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Craxi, Benedetto (Bettino)

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Statista e politico italiano (Milano 1934-Hammamet, Tunisia 2000), C. è stato dirigente del Partito socialista italiano, di cui diviene segretario nazionale nel luglio 1976, con il partito al minimo storico in termini di consenso elettorale (poco più del 9%), mantenendo ininterrottamente l’incarico fino al febbraio 1993.

Primo socialista nella storia repubblicana a ricoprire la carica di Presidente del Consiglio dei Ministri, guiderà consecutivamente due governi di coalizione DC-PSI-PSDI-PLI-PRI, dall’agosto 1983 all’aprile 1987.

Vicepresidente dell’Internazionale socialista dal 1978 al 1993, è nominato nel dicembre 1989 Rappresentante personale del segretario generale dell’ONU, Peréz De Cuéllar, per i problemi del debito dei paesi in via di sviluppo. Assume successivamente l’incarico di Consigliere speciale per i problemi dello sviluppo e del consolidamento della pace e della sicurezza.

Coinvolto nelle inchieste giudiziarie che agli inizi degli anni Novanta travolgono il sistema politico italiano, si ritira nel 1994 in Tunisia, ove si spegne nel 2000.

Pochi statisti europei come C., ha argomentato lo storico Piero Craveri, hanno contribuito in maniera fortemente decisiva al grande rilancio della costruzione comunitaria europea (v. Craveri, 2006).

In effetti il dossier europeo ha sempre occupato uno spazio prioritario nell’agenda politica craxiana. L’Europa che C. aveva in mente, ricorda Gennaro Acquaviva, uno dei suoi più stretti collaboratori negli anni di Palazzo Chigi, non era quella che tra la seconda metà degli anni Settanta e l’inizio del successivo decennio prendeva forma a Bruxelles, tecnocratica e commerciale: «era piuttosto un’Europa politica, per la quale, nella sua visione, dovevano operare maggiormente i grandi paesi membri, Stati-nazione tutt’altro che al tramonto, su cui occorreva basarsi innanzi tutto per fondare la costruzione della solidarietà europea e assicurare forte slancio politico alla sua azione. A suo avviso, solo dopo un più forte radicamento del concetto nelle identità culturali dei maggiori paesi si sarebbe potuto passare ad un reale processo di unificazione, che sarebbe stato a quel momento conforme agli interessi della società europea» (v. Acquaviva, 2010).

Alle origini della politica estera di C. vi è anche un disegno politico legato al ruolo del PSI nello scenario italiano. Il segretario socialista intuisce sin da subito che l’impegno per smarcare il suo partito dalla doppia subalternità nei confronti di comunisti e democristiani non può prescindere dalle considerazioni di carattere sopranazionale, in un tornante storico in cui, dopo una prolungata fase di distensione, la ripresa acuta del confronto bipolare ha nuovamente come teatro anche l’Europa. Le scelte di politica internazionale non possono essere considerate «come corollari anonimi ed indifferenti rispetto al dibattito interno».

Sin dai primi interventi in Parlamento nelle vesti di segretario del Partito socialista, C. pone l’accento sulle tematiche comunitarie. Ciò accade, ad esempio, il 10 agosto 1976 nel corso del dibattito sulla fiducia al governo di Giulio Andreotti, un monocolore democristiano che si reggerà grazie all’astensione dei partiti dell’arco costituzionale. L’unità europea, è il senso del discorso, va letta in una prospettiva di aumento dell’indipendenza e del peso politico degli Stati europei nei confronti della politica mondiale e in una linea di progressiva apertura verso i paesi della regione mediterranea.

All’idea di un Mediterraneo pacifico, non più area gravida di tensioni, C. si rifarà continuamente, sollecitando un maggiore ruolo di influenza e di iniziativa dell’Europa nella soluzione degli spinosi problemi sul tappeto, primo fra tutti il conflitto arabo-israeliano.

