di un’apposita “commissione preparatoria”. Approvato dalla Seconda Camera il 23 luglio 1953 e accompagnato dalle modifiche apportate alla Costituzione rese necessarie per la sua approvazione, il progetto veniva discusso al Senato ai primi di gennaio e approvato il 20 di quel mese, con 36 voti favorevoli e 4 contrari.

In Belgio, il Parlamento non era concordemente favorevole alla ratifica. Tuttavia, i cristiano-sociali erano in linea di massima sostenitori della politica europeistica e anche l’opposizione socialdemocratica, guidata da Paul-Henri Charles Spaak, era in larga parte a favore, a eccezione di alcuni oppositori alla ratifica incondizionata. L’8 dicembre, il Consiglio di Stato era investito di una richiesta di parere sul progetto di legge relativo alla CED, che il 12 gennaio 1953 rimetteva al governo, rilevando contraddizioni tra talune disposizioni del progetto e la Costituzione belga. Il parere del Consiglio era però solo consultivo e il governo era ben deciso a chiedere la ratifica al Parlamento. Paul van Zeeland presentava alla Camera il progetto il 3 febbraio. A metà febbraio, in sede di discussione del bilancio degli Esteri, si delineava un ampio schieramento favorevole alla ratifica. L’11 aprile, il governo comunicava la propria accettazione dei protocolli addizionali. Una commissione speciale della Camera, istituita per l’esame dei diversi aspetti del Trattato, continuava i lavori sino all’estate del 1953 e il 16 luglio emetteva parere favorevole alla ratifica. L’incarico di preparare la relazione era affidato a Pierre Wigny. Elaborata entro il 21 settembre, la relazione era sottoposta alla discussione della Camera, che approvava la ratifica della CED il 26 novembre. L’ostacolo costituzionale veniva superato dal fatto che si chiedeva al Parlamento di approvare, assieme alla legge di ratifica della CED, anche il principio della relativa revisione costituzionale, alla quale avrebbe provveduto il nuovo Parlamento. Il 2 marzo, il Senato iniziava la discussione del trattato, che veniva definitivamente approvato il 12 marzo, con 125 voti contro 40 e 2 astensioni. Votavano a favore i cristiano-sociali nonché la maggioranza dei socialisti e dei liberali: i voti contrari erano dei comunisti, di alcuni liberali e di diversi socialisti.

In Lussemburgo, il progetto di legge per l’approvazione del Trattato CED era sottoposto al giudizio del Consiglio di Stato il 18 febbraio 1953. Data l’urgenza della ratifica, il progetto era depositato simultaneamente alla Camera dei deputati dal ministro degli Esteri Joseph Bech. Il Consiglio di Stato pubblicava il 10 settembre 1953 il proprio parere favorevole alla ratifica, subordinandolo tuttavia all’impegno per una revisione costituzionale. Il trattato veniva ratificato il 3 aprile 1954.

In Germania la ratifica del progetto non fu così semplice come la rapidità che la contraddistinse potrebbe lasciar immaginare. L’opposizione, ancor prima della firma del progetto di trattato, aveva chiesto che l’approvazione avvenisse con la maggioranza costituzionale dei due terzi. Il 31 gennaio del 1952, i deputati del Bundestag Arndt e Reisman sottoponevano alla Corte costituzionale di Karlsruhe un Normenkontrollklage, chiedendo di verificare se le norme di diritto federale che regolavano la partecipazione della Germania a una forza militare non fossero incompatibili con la Legge fondamentale e presupponessero pertanto una sua preventiva modifica. Adenauer avviava il procedimento di ratifica senza attendere la decisione della Corte: il progetto veniva presentato al Bundestag, in prima lettura, poco più di un mese dopo la sua firma, il 9 luglio 1952. Il 3 dicembre passava alla seconda lettura del Bundestag e veniva approvato. I quattro disegni di legge sul Trattato CED e gli Accordi tedesco-alleati di Bonn erano approvati in terza lettura al Bundestag il 19 marzo 1953, con 224 voti a favore e 165 contrari. Anche al Bundesrat non si presentavano difficoltà: il 15 maggio, esso approvava il progetto di Trattato con 23 voti contro 15.

