Petrilli, Giuseppe

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Nato a Napoli il 24 marzo 1913, P. conseguì la laurea in scienze matematiche e fisiche e in scienze statistiche e attuariali. Ufficiale di complemento di artiglieria, più volte richiamato alle armi, partecipò alla Resistenza e, dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale, si dedicò all’insegnamento universitario a Roma quale professore incaricato di economia e finanza delle imprese di assicurazione.

Democratico cristiano vicino all’ambiente dei cosiddetti “professorini” (Amintore Fanfani, Giuseppe Lazzati, Giorgio La Pira), si orientò, in un primo tempo, verso interessi di politica sociale e, nel 1950, venne nominato Presidente dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro le malattie (INAM).

La svolta europeistica di P. fu determinata nel 1958 dalla sua designazione, da parte del governo Fanfani, a membro della prima Commissione della Comunità economica europea (CEE) (v. anche Commissione europea), con la responsabilità del settore affari sociali. Già in un saggio dell’anno successivo, dal titolo Economia e socialità nella nuova dimensione europea, inserito nella raccolta di scritti e discorsi Il mattino d’Europa, pubblicata nel 1980, egli affermava di ravvisare nel federalismo europeo la proiezione internazionale della sua visione solidaristica.

Quando nell’ottobre del 1960, a seguito della morte di Aldo Fascetti, Fanfani lo richiamò in Italia per assumervi la presidenza dell’IRI (incarico che avrebbe ricoperto fino al gennaio 1979), P. era ormai guadagnato alla causa del Federalismo, non solo per la consapevolezza dell’insufficienza della dimensione nazionale rispetto alle esigenze del progresso tecnologico ed economico e per l’affermarsi di un equilibrio mondiale fondato sulla prevalenza di grandi Stati federali multinazionali, ma soprattutto avendo chiara la necessità di una revisione storica dello stesso concetto di sovranità nazionale, direttamente implicato nella tragica involuzione autoritaria vissuta dai paesi europei con l’esperienza del nazifascismo.

Occorreva, secondo P., dare un senso reale agli istituti democratici, colmando il vuoto di partecipazione che era venuto a determinarsi nella vita dello Stato e restituendo quest’ultimo alla sua funzione di strumento della civile convivenza. Di qui la stretta interdipendenza tra lo sviluppo dell’autogoverno a tutti i livelli e l’instaurazione di un ordine internazionale più equo attraverso l’avvio di un processo federatore, al fine di realizzare le esigenze complementari della massima autonomia e del maggior livello possibile di coordinamento.

Il 21 maggio 1964 P. assunse la presidenza del Consiglio italiano del Movimento europeo (CIME), dandogli nuovo slancio grazie anche all’impegno del suo stretto collaboratore all’IRI Carlo Ernesto Meriano, convinto federalista, e del segretario generale Angelo Lotti. P. si attivò per superare la frattura prodottasi in Italia nel fronte europeista, dopo la caduta della Comunità europea di difesa (CED), con il “nuovo corso” spinelliano (v. Spinelli Altiero) improntato a una critica radicale al Funzionalismo dei partiti e dei governi nazionali. Il riavvicinamento fu coronato, ad appena due anni dalla sua elezione alla presidenza, dall’adesione al CIME del Movimento federalista europeo (MFE) di Mario Albertini.

Tale fase coincise con le tensioni prodotte dalla politica del generale Charles de Gaulle, di cui P. contrastò fortemente la visione confederalista, dando il proprio esplicito e concreto sostegno al progetto per le Elezioni dirette del Parlamento europeo, intesa come tappa intermedia per giungere all’avvio di un processo costituente. Egli, infatti, si era convinto che il passaggio dall’integrazione economica alla federazione implicasse un salto qualitativo e un’azione politica specifica e su questo terreno trovò una solida intesa con i federalisti, i quali, a loro volta, avevano rivisto il loro giudizio di radicale sfiducia rispetto alla possibile evoluzione delle Istituzioni comunitarie.

A partire dalla fine degli anni Sessanta, P., pur riconoscendo la matrice comune dell’atlantismo e dell’europeismo, in riferimento soprattutto alla fase di avvio del processo di integrazione del vecchio continente (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), constatò, in maniera sempre più accentuata, il manifestarsi di una crescente divaricazione di interessi economici tra le due rive dell’Atlantico, in particolare in campo commerciale e monetario. La stessa crisi dell’assetto bipolare del mondo tendeva a incrinare le basi della solidarietà tra i paesi democratici dell’Occidente, con il rischio che gli europei, a causa della loro divisione, instaurassero rapporti strutturalmente squilibrati con il grande alleato d’oltreoceano.

Da qui l’ostilità più volte manifestata da P. al disegno di Henry Alfred Kissinger, tendente a dissolvere l’integrazione europea in una più generale liberalizzazione degli scambi e in una generica cooperazione tra i paesi industrializzati a economia di mercato, nel quadro di istituzioni comuni a carattere intergovernativo (v. anche Cooperazione intergovernativa), con l’obiettivo ultimo di attribuire a Washington una sorta di rappresentanza permanente degli interessi di questo gruppo di Stati, i quali, a parere di Kissinger, a differenza degli USA, non avevano una loro specifica vocazione mondiale, ma solo regionale. Tale strategia statunitense – secondo P. – non poteva non mettere in discussione lo stesso processo di integrazione in atto nell’ambito comunitario, presentandosi essa, in termini sostanziali se non formali, come un’alternativa nei suoi confronti.

In realtà – secondo P. – scopo dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), fin dalle sue origini, era stato non solo quello di fronteggiare una minaccia esterna, ma di costruire un nuovo ordine internazionale, fondato sulla difesa attiva dei Diritti dell’uomo e delle istituzioni democratiche. Essa non poteva pertanto ridursi a essere una vasta zona di libero scambio, integrata da una cooperazione militare, perché avrebbe in tal modo tradito la propria ispirazione originaria.