La relazione di esordio al Comitato centrale del 15 novembre 1976 è l’organica presentazione del neo-segretario dinanzi al massimo organismo politico del PSI; C. pone nell’occasione alcuni punti fermi sulla politica del momento e su quella futura. Appare evidente il proposito di accentuare la presenza della forza socialista nel contesto comunitario: la partecipazione socialista alle attività dei movimenti e delle associazioni europeistiche possono concorrere per C. «a rendere più incisiva la nostra presenza nei processi di integrazione e di costruzione dell’Europa e nella definizione di una linea socialista europea» (v. anche Integrazione, teorie della).

Un’Europa, argomenta C. dalla tribuna del XLI Congresso del PSI, che si apre a Torino il 29 marzo 1978, ripiegata su se stessa e divisa da particolarismi ed egoismi nazionali, cui bisogna porre rimedio attraverso un rilancio delle Istituzioni comunitarie «isterilite e inefficaci». Rilancio necessario per consentire alla Comunità di svolgere appieno il suo importante ruolo nello sviluppo delle relazioni con i paesi dell’Est ed in rapporto alle prospettive della regione euro-mediterranea.

Nella seconda metà degli anni Settanta, il nodo dell’europeismo investe l’intero sistema politico italiano. L’1 dicembre 1977 la Camera dei deputati approva, dopo un ampio dibattito, una mozione sugli indirizzi della politica estera italiana sottoscritta e presentata dai sei partiti della “non sfiducia”. Nel documento viene espresso «apprezzamento positivo per gli indirizzi e l’opera dell’Italia nel quadro dell’Alleanza atlantica e della Comunità europea», definite «il termine fondamentale di riferimento» della politica estera del nostro paese.

L’importante convergenza su un terreno fino a quel momento considerato come “discriminante” fra le diverse forze politiche, non si rinnova l’anno successivo sul problema dell’adesione al Sistema monetario europeo (SME), un’adesione che avrebbe comportato per l’Italia risvolti non certo secondari sul piano della politica interna.

L’accelerazione impressa alla vicenda dal governo Andreotti, che il 12 dicembre 1978 invita la Camera a pronunciarsi sull’adesione immediata allo SME, suscita malumori presso socialisti e comunisti. Mentre il PCI esprime voto contrario insieme ai deputati radicali, missini ed a quelli di Democrazia proletaria, i socialisti, dopo un serrato dibattito interno che all’orientamento favorevole di C. vede contrapposto quello contrario della corrente lombardiana, scelgono di astenersi. Proprio l’astensione del PSI risulterà determinante ai fini dell’aggancio immediato dell’Italia al Sistema monetario europeo.

Il tessuto dell’unità nazionale conosce dunque un primo grave strappo su un punto decisamente qualificante e riguardante, per di più, «quell’impegno europeo che i comunisti avevano accettato, sebbene in ritardo rispetto agli altri partiti, e che aveva finito col rappresentare un elemento importante della loro evoluzione politica» (v. Gismondi, 1986).

La rottura sul nodo dell’europeismo si verifica a pochi mesi dalla data cruciale delle prime elezioni a suffragio universale diretto del Parlamento europeo di Strasburgo.

Un appuntamento che consente a C., ed è il motivo dominante della sua campagna elettorale, di intensificare i rapporti con le altre forze del socialismo europeo, in primis la socialdemocrazia tedesca, per fare del partito di via del Corso una forza europea, in sintonia con i maggiori partiti socialdemocratici dell’Europa occidentale, capace di una sua linea coraggiosamente autonoma. L’obiettivo è quello di dimostrare che «il socialismo europeo può avere una politica estera credibile, corrispondente alle esigenze del continente» (v. Romano, 2006).

All’Eurocomunismo berlingueriano, il segretario del PSI contrappone l’eurosocialismo, che conta su una tradizione democratica per affrontare il problema fondamentale dell’Europa, quello cioè di un’alternativa alle forze conservatrici e reazionarie.

Le consultazioni europee, che si tengono ad una settimana di distanza dalle elezioni politiche nazionali, rappresentano la grande occasione per offrire al PSI un volto diverso, consentendogli anche di giocare un nuovo ruolo sullo scacchiere politico interno.

