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Politica fiscale nell’Unione europea

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Definizione e strumenti

Nell’approccio tradizionale keynesiano la politica fiscale rappresenta, insieme alla politica monetaria, lo strumento in mano alle autorità pubbliche per stabilizzare le fluttuazioni del reddito e dell’occupazione durante il ciclo economico. In particolare, la politica fiscale agisce attraverso interventi sulla spesa pubblica e sul sistema impositivo, con la finalità di rallentare il trend congiunturale nelle fasi di piena crescita o di sostenerlo durante quelle di rallentamento.

Caratteristica essenziale della politica fiscale è quella di avere importanti interrelazioni con il bilancio pubblico: la modificazione della dimensione delle spese e/o delle entrate di un governo incidono sul saldo di bilancio e pongono un problema di finanziamento intertemporale. Se, infatti, durante una fase di rallentamento, il governo decide di incrementare le spese pubbliche e di finanziarle attraverso l’indebitamento, ciò necessariamente si tradurrà nell’esigenza di aumentare le tasse future per ripagare il proprio debito. Si può quindi ritenere che attraverso la politica fiscale l’autorità di governo svolga un ruolo di banca nei confronti dei propri cittadini (v. Baldwin, Wyplosz, 2005), prestando risorse durante le fasi meno favorevoli e chiedendo loro di rimborsarle nei periodi successivi. Ciò spiega perché l’intervento pubblico in questo campo acquisisca un ruolo importante: è difficile infatti pensare che le singole famiglie e imprese possano avere eguale accesso al credito, soprattutto durante i rallentamenti economici, visto che il loro grado di rischiosità aumenta e le banche private diventano più prudenti. Lo Stato, assumendo il ruolo di finanziatore e impegnandosi a restituire le somme, permette di condividere il rischio e di ottenere condizioni di prestito più favorevoli.

Nel considerare i rapporti tra politica fiscale e bilancio va evidenziato come i meccanismi di funzionamento di quest’ultimo tendano a determinare automaticamente un effetto anticiclico e a contribuire alla funzione di stabilizzazione. Quando infatti l’economia è in flessione, i redditi individuali e i profitti delle imprese diminuiscono, così come le entrate fiscali a essi collegate (imposte sul reddito, imposte sui profitti, imposte sul valore aggiunto); allo stesso tempo alcune voci di spesa come le indennità di disoccupazione e altre forme di sussidi tendono ad aumentare. Ciò porta automaticamente, ovvero senza che l’autorità pubblica modifichi le proprie scelte discrezionali in tema di tassazione o di politiche sociali, a peggiorare il saldo di bilancio e ad avere un effetto di sostegno alla domanda, in direzione anticiclica. Un risultato opposto si ha durante le fasi espansive e di crescita accelerata. In generale, si può quindi affermare che la presenza di un bilancio pubblico tende a smussare gli andamenti congiunturali: contenendo l’incremento della domanda in periodi espansivi e mitigandone la riduzione in periodi negativi. Questi meccanismi sono chiamati stabilizzatori automatici di bilancio e la loro efficacia dipende in maniera diretta dalle dimensioni del settore pubblico e dalle caratteristiche qualitative delle entrate e delle spese. Per quanto riguarda le prime, mentre vi sono imposte che reagiscono in maniera ridotta all’andamento del Prodotto interno lordo (PIL) ed esercitano un effetto stabilizzante contenuto (ad esempio l’imposta sugli immobili non segue necessariamente l’andamento ciclico dell’economia, perché il valore delle case è abbastanza stabile e dipende da molti altri fattori), ve ne sono altre fortemente collegate a esso (soprattutto quelle che vanno a incidere sul reddito, sia personale che d’impresa; in maniera particolare quelle a carattere progressivo), che possono rendere più accentuati gli effetti di stabilizzazione. Dal punto di vista delle spese, quanto più generosi sono i sistemi di sicurezza sociale in fasi di recessione, tanto maggiori risulteranno gli effetti di stabilizzazione automatica.

Oltre all’azione degli stabilizzatori automatici, la politica fiscale ha anche la possibilità di intervenire in maniera discrezionale, ovvero attraverso decisioni esplicite che cambino il sistema tributario (ad esempio modificando le aliquote) o la spesa pubblica al fine di smussare l’andamento del ciclo economico. La valutazione della coerenza della politica fiscale discrezionale rispetto all’andamento congiunturale non è facile e rende necessario fare riferimento a un concetto particolare: il saldo di bilancio aggiustato. Tale saldo tende a depurare i dati di bilancio dall’andamento del ciclo economico e dagli effetti degli stabilizzatori automatici: come già evidenziato, infatti, l’andamento congiunturale influenza in maniera automatica sia le entrate che le spese, portando a migliorare il saldo effettivo nei periodi di crescita e a peggiorarlo in quelli di flessione, indipendentemente dalle scelte discrezionali delle autorità pubbliche. Il saldo aggiustato per il ciclo rappresenta una stima di quello che sarebbe il saldo in un dato anno se l’andamento della produzione (PIL) fosse quello normale (altresì detto potenziale). Il saldo effettivo risulta di conseguenza peggiore di quello aggiustato per il ciclo quando la produzione è inferiore a quella potenziale, ovvero quando vi è un divario di produzione (output gap) negativo, e il contrario quando il divario di produzione è positivo. La scelta del valore normale su cui calcolare tali divari è generalmente basata sul trend medio sperimentato in un certo periodo antecedente a quello in cui viene calcolato il saldo.

L’aggiustamento dei dati di bilancio rispetto agli effetti del ciclo economico risulta essere particolarmente importante per valutare la dinamica dei saldi e la loro coerenza con il ruolo della politica fiscale. Nell’approccio keynesiano, infatti, la conduzione di una politica espansiva discrezionale a fini di stabilizzazione, segnalata da un aumento del disavanzo, dovrebbe caratterizzare i periodi di flessione, mentre una di tipo restrittivo, con miglioramento dei saldi, dovrebbe caratterizzare i periodi di crescita economica. Affinché queste indicazioni risultino corrette è necessario però che i dati siano depurati dagli effetti dell’andamento congiunturale: in assenza di ciò, infatti, un miglioramento del saldo dovuto a una forte crescita economica potrebbe nascondere una politica discrezionale espansiva e quindi pro ciclica. In altri termini, una gestione della politica di bilancio coerente con la finalità di stabilizzazione dovrebbe essere caratterizzata da un saldo strutturale costante, indipendentemente dall’andamento del ciclo e dell’output gap, nel caso in cui si lascino funzionare solo gli stabilizzatori automatici e vi sia assenza di politiche discrezionali, e da un saldo strutturale correlato positivamente con la componente ciclica se il governo persegue una politica discrezionale.

La principale giustificazione di un intervento di tipo discrezionale è legata all’insufficienza degli stabilizzatori automatici quando l’ampiezza delle fluttuazioni cicliche risulti particolarmente accentuata. Diversi studi empirici (v. Buti, Sapir, 1999) evidenziano infatti che la capacità degli stabilizzatori automatici di riassorbire shock congiunturali è parziale e può arrivare al massimo a un quarto o un terzo delle fluttuazioni. Affidarsi esclusivamente a essi significa, in altri termini, accettare in partenza la prospettiva di smussare parzialmente le oscillazioni, ma non perseguire la loro completa correzione.

Di contro, altri contributi analitici hanno messo in luce importanti aspetti critici relativi alla capacità di una politica fiscale discrezionale di stabilizzare il ciclo economico.