Nella visione di P. il rapporto dialettico, e talvolta polemico, tra europeismo e atlantismo non stava a indicare un’alternativa. La costituzione di un partner europeo, sempre più autonomo, nettamente strutturato da un punto di vista istituzionale e capace di assumersi delle responsabilità nei campi della politica estera e della sicurezza, era considerata però la premessa per un rilancio della solidarietà tra le due sponde dell’Atlantico, nello spirito della equal partnership teorizzata dal presidente John F. Kennedy. Il rafforzamento politico delle istituzioni comunitarie era quindi importante sia per la sicurezza comune dell’Alleanza che per l’indipendenza dell’Europa.

Il passaggio dal rigido bipolarismo degli anni della Guerra fredda a uno scenario internazionale tendenzialmente multipolare non aveva, del resto, disinnescato le tensioni, non essendo associato all’emergere di nuovi punti di coagulo e di integrazione dotati di autorità sufficiente per promuovere e garantire nuovi equilibri. Si era anzi accentuato il rischio di ripercussioni proprio all’interno della stessa area europeo-occidentale, non ancora unificata politicamente, con il ritorno all’anacronistica politica di equilibrio fra gli Stati.

P., nominato consigliere delegato del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, nel 1978 assunse anche la carica di segretario generale dell’Unione europea democratico-cristiana (UEDC) e, l’anno successivo, venne eletto senatore (incarico che avrebbe mantenuto fino al 1987), presiedendo la giunta per gli Affari europei di Palazzo Madama ed entrando, in qualità di vicepresidente, all’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa.

Nel gennaio 1981 P. assunse, inoltre, la presidenza internazionale del Movimento europeo (ME), che avrebbe lasciato nel maggio del 1985, appena un mese prima di dimettersi anche dalla massima carica del Consiglio nazionale italiano. Come già era avvenuto nel CIME, nel corso del suo mandato P. diede un marcato indirizzo federalista alla linea tradizionalmente moderata del Movimento, impegnandosi fortemente a sostegno del progetto di trattato costituzionale approvato dal Parlamento europeo il 14 febbraio 1984 su iniziativa di Altiero Spinelli.

P., il quale tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta aveva lamentato un ritorno delle superpotenze a un clima di sospetti e di accuse reciproche che ricordavano i peggiori anni della Guerra fredda, vide nel crollo dei regimi comunisti all’Est e nella dissoluzione del blocco sovietico la prospettiva di un nuovo assetto mondiale fondato sulla pace. Egli, tuttavia, osservava con preoccupazione il mancato salto di qualità delle istituzioni comunitarie, l’assenza di una visione globale, il ricorso a soluzioni frammentate e parziali, il richiamo a quello che definiva un «europeismo di superficie». Nel nuovo contesto internazionale, al contrario, l’Europa era chiamata a svolgere un ruolo positivo e determinante, di forte sostegno ai paesi ex comunisti nel loro processo di passaggio alla democrazia e all’economia di mercato, ma per conseguire ciò occorreva far precedere all’Allargamento alle nuovo democrazie dell’Est un rafforzamento del carattere sovranazionale della Comunità.

P., acuto osservatore dello scenario internazionale, era egualmente attento e preoccupato del ruolo dell’Europa nei confronti del Terzo mondo. In un’ottica federalista, infatti, anche il declino della cooperazione multilaterale nell’ambito delle Nazioni Unite e il prevalente orientamento dei rapporti fra paesi industrializzati e paesi in via di sviluppo verso canali bilaterali, facilmente suscettibili di ipoteche politiche, erano visti con evidente preoccupazione, come fenomeni che in definitiva tendevano ad accrescere i fattori di instabilità dell’equilibrio mondiale.

Per la sua natura di economia trasformatrice, strutturalmente aperta agli scambi mondiali, la Comunità era chiamata a porsi come partner privilegiato dei paesi in via di sviluppo, fondando sull’autonomia dei propri strumenti monetari una politica commerciale e di cooperazione alternativa e operando concretamente per una crescita paritaria nell’interdipendenza fra il nord e il sud del pianeta.

P. mantenne vivo fino alla sua scomparsa, avvenuta il 9 maggio 1999, l’interesse per le tematiche europee, confermando di essere un uomo assolutamente libero intellettualmente e attento ai nuovi fenomeni sociali e politici, come già aveva dimostrato dinnanzi a questioni quali la contestazione giovanile e le problematiche ecologiche. Ai suoi occhi il federalismo consentiva, sia come ideologia che come tecnica istituzionale, di dare una risposta ai grandi problemi dell’umanità, delineando il passaggio dal governo democratico di un solo paese al governo democratico di una società di nazioni fra loro indipendenti, ma, nel contempo, coordinate. Nella consapevolezza di dover affrontare un’impresa ardua e di lungo periodo, si poteva cominciare dall’Europa per puntare poi al traguardo mondiale.

Paolo Caraffini (2010)

Bibliografia

Albertini M., Chiti-Batelli A., Petrilli G., Storia del federalismo europeo, a cura di Edmondo Paolini, ERI, Torino 1973.

Meriano C.E., Giuseppe Petrilli europeo, in I movimenti per l’unità europea 1970-1986 A. Landuyt, D. Preda (a cura di), 2 voll., il Mulino, Bologna 2000.

Petrilli G., La politica estera ed europea di De Gasperi, Edizioni Cinque Lune, Roma 1975.

Petrilli G., Il mattino d’Europa. Scritti e discorsi 1959-1979, Franco Angeli, Milano 1980.

Petrilli G., Europa necessaria e possibile, Lacaita Editore, Manduria 1986.