Un assunto ripreso dallo storico Gaetano Quagliariello, secondo il quale la campagna elettorale del 1979 si caratterizza per «un investimento esplicito su un europeismo finalmente affrancato dall’originaria prospettiva terzaforzista»; in tale cambiamento può scorgersi «la propensione del partito, sul piano interno, ad entrare in concorrenza elettorale con il PCI, ma anche con le forze moderate e in particolare con la DC» (v. Quagliariello, 2006).

Al tema dell’europeismo C. farà riferimento in molte occasioni. Nel marzo 1979, nel corso di un intervento pubblico a Milano, il segretario del PSI denuncia l’esistenza di un «europeismo genericamente idealistico e astratto, che è anche una delle forme di espressione politica delle forze più conservatrici». A esso contrappone disegni europei «assai più consistenti di programmi e di rafforzamento delle attuali e di nuove istituzioni». È necessario per C. che il Parlamento europeo non si riduca a una mera facciata rappresentativa, ma «assuma ed utilizzi in pieno il suo potere costituente».

Entrando più nello specifico alla dinamica sociale, C. ritiene essere uno dei problemi di fondo della cooperazione europea il riequilibrio regionale e la cooperazione in favore delle aree depresse: «evitare l’egemonia dei paesi forti da un lato, la decomposizione dei paesi deboli dall’altro».

Il 24 aprile 1979, durante un vertice di partito, il segretario socialista tiene un lungo discorso, dal titolo “Socialismo e libertà”, nel quale da un lato si richiama al ruolo attivo dell’Italia nell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), e dall’altro alla vocazione europeista e all’eurosocialismo, definito la più grande realtà politica dell’Europa occidentale. Riprese da un editoriale del quotidiano “Avanti!”, le parole del segretario sono dirette a dare forza ed a proporre il PSI come il motore di una strategia di «alternativa di sinistra», sulla scia di una tradizione socialdemocratica fortemente consolidata nel resto del continente ma praticamente assente nel contesto italiano.

La campagna elettorale per il Parlamento di Strasburgo, che i socialisti italiani affrontano all’insegna dello slogan “L’Italia progredisce con l’Europa, l’Europa va avanti con i socialisti”, si apre ufficialmente il 2 maggio 1979 a Torino, alla presenza di C. e del presidente dell’Internazionale socialista, Willy Brandt.

Nel capoluogo piemontese, tra l’altro, il leader del PSI evidenzia il contributo offerto dal suo partito all’elaborazione di una piattaforma programmatica comune delle forze socialiste europee da presentare agli elettori, in base a quanto stabilito a Bruxelles il 10 gennaio 1979 nel corso del X Congresso della Confederazione socialista europea. È in quell’occasione che Willy Brandt, François Mitterrand, James Callaghan e lo stesso C. sottolineano l’importanza delle consultazioni europee quale ulteriore mezzo per accelerare il progresso verso una società libera dall’oppressione e dallo sfruttamento.

Gli incontri con gli altri leader del socialismo europeo si intensificano nel corso delle settimane che precedono la data del 10 giugno 1979, per culminare nella grande manifestazione di fine maggio a Parigi nel corso della quale Brandt, C. e Mitterrand lanciano lo slogan: “Cinquanta milioni di voti socialisti costruiranno l’Europa dei lavoratori”.

Per quanto concerne le dinamiche politiche interne, il 9 luglio 1979 il Presidente della Repubblica Sandro Pertini conferisce a C. l’incarico di formare il nuovo governo. Il tentativo del leader socialista dura meno di due settimane: egli dovrà rinunciare al mandato di fronte alla decisa avversione della segreteria democristiana.

Tra gli obiettivi prioritari dell’azione di governo che C. propone, quello relativo alla politica internazionale, che in riferimento al versante comunitario recita: «sviluppo coerente del processo di integrazione europea operando per portare a compimento il processo di integrazione politica, favorendo l’allargamento dei poteri del Parlamento europeo; per una maggiore integrazione economica (coordinamento delle politiche monetarie, finanziarie, energetiche, industriali; revisione della Politica agricola comune); per l’assunzione di una politica estera comune; per l’allargamento della Comunità, oltre che alla Grecia, alla Spagna e al Portogallo».

Concetti che verranno ribaditi due anni dopo, nel corso del dibattito sulla fiducia al governo di Giovanni Spadolini, il primo Esecutivo guidato da un esponente “laico” dal 1945, al quale partecipano anche i socialisti.