Il primo di questi elementi riguarda la tempestività dell’intervento (il cosiddetto fine tuning). Un’azione adeguata di stabilizzazione, infatti, dovrebbe essere in grado di muoversi nel momento iniziale della flessione congiunturale, sostenendo la domanda in modo da mantenere il livello dell’occupazione in prossimità di quello d’equilibrio, senza generare pressioni inflazionistiche. Ciò implica tuttavia la capacità di individuare immediatamente e con certezza tale ripiegamento congiunturale e, in modo funzionale a ciò, di avere a disposizione in tempi stretti i dati sulle variabili chiave che possano essere segnale dell’inizio della fase recessiva: livello delle vendite, livello d’utilizzo dell’energia, livello degli occupati, ordinativi. Il ritardo con cui molte di queste statistiche si rendono disponibili fa sì che il segnale certo della caduta della domanda possa emergere ben dopo il suo concreto manifestarsi. Inoltre, l’azione può essere ulteriormente ritardata dalla successiva fase decisionale, in ambito politico, che deve definire quale mix di strumenti ed interventi mettere in atto al fine della stabilizzazione: scelta tra aumento di spesa e riduzione delle imposte, scelta della collocazione settoriale degli interventi, scelta della collocazione spaziale degli interventi. Ogni opportunità sarà collegata a interessi diversi e riceverà il sostegno di particolari rappresentanze politiche e gruppi di pressione, rendendo necessario il raggiungimento di un accordo complessivo, con il rischio concreto che tale processo di “mercanteggiamento” porti ad assumere la decisione dopo un certo lasso di tempo. Va infine evidenziato come, una volta assunta la decisione, sia verosimile che la sua realizzazione non possa essere immediata: nel caso delle principali tipologie di investimenti pubblici (ad esempio, un’autostrada, un ponte, un polo tecnologico, un interporto, ecc.) il processo richiede infatti la preparazione di un progetto, l’effettuazione di una gara, l’assegnazione della gara stessa (con tutti i problemi legati ai ricorsi) e i tempi tecnici di realizzazione. Il rischio complessivo derivante da questo insieme di considerazioni è che l’intervento avvenga nella fase di assorbimento del ciclo, andando ad aggiungere domanda ad una fase già di crescita e promuovendo un amplificarsi delle fluttuazioni cicliche e delle tensioni inflazionistiche. In altri termini, lo sfasamento temporale dei meccanismi pubblici di decisione può essere causa di un’amplificazione dei fenomeni ciclici e non di una loro correzione.

Il secondo elemento di critica legato alla politica fiscale discrezionale, riconducibile a contributi teorici con una visione sostanzialmente negativa dell’intervento pubblico, mette in evidenza il rischio che l’azione discrezionale da parte delle autorità politiche, viste come normali agenti economici atti a massimizzare proprie funzioni obiettivo non coincidenti con quelle dell’ottimo collettivo, possano portare a scelte ed effetti incoerenti e controproducenti rispetto alle esigenze di stabilizzazione anticiclica (teoria del Leviatano, teoria del ciclo elettorale, teoria dei governi di coalizione).

L’emergere di questi aspetti negativi ha sviluppato in una parte dell’analisi economica la convinzione di dover basare la politica di stabilizzazione maggiormente su meccanismi di correzione automatica del ciclo, senza fare troppo affidamento a interventi discrezionali: rispetto ai problemi di fine tuning e alle distorsioni politiche precedentemente considerati, l’affidamento a regole e meccanismi automatici riduce infatti il rischio di ritardi e, congiuntamente, quello di vedere l’intervento pubblico piegato a finalità diverse da quelle dell’interesse generale.

La politica fiscale in un’unione monetaria

In un’unione monetaria gli Stati nazionali hanno a disposizione una gamma di strumenti ridotta per influenzare l’andamento del ciclo economico. Comunemente, infatti, essi perdono il controllo di alcune variabili chiave quali l’offerta di moneta, il livello dei tassi d’interesse e quello dei tassi di cambio, che diventano prerogative delle istituzioni sopranazionali. La politica fiscale, ovvero la manovra di bilancio in chiave anticiclica, acquisisce in questo quadro un ruolo essenziale per poter influire sull’andamento del ciclo macroeconomico interno, soprattutto nel caso di shock asimmetrici.

Nel caso infatti si verifichino fluttuazioni del PIL simmetriche fra i membri di un’unione monetaria (ovvero andamenti del ciclo economico nella stessa direzione e di dimensioni simili), la politica monetaria può essere lo strumento più adatto a scopo di stabilizzazione. La Banca centrale può infatti abbassare o alzare il tasso d’interesse (ed eventualmente il tasso di cambio con l’esterno della moneta comune), stimolando o raffreddando la domanda in maniera analoga in tutto il sistema. La situazione non si discosta quindi molto da quella precedente all’unificazione monetaria, se non per il fatto che le decisioni sono avocate a livello superiore. Quando si verificano viceversa shock asimmetrici, ovvero concentrati in uno o in un gruppo ristretto di paesi, la Banca centrale ha le mani legate, perché non è in grado di fornire una risposta alle diverse situazioni che si presentano. In altri termini, essa dispone di un unico strumento, il tasso di interesse, per far fronte a esigenze divergenti. In questo caso, soprattutto se non operano in maniera sufficiente i meccanismi automatici di riequilibrio previsti dalla teoria delle aree monetarie ottimali (v. sotto), dovrebbero essere le politiche fiscali nazionali a garantire la necessaria flessibilità rispetto alle diverse situazioni congiunturali e a rendere possibile il recupero per le aree in difficoltà.

La teoria delle aree monetarie ottimali. La teoria delle aree monetarie ottimali (AMO), proposta nella formulazione originaria da Robert Mundell nel 1961, prende in considerazione le condizioni che devono essere verificate affinché la nascita di un’Unione monetaria e la perdita dello strumento del tasso di cambio da parte dei paesi membri siano sostenibili e non provochino impatti negativi sugli Stati partecipanti, tali da pregiudicarne l’accettabilità e la continuità nel tempo. La teoria delle AMO indica gli shock asimmetrici come la principale fonte di costi e di problematiche in un’unione monetaria e identifica tre meccanismi di riequilibrio automatico che possono favorire il riassorbimento di flessioni della domanda in uno Stato e che vanno a identificare un’“area monetaria ottimale”. Il primo è quello della flessibilità salariale, che può aiutare il riassorbimento dell’eccesso di offerta nel paese soggetto a domanda debole, riducendo i costi di produzione e incrementando anche la competitività della produzione interna. È necessario quindi che la variabile salariale segua da vicino l’andamento occupazionale e non sia caratterizzata da rigidità e vischiosità che impediscano adeguamenti durante i periodi di squilibrio tra domanda e offerta. Perché il meccanismo operi è necessario inoltre che le economie siano integrate, flessibili e con mercati concorrenziali, in modo che la modificazione dei costi di produzione si traduca effettivamente in variazioni dei prezzi e in un recupero della competitività interna rispetto alle economie degli altri paesi. Il secondo meccanismo è quello della mobilità dei lavoratori dal paese con eccesso di offerta a quello con pressioni inflazionistiche, che può contribuire a riequilibrare automaticamente la situazione per quanto riguarda il mercato del lavoro, senza rendere necessari aggiustamenti delle remunerazioni dei fattori. Il terzo meccanismo, infine, è dato dalla presenza di un bilancio sopranazionale di dimensioni significative che permetta di mettere in atto automaticamente schemi redistributivi a favore delle aree in difficoltà e di attutire gli shock negativi. Ciò può avvenire sia dal lato delle entrate (con la riduzione dei contributi al bilancio da parte dello Stato o regione che cresce meno), che da quello delle spese (con l’incremento di certe forme d’intervento, come ad esempio i sussidi alla disoccupazione o alle imprese, verso le regioni o gli Stati in difficoltà).

In sostanza il messaggio complessivo che emerge dalla Teoria delle AMO può essere sintetizzato nei seguenti punti: il successo di un’Unione monetaria può essere in primo luogo legato alla partecipazione di Stati con strutture economiche (strutture commerciali, specializzazioni produttive, comportamenti delle autorità pubbliche, mercati dei fattori) abbastanza simili, che rendano poco probabili e ampi i fenomeni di andamento congiunturale differenziato; qualora gli elementi di divergenza sussistano, la flessibilità del mercato dei fattori, sia in termini di remunerazioni che in termini di mobilità, e la presenza di un bilancio sopranazionale di ampie dimensioni possono svolgere un’importante funzione di aggiustamento automatico; qualora tali meccanismi automatici non siano sufficienti, è importante che le politiche pubbliche nazionali abbiano la possibilità di intervenire, correggendo gli andamenti più deboli; se anche le politiche nazionali sono vincolate, emerge l’indicazione per l’assunzione di un ruolo d’intervento e aggiustamento da parte dell’autorità soprannazionale.

Il principale problema legato al mantenimento della responsabilità delle politiche fiscali a livello nazionale è dovuto al fatto che l’intervento in un paese può determinare effetti importanti (esternalità) anche in altri Stati, in termini ad esempio di investimenti, di consumi, di inflazione, di costi d’indebitamento, ecc. Se ogni decisione di politica fiscale viene presa unilateralmente senza tener conto di questi effetti esterni (positivi o negativi), vi è il rischio che il risultato complessivo sia inefficiente e che i vantaggi stessi dell’integrazione vengano messi in pericolo. Nel contesto di un’unione monetaria, ove le interdipendenze tra paesi sono accentuate, ma dove la politica fiscale può rimanere una prerogativa nazionale, diventa quindi importante valutare l’opportunità di mettere in atto forme di disciplina reciproca, da un lato, e di coordinamento delle azioni di stabilizzazione, dall’altro, affinché il risultato complessivo massimizzi i benefici per tutti i partecipanti.