La vittoria elettorale di Adenauer fugava ogni incertezza, permettendo al Cancelliere d’ottenere i due terzi dei seggi al Bundestag e di non temere quindi un eventuale giudizio negativo sulla costituzionalità del progetto di trattato CED da parte della Corte di Karlsruhe. Il Bundestag approvava il 26 febbraio con 334 voti contro 144, e cioè con la maggioranza di due terzi necessaria, la revisione della Grundgesetz. Trasmesso al Bundesrat, il testo era discusso e approvato il 19 marzo, con 26 voti a favore, 4 contrari e 8 astensioni. In tal modo, il procedimento in corso alla Corte costituzionale di Karlsruhe non aveva più ragion d’essere e il Presidente della Repubblica, Theodor Heuss, poteva apporre la propria firma, il 29 marzo 1954, agli strumenti di ratifica del Trattato di Parigi.

Le incertezze venivano dall’Italia e dalla Francia.

Il difficile processo di ratifica in Italia e in Francia e la conclusiva bocciatura della CED

In Italia l’iter di ratifica avviato da De Gasperi non giungeva a conclusione. Il 19 settembre 1952, il Consiglio dei ministri aveva approvato il disegno di legge da presentare in Parlamento, che veniva depositato alla Camera il 13 dicembre. Nella sua relazione, De Gasperi insisteva nel sottolineare la portata decisiva che la creazione dell’esercito europeo avrebbe avuto nel processo d’integrazione politica dell’Europa. Per abbreviare i tempi della ratifica, poi, il progetto di legge, anziché essere esaminato separatamente dalle tre commissioni interessate – Esteri, Difesa, Tesoro – veniva sottoposto a un’unica commissione speciale, nominata il 5 febbraio 1953. La commissione cominciava i suoi lavori il 12 febbraio e approvava il progetto di ratifica il 5 marzo. Il democristiano Meda, nominato relatore per la discussione in aula, lo depositava alla Camera con una relazione ampiamente favorevole. Quattro giorni più tardi, De Gasperi, già da qualche tempo combattuto all’interno del suo stesso partito, decideva tuttavia di non presentare il progetto. Pesavano su questa decisione le difficoltà interne relative all’approvazione della nuova legge elettorale e le perplessità legate ai protocolli francesi, che si temeva potessero moltiplicarsi vanificando la ratifica; anche la speranza di poter contare, a breve termine, su una maggioranza più solida dovette influire peraltro in maniera non marginale sul rinvio della ratifica.

In realtà l’attore europeo più attento alle esigenze dell’unificazione stava per uscire di scena. La sconfitta elettorale del 7 giugno 1953 e l’instabilità del governo centrista che ne seguì ebbero ripercussioni fortemente negative sulla politica europea dell’Italia, che da quel momento perdeva ogni carattere propulsivo e propositivo. Il governo guidato da Giuseppe Pella, che otteneva la fiducia in agosto, subordinava gli impegni internazionali dell’Italia alla soluzione del problema di Trieste, chiudendo la felice stagione federalista di De Gasperi. Pella non arrivava neanche a presentare in Parlamento il progetto di legge per la ratifica. Nel febbraio del 1954 gli succedeva, dopo un breve tentativo di Amintore Fanfani, Mario Scelba, che presentava alla Camera un nuovo disegno di legge per la ratifica degli accordi CED il 6 aprile. Il dibattito si prolungava per alcuni mesi in seno alle quattro commissioni competenti della Camera: Finanze e Tesoro, Giustizia, Difesa, Esteri. Ottenuti i pareri favorevoli di queste entro la fine di luglio, il processo di ratifica era interrotto prima della discussione in Parlamento dal voto negativo dell’Assemblea nazionale francese.