Fondamentale è per C. il ruolo che l’Europa deve assumere nell’elaborazione di una politica e di un’iniziativa comune con gli Stati Uniti nel campo del negoziato e della pace.

Altrettanto forte è l’auspicio per un ruolo attivo dell’Italia in ambito comunitario, cui il nascente esecutivo sarebbe stato chiamato a fornire nuovo impulso, rifiutando in Europa «la miopia degli assi e dei direttori».

Il 28 novembre 1981, intervenendo al Comitato centrale del PSI, C. non nasconde il proprio pessimismo sulla crisi profonda che investe la Comunità economica europea (CEE), la sua politica e le sue istituzioni. Il processo di costruzione europea ristagna per difetto di strumenti, carenza di iniziative, lentezze e ritardi. Dalla presa d’atto di una simile situazione, l’appello a uno sforzo per riproporre in termini aggiornati «il ruolo, le possibilità, i doveri di una Comunità che deve ormai entrare in un nuovo stadio del suo sviluppo, realizzando fasi più avanzate del processo di integrazione politica ed economica nell’Europa».

Propositi, questi ultimi, che assumono un rilievo centrale anche nel corso dei lavori della Conferenza programmatica del PSI, il momento forse più significativo del “nuovo corso” socialista, che si apre a Rimini il 31 marzo 1982.

Il 9 agosto 1983, ricevuto l’incarico di formare il nuovo governo, C. ne illustra il quadro programmatico e gli obiettivi di azione in Parlamento: «L’Europa resta per noi il cuore delle nostre relazioni, dei nostri legami, delle amicizie e degli interessi ed anche il cruccio per la inadeguatezza delle istituzioni comunitarie, gli squilibri esistenti e quelli temuti nelle politiche comunitarie, l’evidente condizione di crisi che rende difficile una risposta europea nei campi dove più necessario ed intenso dovrebbe e dovrà farsi lo sforzo di solidarietà e collaborazione, a partire dal fronte monetario internazionale aggredito dalla prepotenza del dollaro, ai problemi della innovazione tecnologica e della ricerca, al fronte sociale della lotta alla disoccupazione. L’Italia difenderà ad un tempo con coerenza e lealtà l’idea dello sviluppo comunitario, le idee della progettualità europea e la necessità di un armonico equilibrio nella difesa e garanzia dei legittimi interessi nazionali».

Negli indirizzi programmatici allegati all’illustrazione del Presidente del Consiglio, si legge: «Rimarrà fermo l’impegno dell’Italia per l’integrazione europea, che non potrà non tradursi in un’azione ferma e coraggiosa, anche sul terreno istituzionale, volta a consentire alla Comunità il perseguimento di interessi effettivamente sopranazionali e non soltanto l’equilibrio e la compensazione, non sempre paritari, di interessi nazionali. Si dovrà inoltre pervenire ad una realistica e sollecita soluzione dei problemi che ancora ostacolano l’allargamento ai paesi dell’Europa mediterranea che ne hanno fatto domanda».

È da Palazzo Chigi che C. fornisce un impulso nuovo alla costruzione comunitaria europea. Ben cosciente della mancata coesione comunitaria e, più in generale, dell’assenza dell’Europa da fronti importanti e decisivi per l’avvenire, il neo-residente del Consiglio avvia una riflessione di fondo sugli obiettivi e le condizioni stesse della vita istituzionale europea, rivelandosi in grado di tradurre principi, propositi e progetti in decisioni concrete.

Nel biennio 1984-1985 il dibattito europeo raggiunge una particolare intensità. Nel corso del XLIII Congresso del PSI, che si tiene a Verona nel maggio 1984, dopo aver annunciato l’approvazione ed il sostegno dell’Italia al nuovo progetto istituzionale avanzato dal Parlamento europeo, C. pone l’accento sulle questioni più spinose che in quel momento attraversano la vita comunitaria, bloccando l’avanzamento del processo di integrazione europea: il contenzioso con il Regno Unito sul bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea), l’Allargamento della Comunità a Spagna e Portogallo, il rilancio della tecnologia europea, l’adozione di nuove strategie industriali.