Integrazione monetaria e vincoli di finanza pubblica. Il primo problema da considerare riguarda la necessità o meno di adottare per i partecipanti a un’unione monetaria norme sopranazionali vincolanti in materia di disavanzo pubblico al fine di garantire che il comportamento poco virtuoso di qualche governo non vada ad avere conseguenze negative sugli altri membri.

Secondo una certa impostazione analitica, norme rigide in tema di disciplina fiscale non sono ritenute né necessarie, né auspicabili. Dal primo punto di vista, si ritiene che le pressioni del mercato e la sorveglianza multilaterale siano sufficienti per incentivare comportamenti virtuosi da parte dei diversi governi nazionali, impedendo ai deficit di divenire insostenibili; sotto certe condizioni (parità di accesso degli Stati alle fonti di finanziamento, informazione adeguata dei mercati sul loro grado di solvibilità, divieto di salvataggio nei casi di dissesto e adeguata reattività agli impulsi del mercato). Il mercato sarebbe quindi in grado di stabilire differenziali di rendimento sui titoli del debito coerenti con la valutazione della solvibilità degli Stati e di spingere le autorità nazionali a non accrescere eccessivamente la dimensione dell’indebitamento. Dal secondo punto di vista si sostiene che tali regole andrebbero a infrangere il Principio di sussidiarietà e potrebbero condurre a un acuirsi delle contrapposizioni politiche tra Stati e tra gli Stati e il sistema di governo sopranazionale, visto anche che, non esistendo più lo strumento del tasso di cambio e non risultando i bilanci pubblici centralizzati, l’unico strumento a disposizione dei governi con cui fronteggiare shock asimmetrici risulta il bilancio nazionale.

In contrasto con il precedente approccio vi è l’idea per cui i meccanismi di mercato non siano sufficienti a garantire la disciplina e a prevenire i pericoli di instabilità e irresponsabilità. In generale, infatti, il singolo Stato è incentivato a trarre beneficio dalle positive condizioni derivanti dall’autodisciplina esercitata dagli altri Stati senza tuttavia contribuire a realizzarle (un tipico caso del cosiddetto free riding). Il rischio che la politica fiscale condotta da uno Stato vada a generare effetti esterni negativi sugli altri spiega quindi l’adozione di vincoli al fine di “legarsi le mani”. In particolare, si evidenzia come tali esternalità negative possano derivare sia dalla formazione di elevati disavanzi di bilancio che dall’accumularsi di uno stock sempre maggiore di debito.

Sotto il primo aspetto, un ampio deficit pubblico in un singolo paese può determinare una spinta al rialzo sui tassi dell’intero mercato dei capitali, andando a incrementare l’onere sul debito anche degli altri paesi e a estendere l’effetto di spiazzamento sugli investimenti privati. Tale effetto tende a essere tanto più ampio quanto maggiore è la rilevanza economica relativa del paese in questione e la sua incidenza sul mercato finanziario comune.

Dall’altro lato, un debito pubblico elevato e in crescita può costituire un elemento di pressione sia sulle dinamiche inflazionistiche sia sui tassi d’interesse. Se lo stock di debito di un paese si avvia su di un percorso di insostenibilità, che mette in discussione la solvibilità del governo, si potrebbero infatti determinare pressioni per varie forme di soccorso (bail out) da parte della Banca centrale, sia ex post, con una monetizzazione del debito (attraverso, ad esempio, l’acquisto dei titoli di stato del paese in crisi), sia ex ante, tramite il mantenimento di tassi più bassi di quelli necessari per far fronte all’obiettivo primario della stabilità dei prezzi, al fine di allentare la pressione sul debito del paese in difficoltà. In entrambi i casi ciò tenderebbe ad alimentare le spinte inflazionistiche, coinvolgendo anche gli altri paesi dell’area monetaria. L’introduzione di regole di finanza pubblica può essere letta in quest’ottica come uno strumento che va a rafforzare l’indipendenza e la reputazione antinflazionistica dell’autorità monetaria centrale.

Inoltre, in presenza di mercati dei capitali non perfettamente trasparenti e razionali, la valutazione della posizione debitoria del singolo Stato potrebbe non essere in grado di differenziare in maniera corretta i premi di rischio in termini di maggiori o minori tassi d’interesse. La presenza di un paese ad alto debito si tradurrebbe in questo caso in un aumento dei tassi per l’intera area monetaria, generando effetti negativi anche per gli altri paesi.

Nel complesso, l’insieme di queste esternalità può giustificare che vengano posti limiti alle politiche fiscali nazionali, e questi limiti possono acquisire diverse caratteristiche, da più morbide forme di vigilanza e pressione reciproca, fino a vincoli quantitativi obbligatori su deficit e debito.

Le esigenze di coordinamento della politica fiscale. Accanto alle descritte esigenze di disciplina reciproca, la teoria del federalismo fiscale (v. Oates, 1999) evidenzia motivi importanti affinché in un sistema multilivello il governo centrale acquisisca un ruolo nella gestione attiva della politica di stabilizzazione. In quest’ottica, si può dire che ci sono buone ragioni affinché disciplina e coordinamento delle politiche fiscali siano attuate congiuntamente.

La giustificazione del coordinamento delle politiche d’intervento nazionali è legata in primo luogo al maggior grado di apertura e alla maggiore propensione alle importazioni che caratterizzano i livelli di governo inferiori rispetto a quelli di livello superiore. In un contesto di unificazione monetaria tra Stati nazionali, ciò significa che una politica fiscale condotta dai singoli governi tende a generare una quota consistente dei benefici in termini di maggior reddito e occupazione al di fuori del sistema economico nazionale in cui sono raccolte (o saranno raccolte) le risorse necessarie per finanziare la politica espansiva. Essendo questi effetti di traboccamento interpretabili come esternalità positive, si determinerebbe il concreto rischio che le politiche di stabilizzazione finanziate esclusivamente a livello nazionale siano realizzate ad un livello subottimale. Un rischio che tende ad accentuarsi con il consolidarsi del processo d’integrazione dei mercati, che accresce la quota degli scambi commerciali tra i paesi interni all’Unione e riduce la tendenza a importare da paesi terzi.

Inoltre, con il mantenimento di un’ampia autonomia nelle decisioni di spesa e di entrata, aumenta la possibilità di asincronia e incoerenza delle politiche di stabilizzazione, in quanto un paese può attuare una politica espansiva mentre un altro paese ne mette in atto una restrittiva, con l’effetto di annullare parzialmente gli effetti e di disperdere le risorse utilizzate. Parimenti, se tutti i paesi mettono in atto un intervento espansivo contemporaneamente, senza tener conto delle esternalità reciproche, l’effetto di stabilizzazione sarà eccessivo e maggiore di quanto necessario.

Infine, l’azione di stabilizzazione a livello nazionale tende a essere limitata dalla mobilità delle basi fiscali, che può portare a una progressiva riduzione delle aliquote d’imposta che gravano sui fattori più mobili e alla conseguente difficoltà di finanziare a livello decentrato gli interventi ritenuti necessari.

Il coinvolgimento del livello sopranazionale può acquisire forme e gradi di approfondimento diversi (v. Majocchi, 2002). In un primo modello, si può arrivare a un’azione comune decisa direttamente dalle istituzioni centrali e finanziata attraverso il loro bilancio. In questo caso si tratterebbe di una forma di coinvolgimento molto forte, in cui le realtà nazionali accettano di devolvere una quota significativa della propria sovranità al livello centrale.

Una seconda opzione può prevedere un modello in cui gli Stati nazionali mantengono la responsabilità delle decisioni di spesa e di entrata, ma vengono messi in atto importanti interventi di armonizzazione e coordinamento da parte delle istituzioni centrali. L’armonizzazione della tassazione, il riavvicinamento delle politiche sociali, la sincronizzazione delle politiche di bilancio costituiscono elementi distintivi di uno schema di questo tipo.

In un terzo modello, il meccanismo di coordinamento può implicare più semplicemente una forma di sorveglianza multilaterale delle politiche fiscali nazionali, evitando comunque di imporre vincoli cogenti all’esercizio della sovranità nazionale e di richiedere un incremento delle risorse finanziarie gestite dal bilancio sopranazionale. È un modello che si basa in prevalenza su di un sistema di persuasione morale, in cui il rispetto degli obiettivi e delle azioni definite in modo congiunto è lasciato a meccanismi di tipo reputazionale, ma in cui non è garantito un risultato finale diverso da quello ottenuto in un sistema senza coordinamento.

Le indicazioni a favore dell’intervento centrale nella politica fiscale non sono però univoche, e alcune argomentazioni più critiche possono essere sinteticamente ricordate.