Dall’atteggiamento francese dipendeva il coronamento o meno dei progetti per l’organizzazione della difesa europea. Il dibattito di politica estera, promosso nel novembre del 1953 dal governo Laniel, si concludeva con l’adozione di un testo assolutamente insignificante: ancora una volta Mouvement républicain populaire (MRP) e gollisti si erano reciprocamente neutralizzati. Il governo francese continuava a interrogarsi sull’opportunità o meno di presentare la CED al Parlamento. Joseph Laniel era deciso a dare battaglia, pur essendo convinto della necessità d’una revisione. I francesi riuscivano a strappare, il 13 aprile, l’assenso britannico a un trattato di associazione tra la Gran Bretagna e la costituenda Comunità di difesa. A fine aprile, il generale Eisenhower confermava e precisava, a sua volta, la garanzia americana. I membri gollisti del governo, tuttavia, ponevano il loro veto. La CED era già morta, secondo Jacques Fauvet, quando, il 13 maggio, la caduta di Dien Bien Phu, la piazzaforte chiave del sistema di difesa in Indocina, scuoteva la Francia. Il governo Laniel cadeva un mese dopo.

Quanti in quel momento si rendevano conto della posta in palio? È certo che la coalizione antieuropea si stava facendo sempre più forte. Essa era composta da tre gruppi distinti e “transnazionali”, particolarmente attivi in Francia. Aspirazioni nazionalistiche operavano in un gruppo di generali francesi – da De Gaulle ad Alphonse Juin – e, più in generale, nelle destre economiche, nei gruppi monopolistici protetti che temevano le conseguenze della politica comunitaria. Scettici verso ogni forma sovrannazionale, infatuati dal destino storico della nazione francese, contrari a mettere in comune l’esercito, cioè il supremo custode dell’indipendenza e della sovranità, i nazionalisti francesi arrivavano a preferire il riarmo nazionale tedesco alla CED. Le spinte che sollecitavano velleità di grandeur in Francia operavano anche in Germania, dove provocavano atteggiamenti d’intransigenza sul problema della Saar, e in Italia, dove riaccendevano le aspirazioni su Trieste.

Il secondo gruppo fortemente e puntigliosamente antieuropeo, forse il più compatto e tenace contro ogni forma di sovrannazionalità, era rappresentato dai comunisti. Essi si nutrivano spesso di argomentazioni pretestuose e contraddittorie – l’appello alla distensione, l’unificazione dell’Europa dall’Atlantico agli Urali, la limitazione degli armamenti, l’unificazione tedesca, la difesa di Trieste, il timore del riarmo della Germania e della sua leadership sull’Europa – che nascondevano i disegni della potenza sovietica. Vi erano, infine, i neutralisti, dai gruppi francesi legati a “Le Monde” e all’“Observateur”, ai socialisti in genere. L’opposizione alla CED era sostenuta a gran voce anche dal Commissariat de l’énergie atomique.

I legami tra questi gruppi erano stretti. Molti pensavano che la tesi della minaccia sovietica fosse, dopo la morte di Stalin, infondata. L’ostilità verso la CED era nutrita anche, in molti ambienti francesi, dal timore di una leadership tedesca in Europa, timore che aveva facile presa soprattutto sugli ambienti politici d’origine ebraica, i quali – da Jules Moch a Daniel Mayer – erano alla testa degli anti CED, qualunque fosse il loro partito d’appartenenza.