Sciolto durante il Consiglio europeo di Fontainebleau del giugno 1984 il nodo del contributo inglese al bilancio della Comunità, il tema dell’allargamento irrompe nell’agenda politica comunitaria, caratterizzando la presidenza semestrale di turno della CEE che l’Italia assume nel gennaio 1985 (v. anche Presidenza dell’Unione europea).

C. si reca a Madrid e Lisbona, ove rinnova l’impegno della presidenza italiana ad accelerare i tempi dei negoziati di adesione dei due paesi iberici, consentendo loro l’ingresso nella Comunità a partire dal 1° gennaio 1986.

Dopo settimane di difficili trattative condotte in prima persona dal ministro degli Esteri Andreotti, in particolare sul problema dei prodotti agricoli e della pesca, al Consiglio europeo di Bruxelles del 29 e 30 marzo 1985 l’Italia ottiene un importante successo diplomatico e l’impegno personale del presidente C. porta al raggiungimento di un accordo sulla spinosa questione collegata all’adesione, quella dei Programmi integrati mediterranei (PIM).

La soddisfazione per la conclusione del negoziato di adesione dei due paesi iberici, protrattosi per otto anni, è evidente nelle parole che C. pronuncia il 17 aprile 1985 dinanzi al Parlamento europeo. L’ingresso nella CEE dei due nuovi membri conferma la capacità della Comunità di «crescere, svilupparsi e rafforzarsi».

La presidenza italiana si caratterizza altresì per il forte accento posto sul tema delle riforme necessarie ad assicurare un migliore funzionamento della vita comunitaria e a realizzare un migliore equilibrio interistituzionale. Un progetto di avanzamento istituzionale della Comunità da portare avanti simultaneamente al completamento del mercato interno.

Il Presidente del Consiglio italiano non nasconde le difficoltà di un’evoluzione politico-istituzionale: «non dimentichiamo che, allo stato delle cose, siamo in un regime comunitario unanimistico e che più di una grande Nazione appare assai prudente nell’accostarsi in questo momento sia al contenuto della problematica istituzionale sia alle relative procedure».

L’attività di C. è febbrile nei mesi che precedono il Consiglio europeo del 28 e 29 giugno 1985, che si tiene al Castello Sforzesco di Milano. Ai dibattiti pubblici e agli interventi in Parlamento si accompagnano gli incontri e le consultazioni con i principali attori della politica europea. In ogni occasione C. ribadisce la ferma intenzione della presidenza italiana di creare le condizioni perché l’Europa si doti di una soggettività politica oltre che di una maggiore forza economica, facendo con ciò proprie le raccomandazioni del Comitato Dooge (v. Dooge, James), incaricato a Fontainebleau di elaborare proposte di riforma in materia istituzionale.

All’apertura del Vertice che conclude il semestre italiano di presidenza della CEE, C. è posto di fronte all’intransigente opposizione del premier britannico Margaret Thatcher, contraria a ogni ipotesi di rafforzamento istituzionale della Comunità, e all’ambiguità di Helmut Kohl e Mitterrand, pronti a tirar fuori dal cassetto un progetto franco-tedesco di trattato sulla politica estera e di sicurezza, ma elusivo sulle questioni istituzionali. Le manovre franco-tedesche che precedono l’appuntamento di Milano non suscitano l’entusiasmo della presidenza italiana. Sospettoso che dietro quell’attivismo si nasconda l’intenzione di Kohl e Mitterrand di rilanciare da un lato la loro leadership in ambito comunitario, e dall’altro di giungere ad una soluzione di basso profilo – un accordo di ripiego che eviti la rottura insanabile con la Thatcher – C. intensifica gli sforzi e le pressioni per schivare i tentativi di marginalizzazione della sua presidenza.