Un primo elemento riguarda la presenza di preferenze e di opinioni eterogenee sull’efficacia dello strumento, che possono rendere difficile l’adozione di strategie comuni. Ciò può riguardare in particolare la presenza di realtà nazionali ove prevalgano approcci maggiormente inclini all’intervento pubblico e altre maggiormente scettiche (ad esempio, approccio keynesiano versus approccio monetarista) o la mancanza di valutazioni quantitative univoche riguardo alle relazioni esistenti tra gli obiettivi da raggiungere e le politiche da adottare.

Un secondo elemento ostativo può essere rappresentato dall’assenza di sistemi di compensazione: il coordinamento, soprattutto nel breve periodo, può avvantaggiare infatti alcuni paesi e penalizzarne altri, e ciò può essere politicamente inaccettabile in assenza di meccanismi compensativi (forme di cofinanziamento delle spese, adozione di altre misure a vantaggio dei paesi penalizzati). In un contesto integrato, nel medio-lungo periodo vantaggi e svantaggi dovrebbero tendere a compensarsi, ma in assenza di una prospettiva istituzionale stabile e duratura è possibile che il gioco cooperativo non abbia luogo.

Va inoltre tenuto in considerazione che la necessità delle autorità di governo di rispondere all’elettorato e ai gruppi di pressione nazionali può portare a resistenze riguardo all’adozione di scelte comuni, visto che è altamente improbabile che tutti gli elettori dei diversi paesi votino per l’adozione delle stesse politiche e nello stesso momento. Da questo punto di vista, la decisione se e come utilizzare la politica fiscale in una specifica fase ciclica rientra all’interno di un complesso meccanismo decisionale che rende le singole politiche nazionali fortemente idiosincratiche (v. Baldwin, Wyplosz, 2005).

Un quarto aspetto problematico riguarda i costi di transazione: i negoziati per raggiungere l’accordo sulle modalità e le scelte inerenti il coordinamento delle politiche (quali obiettivi prediligere, quali indicatori di riferimento adottare, quali azioni prediligere, ove concentrare gli interventi, ecc.) possono risultare complessi e lunghi, con costi decisionali notevoli; tali costi tendono a crescere quanto più numerosi sono gli attori in gioco. Sotto questo punto di vista i tempi politici delle decisioni da adottare possono non essere del tutto coerenti con quelli necessari per gli interventi di stabilizzazione e di governo del sistema economico.

Resta infine da richiamare come l’attitudine degli Stati a mettere in atto politiche comuni in campo fiscale possa essere frenata dalla scarsa consapevolezza della perdita di autonomia: paesi tradizionalmente abituati ad avere un proprio margine discrezionale nelle scelte di governo del sistema economico possono non rendersi conto in maniera adeguata dei crescenti limiti e vincoli imposti in questo campo dal processo di integrazione e della necessità che questi generano di un maggiore coordinamento con gli altri attori in gioco.

Nel complesso, si può evidenziare come l’applicazione dei principi teorici dell’analisi economica allo strumento della politica fiscale non porti a conclusioni univoche né dal punto di vista delle esigenze di disciplina reciproca, né da quello delle esigenze di coordinamento. Ci sono certamente ragioni valide per imporre contemporaneamente disciplina e coordinamento. Ci sono altre ragioni, legate soprattutto alla presenza di preferenze eterogenee e alla complessità dei meccanismi decisionali in ambito sopranazionale, che tendono ad andare nella direzione opposta. Entità e forme attuative del coordinamento dipendono quindi in modo cruciale dall’importanza che viene attribuita agli effetti esterni e dalla disponibilità degli Stati membri a devolvere competenze e anche risorse. Il caso dell’Unione europea rappresenta un importante termine di analisi e valutazione di questi aspetti.

Il modello europeo

Il modello europeo di gestione della politica economica si basa sull’accentramento della politica monetaria in capo al Sistema europeo delle banche centrali (SEBC) e sulla previsione che la politica di stabilizzazione sia gestita dagli Stati membri, anche se a livello dell’Unione occorre garantirne il coordinamento. Il Trattato istitutivo della Comunità europea (CE) (v. Trattati di Roma) stabilisce infatti (art. 98) che «gli Stati membri attuano la loro politica economica allo scopo di contribuire alla realizzazione degli obiettivi della Comunità» e (art. 99) che «gli Stati membri considerano le loro politiche economiche una questione di interesse comune e le coordinano nell’ambito del Consiglio».

La forma attuativa di questi principi si è caratterizzata nel complesso per un basso grado di interventismo delle Istituzioni comunitarie e per una scarsa attitudine a portare avanti interventi attivi in termini di stabilizzazione a livello sovranazionale.

Dal punto di vista della politica monetaria, infatti, il Trattato CE ha stabilito (art. 105) che «l’obiettivo principale del Sistema europeo delle banche centrali (SEBC) è il mantenimento della stabilità dei prezzi. Fatto salvo l’obiettivo della stabilità dei prezzi, il SEBC sostiene le politiche economiche generali nella Comunità al fine di contribuire alla realizzazione degli obiettivi della Comunità definiti nell’articolo 2». Appare quindi evidente una netta gerarchizzazione fra l’obiettivo della stabilità dei prezzi e gli altri obiettivi di politica economica: la Banca centrale europea (BCE) è obbligata a perseguire la stabilità e dispone degli strumenti per realizzare l’obiettivo che le è stato assegnato dal Trattato di Maastricht; per quanto riguarda gli altri obiettivi – tra cui, in particolare, lo sviluppo del reddito e la piena occupazione – essi sono posti chiaramente in subordine. L’interpretazione di tale principio generale è stata caratterizzata da un notevole rigore da parte dell’autorità monetaria, ben esplicitato dalla strategia di politica monetaria contenuta nel “Bollettino” della BCE del gennaio 1999, in cui si legge come l’unica responsabilità della BCE sia la stabilità dei prezzi e come la disoccupazione sia ritenuta un fenomeno strutturale, non sanabile mediante la politica monetaria. Un approccio che appare, in definitiva, basato su un sostanziale scetticismo riguardo alla capacità della politica monetaria di andare a influenzare l’andamento del ciclo economico, mentre gran parte delle responsabilità in questo campo vengono fatte risalire alle autorità politiche e all’attuazione da parte loro di riforme strutturali nel mercato del lavoro, nei sistemi tributari, nel campo dei servizi pubblici, ecc. In quest’ottica, la politica monetaria può contribuire al meglio a una crescita economica stabile e sostenibile proprio garantendo un contesto monetario prevedibile e con bassa inflazione.

Dal punto di vista delle esigenze di disciplina reciproca e coordinamento delle politiche fiscali nazionali, le disposizioni comunitarie sono state molto attente a impedire che le politiche economiche divergenti e poco rigorose da parte di un paese membro potessero metter in pericolo la stabilità dell’Unione economica e monetaria, ma hanno evitato di attribuire responsabilità dirette e vincolanti al governo europeo nella gestione attiva della politica fiscale.

I vincoli alle politiche fiscali nazionali nell’Unione economica e monetaria (UEM). La scelta fatta dalle autorità europee per evitare le esternalità negative delle politiche di bilancio, in base anche a quanto previsto dal Rapporto Delors del 1989, è stata quella di basarsi su precisi obblighi quantitativi. Il Rapporto rappresenta il risultato del lavoro di un gruppo di esperti, presieduti dal Presidente della Commissione europea, il francese Jacques Delors, finalizzato ad analizzare le future tappe e caratteristiche del processo d’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Esso ha rappresentato la base su cui si è poi fondato il Trattato di Maastricht. Il rapporto, intitolato “Rapporto sulla Unione economica e monetaria nella Comunità europea”, auspica la transizione del sistema europeo verso una piena unificazione monetaria e ne identifica i passaggi e requisiti essenziali.