Il 18 giugno si costituiva il governo Mendès France; l’MRP non faceva più parte della compagine governativa. Il nuovo primo ministro non nascondeva le preoccupazioni derivanti dal problema della CED, non prometteva alcuna ratifica, ma cercava una soluzione che, attraverso un confronto diretto tra le due tesi, ponesse fine alla controversia sul riarmo tedesco. Per il confronto, che si sarebbe svolto senza successo, erano scelti due membri del governo: Maurice Bourgès-Manoury, radicale, favorevole alla ratifica della CED, e il generale Marie-Pierre Koenig, gollista, contrario. Il 24 giugno, Spaak, a nome anche di Beyen (v. Beyen, Johan-Willem) e di Bech, invitava i Sei, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e il Canada a una Conferenza a Bruxelles, per discutere sulle prospettive dell’entrata in vigore del trattato CED. Mendès France in un primo momento rifiutava sia perché in attesa dei risultati dei colloqui tra Bourgès-Manoury e il generale Koenig sia per l’impegno prioritario indocinese. Gli avvenimenti assumevano un ritmo incalzante e infine precipitavano. Il 21 luglio si concludeva a Ginevra la conferenza sulla questione indocinese con un accordo che sanciva l’indipendenza di Laos e Cambogia e la divisione del Vietnam. L’accettazione dell’accordo da parte dei sovietici era fondata, secondo molti, sull’ipotesi di un veto francese alla CED. Il 4 agosto, gli ambasciatori sovietici comunicavano ai governi di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia una nota per proporre la riunione di una conferenza a quattro entro il mese di agosto o settembre. Due giorni dopo, Mendès France fissava l’inizio del dibattito sulla CED all’Assemblea nazionale per il 28 agosto e, per il 19, l’incontro di Bruxelles con i partner europei.

A Bruxelles si consumava l’ultimo tentativo di salvare l’esercito europeo. Mendès France presentava un progetto in cui venivano elencate nuove richieste da parte francese come condizione alla ratifica della CED. I ministri degli Esteri lo contestavano, dal momento che snaturava il carattere sovrannazionale del Trattato, ma cercavano ugualmente possibili compromessi. Tre giorni di discussioni non sortirono alcun effetto positivo. La Conferenza si rivelò un fallimento.

Non essendo stato raggiunto nessun compromesso, Mendès France presentava il progetto di Trattato della CED all’Assemblea nazionale senza alcuna modifica. Il governo decideva di non porre la questione di fiducia, separando così la propria sorte da quella dell’esercito europeo. Il 30 agosto 1954, l’Assemblea, senza impegnarsi in un approfondito dibattito, respingeva il progetto, su una question préalable presentata dal generale Adolphe Aumeran, con 319 voti a favore, 264 contrari, 12 astenuti. Votavano compattamente contro la CED comunisti e gollisti, si dividevano socialisti e radicali. Queste forze, grottescamente coalizzate, riuscivano, in un contesto storico caratterizzato dal processo di distensione, dai ritrovati orgogli nazionali, dalla ripresa economica, a far fallire il primo tentativo di creare un esercito europeo.

Daniela Preda (2008)

Bibliografia

Aron R., Lerner D. La querelle de la CED, Colin, Paris 1956.

Bertozzi S., La Comunità europea di difesa: profili storici, istituzionali e giuridici, Giappichelli, Torino 2003.

Breccia A., L’Italia e la difesa dell’Europa. Alle origini del Piano Pleven, ISE, Roma 1984.

Clesse A., Le projet de CED du Plan Pleven au crime du 30 août, Nomos, Baden-Baden 1989.

Dumoulin M., La Communauté européenne de défense, leçons pour demain?, PIE, Bruxelles 2000.

Fauvet J., La IVe République, Hachette, Paris 1959.

Moch J., Histoire du réarmement allemand depuis 1950, Robert Laffont, Paris 1965.

Preda D., Storia di una speranza. La battaglia per la CED e la federazione europea, Jaca Book, Milano 1990.

Quagliariello G., La CED, l’ultima spina di De Gasperi, in “Ventunesimo secolo”, III, n. 5, marzo 2004.

Taviani P.E., Solidarietà atlantica e Comunità europea, Le Monnier, Firenze 1954.