Dal punto di vista del sistema monetario, il Rapporto evidenzia la necessità di completare il processo di liberalizzazione del mercato dei capitali e di adozione di cambi fissi con l’introduzione di una politica monetaria unica, condotta da un’autorità indipendente a livello europeo. La soluzione individuata prevede un processo per fasi distinte che vada a preparare progressivamente l’unificazione monetaria e a garantire un certo grado di convergenza delle economie coinvolte. Nella prima fase è prevista la completa liberalizzazione dei movimenti di capitale e un maggiore approfondimento delle politiche esistenti; nella seconda fase, che rende necessaria l’adozione di un trattato (v. Trattati), si dovrà procedere a una più stretta integrazione delle politiche economiche degli Stati membri, fissando regole vincolanti per evitare disavanzi pubblici eccessivi; infine, la terza fase prevede il definitivo passaggio agli organismi comunitari della politica monetaria degli Stati membri. Il modello di Banca centrale previsto si ispira allo statuto della Bundesbank, assegnando alla BCE il compito primario di assicurare la stabilità dei prezzi e solo subordinatamente di supportare la politica economica generale stabilita a livello comunitario dagli organi competenti. La seconda tematica affrontata dal Rapporto ha riguardato il processo di modificazione delle politiche economiche e di bilancio che avrebbe dovuto accompagnare l’unificazione monetaria. In questo senso esso identificava tre campi d’azione essenziali. In primo luogo, le politiche strutturali e la Politica di coesione, necessarie per rendere il processo più equilibrato e per poter controbilanciare gli effetti negativi degli eventuali “perdenti”. Su questo punto si evidenziava come con l’Atto unico europeo e le Prospettive finanziarie 1988-1992 fosse stata data capacità legislativa e, almeno in parte, linfa finanziaria a questa funzione in ambito comunitario, e come ciò avrebbe dovuto accompagnare adeguatamente il processo anche in seguito. Il secondo campo d’azione era individuato nella disciplina delle politiche di bilancio nazionali, con la proposta di introdurre norme vincolanti sull’operato dei governi nazionali. Infine, il terzo ambito era costituito dal coordinamento delle politiche economiche nazionali, al fine di internalizzare gli effetti esterni e di poter adeguatamente svolgere una funzione di stabilizzazione e di correzione degli shock congiunturali. Su questo punto il Rapporto osservava come le ridotte dimensioni del bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) non fossero sufficienti per esercitare un impatto macroeconomico rilevante a livello centrale e come quindi fosse necessario che l’Unione agisse indirizzando in maniera più stringente le azioni di bilancio dei singoli Stati.

Contrariamente a quanto proposto dal governo inglese in sede di preparazione, il Trattato di Maastricht del dicembre del 1991 ha previsto norme vincolanti di disciplina finanziaria e di bilancio per gli Stati membri della UEM. In particolare, l’ammissione alla moneta unica (v. Euro) ha richiesto il rispetto di due parametri in tema di finanza pubblica: un rapporto deficit/PIL inferiore al 3%; un rapporto debito/PIL al di sotto del 60%, o comunque con la «tendenza a ridursi in maniera sufficiente o ad avvicinarsi al valore di riferimento con un ritmo adeguato».

La derivazione dei parametri di Maastricht è stata ottenuta prendendo come riferimento il valore del 60% per il rapporto debito/PIL, in quanto valore medio registrato nei paesi europei nei decenni precedenti al 1991; parimenti il valore del 3% rappresentava il valore medio annuo delle spese pubbliche per investimenti in Europa. Il parametro riguardante il deficit corrispondeva implicitamente all’applicazione della regola aurea (golden rule) della finanza pubblica: le spese correnti devono essere finanziate da entrate correnti, mentre le spese per investimenti possono essere coperte col ricorso al debito. Il 3% era quindi il margine concesso per il finanziamento delle spese in conto capitale attraverso l’indebitamento.

Accanto ai parametri quantitativi, il Trattato ha introdotto anche alcune importanti disposizioni regolamentari: si è richiesto agli Stati membri di adottare procedure di bilancio che conducano alla disciplina fiscale, lasciando comunque le scelte applicative alla discrezione delle autorità nazionali; si è imposta l’adozione progressiva di un sistema contabile comune e armonizzato, al fine di avere definizioni comparabili di deficit e debito; si è creato il Sistema europeo delle banche centrali, costituito dalla Banca centrale europea e dalle Banche centrali nazionali (BCN) dei paesi membri della UEM. Il ruolo delle banche nazionali permane esclusivamente in termini di vigilanza del sistema creditizio, mentre le decisioni di politica monetaria sono adottate dalla BCE; si è sancito il divieto di partecipare alle aste dei titoli di debito dei governi nazionali per le Banche centrali nazionali; si è imposto il vincolo di pareggio del conto di tesoreria, eliminando la possibilità di scoperto e qualsiasi altra forma di facilitazione da parte della BCE e del SEBC verso i governi nazionali; si è istituzionalizzata la clausola di non salvataggio (no bail out) per la BCE: ovvero il divieto di intervenire in salvataggio di un paese a rischio d’insolvenza.

Infine, il Trattato ha esplicitamente previsto che la disciplina fiscale dovesse perdurare anche dopo la nascita della moneta unica, al fine di evitare che il raggiungimento dell’obiettivo potesse poi determinare un peggioramento dei saldi di bilancio. A tal fine l’art. 104 prevede che «gli Stati membri dovranno evitare i deficit pubblici eccessivi» e delinea una «procedura per i disavanzi eccessivi» che è stata successivamente dettagliata dal Patto di stabilità e crescita (PSC).

La scelta fatta con il PSC, adottato dal Consiglio europeo di Amsterdam del giugno 1997, seguendo un’impostazione di rigore promossa dalla Germania, è stata quella di introdurre regole rigide che andassero a disciplinare in maniera permanente le politiche di bilancio nazionali dopo l’entrata nell’UEM. Nello specifico, i due regolamenti comunitari che sono alla base del Patto (regolamenti 1466 e 1467 del 1997) impegnano gli Stati a «rispettare l’obiettivo di una situazione di bilancio a medio termine comportante un saldo vicino al pareggio o positivo», ove il concetto di saldo di medio termine identifica il saldo che gli Stati membri sono tenuti a realizzare entro un arco temporale di tre o quattro anni, attraverso la presentazione alla Commissione dei Programmi di stabilità. L’obiettivo di riferimento dei bilanci nazionali non è più quindi rappresentato dal 3%, che permane come limite da non superare nel breve periodo, ma quello più ambizioso di una situazione normale di bilancio in pareggio o in surplus. Una disposizione che va oltre il Trattato di Maastricht e che segna il superamento della golden rule, visto che nella prospettiva di medio periodo anche gli investimenti devono essere coperti da entrate correnti.

La giustificazione alla base della maggiore disciplina richiesta dal PSC è data dal timore che le autorità di bilancio, in assenza di vincoli formali, siano portate a non effettuare la politica di stabilizzazione in maniera adeguata (v. Buti, Sapir, 1999). In particolare, il mantenimento in condizioni normali di un deficit vicino al 3%, come in media riscontrato nella realtà del trentennio precedente al PSC, porterebbe ad adottare politiche pro cicliche al verificarsi di recessioni gravi, e ciò spiegherebbe l’esigenza di porsi obiettivi più ambiziosi durante le fasi positive del ciclo. In quest’ottica, i vincoli di bilancio in sede europea sono interpretabili come meccanismi esogeni per limitare le scelte di bilancio nazionali e per obbligare gli Stati membri a perseguire obiettivi ambiziosi durante le fasi positive, al fine di avere margini di manovra più significativi durante quelle negative per lasciare operare gli stabilizzatori automatici o anche per effettuare manovre discrezionali.

Parte essenziale del nuovo quadro di disciplina dei sistemi di finanza pubblica è rappresentato da due meccanismi che ne devono garantire il controllo e l’attuazione: la sorveglianza multilaterale e i meccanismi sanzionatori.

In base al primo, i paesi membri UEM sono tenuti a formulare entro il 1° marzo di ogni anno dei Programmi di stabilità. Tali Programmi rappresentano lo strumento attraverso il quale essi definiscono i propri obiettivi di finanza pubblica per l’anno corrente e per i tre anni successivi e attraverso il quale la Commissione può valutare la coerenza di tali obiettivi rispetto alle prescrizioni del PSC. In base a quanto previsto dal regolamento 97/1466 e da un’opinione della Commissione del 2001, ciascun Programma di stabilità dovrebbe contenere: lo scenario evolutivo della finanza pubblica con la descrizione del percorso d’avvicinamento all’obiettivo del saldo prossimo al pareggio o in surplus e con l’andamento previsto del rapporto debito/PIL; le principali ipotesi sul previsto andamento dell’economia, nonché sugli altri fondamentali economici che possono risultare rilevanti nell’ambito del programma di stabilità; la descrizione degli interventi e delle misure di bilancio adottati o in fase di introduzione per il perseguimento degli obiettivi previsti, con la stima quantitativa del loro effetto sui conti pubblici; l’analisi degli scenari alternativi che potrebbero verificarsi in termini di indebitamento e di debito in presenza di andamenti diversi dalle previsioni delle principali ipotesi economiche e congiunturali.

Il secondo pilastro su cui si basa l’attuazione del PSC è rappresentato dai meccanismi sanzionatori, identificabili nella Procedura dei disavanzi eccessivi (art. 104 del Trattato CE). In base a tale procedura gli Stati membri devono evitare i disavanzi eccessivi, ovvero devono evitare che il rapporto tra l’indebitamento e il PIL superi il tetto massimo del 3% e che quello fra debito pubblico e PIL superi il 60%, a meno che, come già previsto precedentemente, quest’ultimo rapporto non si vada riducendo in maniera sufficiente e non si avvicini al valore di riferimento con ritmo adeguato.

Per quanto riguarda il criterio del deficit è ammessa una deroga al tetto del 3% qualora sia possibile dimostrare che l’andamento negativo sia dovuto a circostanze eccezionali. Tali circostanze sono identificate in una caduta del PIL maggiore o uguale al 2% – in tal caso l’esenzione dalla procedura dei disavanzi eccessivi è automatica, anche se deve essere garantito che il superamento sia temporaneo e di dimensione modesta – o in una caduta tra il 2% e lo 0,75% – nel qual caso l’esenzione può essere concessa dal Consiglio dei ministri se è dimostrato che essa abbia carattere eccezionale ed improvviso. Negli altri casi, ovvero quando il tasso di crescita è positivo o la flessione è al di sotto dello 0,75%, il superamento del tetto del 3% fa scattare le sanzioni nella forma di un deposito infruttifero, calcolato con una parte fissa dello 0,2% del PIL e con una variabile pari a un decimo di punto percentuale di PIL per ogni punto percentuale di differenza tra il deficit registrato e il target limite del 3%. Tra le sanzioni è anche prevista dal Trattato la possibilità che la Banca europea per gli investimenti riveda la propria politica di prestiti verso lo Stato membro in questione.

La procedura applicativa del meccanismo sanzionatorio prevede comunque diversi stadi prima di divenire operativa. Quando emergono rischi di disavanzo eccessivo per un paese, pur nel rispetto del limite formale, la Commissione può proporre una raccomandazione al Consiglio affinché indirizzi un early warning, ovvero una forma di allarme preventivo, finalizzato all’adozione da parte del paese interessato di interventi correttivi rispetto al trend di bilancio. Quando, in base ai dati disponibili, viene accertata la presenza di un disavanzo eccessivo da parte della Commissione, essa propone al Consiglio di aprire la procedura per disavanzi eccessivi. Il Consiglio dei ministri economici decide a Maggioranza qualificata (con diritto di voto anche per i paesi coinvolti) sulla effettiva presenza di un deficit eccessivo e formula una serie di raccomandazioni (v. Raccomandazione) per porre in essere un’azione correttiva. Qualora le raccomandazioni non trovino riscontro entro dieci mesi, il Consiglio può irrorare le previste sanzioni. Infine, affinché i depositi infruttiferi divengano poi effettivamente multe devono trascorrere ulteriori 2 anni senza che il disavanzo eccessivo sia stato corretto secondo le raccomandazioni del Consiglio.

Va in sostanza evidenziato come la cadenza temporale e l’automaticità di tale apparato sanzionatorio siano soggetti a rilevanti margini di flessibilità e anche discrezionalità, di tipo valutativo e, soprattutto, politico. Dal punto di vista temporale, ad esempio, ampi spazi sono garantiti sia dal periodo necessario affinché i dati definitivi di bilancio si rendano disponibili, sia dal tempo fisiologico delle decisioni politiche, sia dal periodo che intercorre tra le raccomandazioni e la comminazione delle sanzioni, sia, infine, dai due anni previsti per la definitiva trasformazione in ammende; un processo temporale che può in sostanza garantire il mantenimento di deficit superiori al tetto anche per più di tre anni. Sono presenti inoltre elementi valutativi di tipo qualitativo (carattere temporaneo e modesto dei disavanzi, carattere eccezionale e improvviso) che possono introdurre fattori di discrezionalità nelle valutazioni di Commissione e Consiglio. In maniera ancor più rilevante, tutti i passaggi del processo (indirizzo dell’early warning, apertura della procedura, irrorazione delle sanzioni) non risultano essere automatici, come viceversa prevedeva l’originaria proposta tedesca, ma si basano su una valutazione tecnica della Commissione e su una decisione politica del Consiglio, in cui i rapporti di forza e le reciproche convenienze possono evidentemente giocare un ruolo decisivo. Infine, va evidenziato come le previste misure punitive entrino in gioco solo quando vi è un deterioramento dei saldi oltre a un certo tetto negativo, mentre nessuna misura incentivante è prevista per far rispettare il vincolo di bilancio in pareggio o in surplus durante le fasi normali o positive del ciclo economico. In questi casi, infatti, il Consiglio può indirizzare delle raccomandazioni sulle scelte adottate, ma queste non hanno alcun carattere vincolante o obbligatorio. L’impostazione del sistema attuativo del Patto appare in definitiva ispirata alla flessibilità e alla capacità di persuasione morale che le istituzioni comunitarie sono (o siano) in grado di esercitare sugli Stati membri, piuttosto che alla severità e automaticità delle multe. L’obiettivo di fondo appare quindi quello di riscontrare in maniera tempestiva, attraverso la mutua vigilanza, l’emergere di dinamiche di bilancio non sostenibili e difficilmente compatibili con la logica complessiva del Patto e di incentivare, attraverso un sistema reputazionale e fatto di pressioni reciproche, azioni rapide che permettano di rientrare nei parametri.

Tale impostazione è stata ulteriormente accentuata dalla riforma del PSC approvata dal Consiglio di Bruxelles del marzo 2005, in seguito agli avvenimenti occorsi nel novembre 2003, quando la credibilità dei vincoli reciproci è stata fortemente minata dalla decisione del Consiglio europeo di non attivare la procedura per disavanzi eccessivi per Francia e Germania, nonostante questi paesi fossero inadempienti rispetto alle precedenti raccomandazioni del Consiglio e avessero mantenuto deficit al di sopra del 3% in periodi non considerabili come eccezionali. La riforma, pur mantenendo i valori di riferimento del 3% e del 60% per deficit e debito, ha nella sostanza ulteriormente accresciuto i margini di discrezionalità per le istituzioni europee nel valutare la posizione di bilancio dei singoli Stati e nel mettere in moto i vari stadi della procedura di sanzionamento. In particolare, si è richiamata l’esigenza di tener conto maggiormente: della congiuntura economica e di periodi prolungati di bassa crescita, delle specificità dei singoli paesi (livello del debito, livello degli investimenti, qualità delle finanze pubbliche) e degli aspetti qualitativi della spesa – politiche per l’Agenda di Lisbona (v. Strategia di Lisbona), ricerca e sviluppo, spese derivanti dalla riforma delle pensioni, politiche dirette alla solidarietà internazionale.

Le modalità di coordinamento. La forma di coordinamento disegnata dal Trattato di Maastricht si basa sull’azione congiunta del Consiglio e della Commissione, che possono però adottare soltanto raccomandazioni nei confronti degli Stati membri, non sostenute da adeguati meccanismi coercitivi che vincolino i destinatari ad adeguarsi alle prescrizioni.

In particolare, il Consiglio, basandosi su di un’analisi preparatoria della Commissione, adotta a maggioranza qualificata i Grandi orientamenti delle politiche economiche (GOPE): una raccomandazione sugli obiettivi e le linee d’azione che dovrebbero guidare le politiche economiche degli Stati membri per il periodo di riferimento. Essi rappresentano, almeno nelle intenzioni, il documento programmatico pluriennale (tre anni) di riferimento e indirizzo per l’intero sistema di governo dell’economia in ambito europeo, con indicazioni e proponimenti su di una serie di macrotematiche: politiche di bilancio, politiche del lavoro, sistemi di welfare, politiche per la produttività, politiche per la realizzazione del mercato interno, politiche per la sostenibilità. È prevista una relazione annuale della Commissione per fare il punto sullo stato d’attuazione dei GOPE nei diversi paesi. Se viene verificato che le politiche economiche portate avanti dai singoli paesi non sono coerenti con gli orientamenti di massima, il Consiglio può rivolgere allo Stato in questione le necessarie raccomandazioni correttive; il Consiglio può decidere di rendere pubbliche tali raccomandazioni, accentuandone l’effetto persuasivo.

Appare nel complesso chiaro come il sistema di coordinamento disegnato dal Trattato di Maastricht ricada nel terzo modello presentato sopra.

Un quadro di sintesi. La nascita dell’Unione monetaria europea ha posto il problema di quali margini di manovra lasciare agli Stati membri per poter governare il proprio sistema economico e far fronte ad eventuali shock asimmetrici. Il problema appare rilevante da un punto di vista analitico perché, secondo l’opinione prevalente, la realtà comunitaria difficilmente poteva e può tuttora essere vista come un’area monetaria ottimale (v. De Grawe, 2004).

Da un lato, infatti, i paesi membri dell’UEM risultano caratterizzati da una struttura essenzialmente duale, con un elevato grado di sincronismo delle economie in un gruppo “centrale” di paesi – Belgio, Danimarca, Francia, Germania e Olanda (v. Paesi Bassi) – e maggiori differenziazioni in un altro “periferico” (Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo, Spagna, Regno Unito, paesi nordici). Shock asimmetrici sono quindi stati registrati nei decenni precedenti e non è escluso che possano verificarsi anche in futuro, soprattutto in un’Europa allargata (v. anche Allargamento), ove la probabilità di andamenti economici differenziati è accentuata.

Dall’altro, i meccanismi automatici di riequilibrio previsti dalla teoria delle AMO non risultano esercitare i loro effetti in maniera esaustiva nel contesto europeo. I mercati sono infatti caratterizzati da significativi elementi di rigidità sia per quanto riguarda i salari (soprattutto nel breve periodo), che per quello che riguarda i prodotti finiti, rendendo problematico l’aggiustamento attraverso i costi di produzione. Dal punto di vista della mobilità del lavoro, è generalmente dimostrato come la mobilità interna all’Unione europea sia limitata ed estremamente inferiore a quella registrata in altre macroaree, come ad esempio gli Stati Uniti; shock negativi della domanda si traducono in questo contesto prevalentemente in variazioni dei tassi di attività, piuttosto che in mobilità del fattore lavoro (come avviene viceversa negli USA). Infine, il bilancio comunitario è di dimensioni ridottissime (attorno all’1% del PIL dell’UE), mentre gran parte delle risorse pubbliche è gestita dai governi nazionali, con bilanci di dimensioni attorno al 45% dei rispettivi PIL. Ciò esemplifica una situazione ben diversa da esperienze di tipo federale, come gli Stati Uniti, ove il grado di accentramento delle risorse è molto maggiore, essendo il bilancio federale attorno al 20% del PIL.

In un quadro di questo tipo, vi è il rischio che gli shock di natura asimmetrica permangano nel tempo e mettano a serio rischio la sostenibilità economica e l’accettabilità politica del processo d’integrazione. Dovrebbero allora essere le politiche fiscali a poter intervenire per sostenere gli andamenti più deboli ed accelerare i processi di recupero.

Ma ciò è possibile nell’attuale modello comunitario?

Il quadro di gestione della politica fiscale in abito europeo appare in realtà caratterizzato dalla presenza di importanti limiti per quanto riguarda i margini di manovra degli Stati, senza che vi sia tuttavia una forte assunzione di responsabilità diretta da parte del governo europeo.

Dal punto di vista del ricorso all’indebitamento come fonte di finanziamento delle politiche economiche, il quadro descritto di vincoli e meccanismi attuativi introdotti con il Trattato di Maastricht e il PSC va a ridurre le opportunità per gli Stati membri di portare avanti azioni a sostegno del sistema economico. La flessibilità automatica dei saldi di bilancio rispetto alle fluttuazioni cicliche (si stima che un calo di un punto percentuale della crescita del PIL porti in media nei membri della UEM a un peggioramento dello 0,5% del deficit di bilancio rispetto al PIL) fa sì infatti che solo i paesi che hanno saldi di bilancio in pareggio o comunque lontani dal valore soglia del 3%, possano lasciar operare liberamente gli stabilizzatori automatici. Se, inoltre, i governi ritengono gli stabilizzatori automatici insufficienti e vogliono rafforzare l’effetto dell’azione anticiclica con una manovra discrezionale, devono essere in grado di ricavarsi margini d’azione ancora maggiori nei periodi positivi. Ovviamente tale opportunità è preclusa a paesi (come l’Italia) che partono da posizioni debitorie più compromesse e che sono chiamati a prolungati sforzi di risanamento: essi corrono infatti il rischio di dover mettere in atto azioni pro cicliche tutte le volte che si manifesti una fase di rallentamento.

Dal punto di vista dei sistemi fiscali nazionali, per quanto permangano margini d’azione formali significativi per gli Stati nel determinare le caratteristiche dei propri prelievi tributari (tipologie di tassazione, regole di determinazione delle basi imponibili, aliquote), emergono crescenti vincoli sostanziali, determinati dalla piena integrazione dei mercati, in ambito sia europeo che internazionale. La completa mobilità delle basi imponibili raggiunta con il Mercato unico europeo fa sì infatti che le decisioni prese da un paese siano strettamente interrelate a quelle degli altri: differenziali significativi in termini di aliquote possono incentivare lo spostamento dei fattori produttivi, impoverendo le basi imponibili di chi mantiene livelli più elevati di pressione fiscale. Una circostanza che va a inficiare notevolmente la possibilità concreta di adottare scelte autonome in termini di sistemi tributari, soprattutto per quanto riguarda le fonti di gettito più mobili (capitali e imprese). Tenuto conto inoltre che il ricorso all’altra importante fonte d’entrata diretta, ovvero il reddito personale, è limitata da resistenze politiche e da timori inerenti l’impatto occupazionale, appare chiaro come vi siano in questo campo restringimenti rilevanti per le scelte a livello decentrato.

Rispetto a questa compressione dei margini di manovra nazionali, l’assunzione di un ruolo concreto da parte del governo europeo in termini di gestione della politica fiscale e di stabilizzazione appare ancora timida.

In primo luogo, infatti, le ridotte dimensioni del bilancio comunitario rendono insignificante l’effetto di stabilizzazione automatica esercitato sulle economie nazionali. Al suo interno, inoltre, mancano strumenti specifici volti all’azione di stabilizzazione e la maggior parte delle spese sono definite su base pluriennale nell’ambito delle prospettive finanziarie, senza che vi sia alcuna possibilità di utilizzarle in chiave anticongiunturale. Se a ciò si aggiunge la disposizione che obbliga il pareggio tra entrate e spese (art. 268 del Trattato CE), appare chiaro come manchino nello scenario attuale opportunità effettive di utilizzare il bilancio comunitario in chiave anticiclica (sia automatica che discrezionale).

Il perseguimento di interessi e obiettivi comuni in ambito comunitario viene allora demandato al coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri, che dovrebbe garantire scelte coerenti con il quadro economico complessivo e con le particolari situazioni dei singoli Stati membri, in modo che siano minimizzati i rischi di asincronia e incoerenza delle politiche nazionali e che siano tenuti in debita considerazione gli effetti esterni delle politiche di uno Stato verso gli altri paesi membri. Di fatto, come descritto in precedenza, tale forma di coordinamento appare assai blanda, essendo in sostanza demandata a raccomandazioni (sia quella che adotta i GOPE, sia quelle che vanno a proporre modifiche e correttivi ai comportamenti dei singoli Stati membri) che non sono vincolanti e non sono sostenute da meccanismi coercitivi che incentivino i destinatari ad adeguarsi alle prescrizioni. La stessa procedura per disavanzi eccessivi appare caratterizzata da ampi margini di flessibilità, che vanno a ridurre il potere di influenza delle disposizioni comunitarie. Appare, quindi, condivisibile l’opinione di chi ritiene (v. Padoa-Schioppa, 2004) che il Trattato ha sì previsto il coordinamento come una finalità e un obiettivo, ma ha in sostanza mancato di costituire le norme d’attuazione e gli strumenti pratici per tradurla in realtà.

In conclusione, il sistema europeo di governo delle politiche economiche appare caratterizzato dalla mancata avocazione della politica di stabilizzazione al livello sopranazionale, in contraddizione con quanto previsto dal modello teorico sul Federalismo (v. Oates, 1999), e da una forma di coordinamento debole e non vincolante delle azioni dei paesi membri. Sotto questo aspetto, il modello adottato si segnala per una connotazione scarsamente sopranazionale, ove il raggiungimento di una completa unificazione monetaria non è stato accompagnato da una corrispondente integrazione delle politiche di bilancio. Non si ha in definitiva una vera e propria politica economica europea, ma una sommatoria di politiche nazionali che può rendere problematico il raggiungimento di obiettivi comuni.

Le possibili evoluzioni

Diverse proposte sono state formulate nel corso degli ultimi anni per poter modificare lo scenario descritto in precedenza. Esse sono schematicamente riconducibili a tre logiche di riferimento.

Un primo gruppo di proposte si basa sulla possibilità di ridurre gli elementi di rigidità introdotti dal Trattato di Maastricht e dal PSC, adottando metodologie di calcolo e parametri di riferimento che garantiscano maggiori margini d’azione per i governi nazionali, soprattutto nelle fasi di rallentamento economico. Rientra in quest’ottica, ad esempio, l’opportunità di porre limiti e obblighi di correzione non al bilancio corrente, ma al bilancio aggiustato per il ciclo, in modo da neutralizzare gli effetti di peggioramento automatico che l’andamento economico negativo ha sul valore del deficit. Un’altra soluzione potrebbe essere quella di adottare come obiettivo il saldo di bilancio di medio periodo e non quello annuale, in modo da lasciare maggiore libertà ai governi di utilizzare la politica fiscale nel breve periodo, pur permanendo il vincolo di rimborsare i prestiti su di un arco temporale pluriennale. Un’ulteriore linea evolutiva, in particolare per garantire maggior spazio alle politiche d’investimento, anche in chiave anticongiunturale, è quella del cosiddetto ritorno alla golden rule, che si basa sulla valutazione del saldo di bilancio al netto della spesa per investimenti, in modo che esso possa oscillare in condizioni normali fino ad un tetto negativo che varia da paese a paese a seconda del livello degli investimenti sul PIL. Aspetto critico comune a queste proposte è quello di introdurre ulteriori elementi di arbitrarietà e di possibile conflittualità nell’applicazione delle regole del Patto, tanto che risulterebbe molto difficile imporre (o solamente minacciare) azioni sanzionatorie sulla base di parametri poco chiari e che possono, quindi, essere contestati. Tipico esempio di tale problematica è rappresentato dalla non sempre netta distinzione tra spese correnti e spese in conto capitale che, nel caso dell’adozione della golden rule, potrebbe introdurre elementi di contenzioso tra paesi, insieme a forti incentivi ad aggirare la regola, spostando semplicemente voci di bilancio dalle prime alle seconde.

Una seconda opportunità di riforma potrebbe basarsi sull’adozione di una forma di coordinamento forte delle politiche di bilancio nazionali, basata sull’elaborazione di un documento di programmazione economica e finanziaria a livello sopranazionale da parte della Commissione (o di Autorità tecniche indipendenti) che tenga conto del quadro macroeconomico generale e di quello dei paesi membri, fissando obiettivi vincolanti per il budget complessivo e per i singoli budget nazionali. Si tratterebbe in sostanza di un modello d’intervento in cui, pur permanendo i vincoli quantitativi attuali per i bilanci nazionali, la responsabilizzazione dell’organo di governo economico a livello europeo potrebbe favorire la riduzione del rischio di comportamenti fiscali incoerenti e la promozione di politiche di bilancio indirizzate verso obiettivi comuni. Sarebbe inoltre possibile in tale quadro decisionale prevedere misure a livello nazionale e/o comunitario per fronteggiare fasi sfavorevoli, attraverso, ad esempio, l’autorizzazione ad interventi il cui onere finanziario verrebbe escluso dai saldi sottoposti alle norme del Patto. Tale opzione si basa, nella sostanza, sulla possibilità di far evolvere il sistema di governo dell’economia verso una struttura maggiormente federale, chiaramente incompatibile con il diritto di veto (v. Voto all’unanimità) che attualmente vige nel Consiglio per le decisioni (v. Decisione) sulla politica fiscale e che non è stato posto in discussione nemmeno dal Progetto di Trattato costituzionale (v. Costituzione europea) del 2005.

Un’ultima linea evolutiva potrebbe infine basarsi su di un maggiore coinvolgimento diretto del bilancio comunitario in chiave di stabilizzazione. Ciò potrebbe avvenire, come già ipotizzato dal Rapporto MacDougall del 1977, sia incrementando le dimensioni del bilancio e con esse la capacità di stabilizzazione automatica (cfr. terzo meccanismo AMO), sia prevedendo strumenti specifici che possano intervenire in aiuto di paesi colpiti da una fase negativa. Rientra in quest’ultima logica la possibilità di accantonare nel bilancio comunitario un fondo che, agendo come meccanismo assicurativo, possa indirizzare risorse addizionali agli Stati colpiti da uno shock asimmetrico, compensando così gli effetti negativi che si manifestano endogenamente sul saldo di bilancio e consentendo sia di rispettare le regole di stabilità finanziaria previste dal Patto, sia di rilanciare l’economia oggetto del rallentamento. L’attivazione del meccanismo dovrebbe essere automatica e non richiedere quindi alcuna valutazione discrezionale, per evitare che il trasferimento si realizzi con notevoli ritardi temporali e manifesti gli effetti espansivi sulla domanda quando la fase recessiva è ormai superata. Il sostegno finanziario a favore del paese colpito da uno shock esogeno dovrebbe inoltre manifestarsi attraverso un trasferimento incondizionato, e non sotto forma di prestiti rimborsabili, per garantire che l’economia beneficiaria non venga gravata dall’onere del rimborso durante la fase di ripresa.

Le prospettive della finanza pubblica europea nel Rapporto MacDougall (1977). Il Rapporto, frutto di uno studio da parte di un gruppo di esperti di finanza pubblica coordinato da George Donald Alastair MacDougall, ha rappresentato il primo contributo di ampio spessore sul ruolo della finanza pubblica nel processo di integrazione europea nella prospettiva dell’unificazione monetaria. L’idea di fondo del Rapporto era che solo con un’accentuazione del ruolo del bilancio comunitario si poteva accompagnare adeguatamente il processo di integrazione, riducendo gli effetti di fluttuazioni cicliche di breve periodo e, di conseguenza, anche i rischi di insostenibilità e fallimento politico del processo stesso (come era avvenuto per il Piano Werner del 1970).

Il Rapporto, frutto di uno studio da parte di un gruppo di esperti di finanza pubblica coordinato da Donald MacDougall, ha rappresentato il primo contributo di ampio spessore sul ruolo della finanza pubblica nel processo di integrazione europea nella prospettiva dell’unificazione monetaria. L’idea di fondo del Rapporto era che solo con un’accentuazione del ruolo del bilancio comunitario si poteva accompagnare adeguatamente il processo di integrazione, riducendo gli effetti di fluttuazioni cicliche di breve periodo e, di conseguenza, anche i rischi di insostenibilità e fallimento politico del processo stesso (come era avvenuto per il Rapporto Werner del 1970). La principale conclusione del Rapporto richiamava la necessità di aumentare le dimensioni del bilancio comunitario fino ad almeno il 2-2,5% del PIL europeo nella fase di integrazione politica prefederale per garantire un minimo di capacità di stabilizzazione dell’economia e di redistribuzione a favore delle regioni più deboli. Tale valore sarebbe poi dovuto arrivare fino al 5-7% al completamento dell’unificazione monetaria e politica. Questo stadio veniva designato «federazione con ridotto settore pubblico», perché si ipotizzava che i servizi caratteristici dello Stato sociale (sicurezza e previdenza sociale, sanità e assistenza) fossero comunque forniti dai singoli Stati nazionali.

Dal punto di vista qualitativo, l’incremento nel coinvolgimento del livello comunitario riguardava principalmente i seguenti settori: alcune funzioni allocative, per cui apparivano importanti le economie di scala e le esternalità tra Stati (politica commerciale, relazioni esterne, reti, tecnologie e ricerca, standard tecnici e industriali); le politiche strutturali, finalizzate a sostenere le aree più deboli e a compensare eventuali Stati membri più penalizzati dal processo d’integrazione; la possibilità di introdurre un fondo anticongiunturale che potesse trasferire risorse direttamente a Stati o regioni colpite da shock negativi segnalati attraverso indicatori economici e occupazionali; una limitata capacità di assunzione di debito nei periodi ciclici negativi. Un quadro di questo tipo avrebbe dovuto garantire un grado sufficiente di perequazione geografica tra aree e, contemporaneamente, la possibilità di attenuare le fluttuazioni cicliche country specific. A tali condizioni la realizzazione di un’unione monetaria sarebbe stata facilitata.

Nonostante il rilievo dei contenuti, l’impatto del Rapporto sulla politica fiscale e sull’attribuzione di maggiori funzioni in termini di politica economica al livello europeo è stato praticamente nullo. Almeno tre cause possono essere ricordate. Innanzitutto, il secondo shock petrolifero del 1979 portò a rallentare il processo verso l’unificazione monetaria e a rendere instabili i mercati monetari. In secondo luogo, gli anni Ottanta segnarono una significativa inversione di rotta dal punto di vista del paradigma teorico di riferimento, con un ridimensionamento dell’impronta keynesiana, cui si rifaceva il Rapporto MacDougall, e con l’emergere di un clima culturale più attento agli aspetti di efficienza e alle politiche dal lato dell’offerta – un quadro in cui il ruolo della politica fiscale è stato messo seriamente in discussione. Infine, il progressivo deteriorarsi delle finanze pubbliche di alcuni paesi europei e l’esigenza di mettere in atto programmi di ridimensionamento della spesa rendevano ancora più improbabile la cessione di ulteriori risorse al livello comunitario.

Andrea Zatti (2007)

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