Pur costretto a delle «concessioni tattiche», egli riesce ad assicurarsi il sostegno franco-tedesco, in questo abilmente sostenuto dal ministro degli Esteri Andreotti, e a imprimere una svolta decisiva alle lente logiche comunitarie con la decisione di formalizzare il dissenso esistente tra i Dieci ricorrendo al criterio del voto. In particolare, il presidente italiano si appella alla procedura indicata dall’art. 236 dei Trattati di Roma, constatando l’esistenza della maggioranza necessaria per la convocazione di una Conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative)che, incaricata di elaborare un progetto di Trattato sulla cooperazione nel campo della sicurezza e della politica estera e di negoziare i primi adeguamenti istituzionali ai Trattati del 1957, avrebbe dovuto sottoporre i risultati delle sue deliberazioni al successivo Consiglio europeo di Lussemburgo.

Il “decisionismo” craxiano provoca una spaccatura in seno al Consiglio; la mozione proposta dal presidente di turno della CEE viene approvata dai sei paesi fondatori della Comunità, ai quali si aggiunge l’Irlanda. Esprimono voto contrario la Gran Bretagna (v. Regno unito), la Grecia e la Danimarca. Il premier britannico, in particolare, definisce lo “strappo” di procedura craxiano «sconsiderato e gravido di rischi». Con la scelta di ricorrere al voto, C. infrange dunque un tabù che da sempre aveva condizionato la vita dei Consigli europei: quello del Voto all’unanimità.

Tra gli altri risultati raggiunti nel corso del Vertice di Milano, l’approvazione degli obiettivi contenuti nel Libro bianco (v. Libri bianchi) della Commissione europea, guidata dal 1° gennaio 1985 dal francese Jacques Delors, sul completamento del mercato interno entro il 1992; l’attenzione alla “dimensione tecnologica”, con l’accordo sul progetto francese “Eureka”; il consenso sulle proposte del Comitato Adonnino per far avanzare l’Europa dei cittadini, con l’accento posto su settori quali la cultura, la gioventù, l’istruzione, l’ambiente, lo sport.

La prima riunione della Conferenza intergovernativa si tiene il 9 settembre 1985; le trattative si protraggono per alcuni mesi e portano all’accordo, in realtà un compromesso, siglato nel corso del Consiglio europeo di Lussemburgo del 2 e 3 dicembre 1985. Nasce l’Atto unico europeo, che modifica i Trattati di Roma. Ne escono indubbiamente ridimensionati i propositi ambiziosi dei mesi precedenti, e lo sforzo per trovare un accordo unanime comporta il sostanziale abbandono dei capisaldi della riforma istituzionale.

Pur considerandolo un primo timido passo nella giusta direzione, il governo italiano non nasconde la propria insoddisfazione sul mancato aumento dei poteri del Parlamento europeo e sulla scarsa cooperazione tra quest’ultimo e il Consiglio, condizione necessaria alla realizzazione di un reale processo di codecisione tra i due organi (v. anche Processo decisionale).

Lo scontento di Roma su un accordo giudicato inferiore alle aspettative è testimoniato anche dalla scelta di sottoscrivere l’Atto Unico europeo il 28 febbraio 1986 in compagnia di Grecia e Danimarca, undici giorni dopo la firma apposta dagli altri Stati membri. Al momento della firma, il ministro degli Esteri italiano Andreotti fa mettere agli atti una nota di dissenso ufficiale per quella che ritiene «una risposta parziale ed insoddisfacente all’esigenza di sostanziali progressi nella direzione indicata dal Parlamento europeo».

Le tematiche connesse al rilancio della Cooperazione politica europea e al riequilibrio interistituzionale continuano negli anni successivi a rappresentare il cardine dell’orientamento europeo di C. E l’insoddisfazione per lo stato di salute dell’Europa riecheggia frequentemente anche dopo aver lasciato la poltrona di Palazzo Chigi.

Dalla tribuna del XLIV Congresso nazionale del PSI (Rimini, 31 marzo-5 aprile 1987), C. denuncia amaramente l’assenza di un’Europa politica e rileva il rischio che quella europea rimanga una costruzione incompleta, limitata ed inadatta a proiettarsi verso l’avvenire. Tra le risoluzioni finali approvate dall’Assise socialista, vi è quella che contempla la necessità di una politica estera comune, condizione necessaria per consentire all’Europa di parlare con una voce sola sulla scena internazionale e per mostrarsi interlocutore affidabile e necessario «nella grande opera di mediazione per la pace».

Sul finire degli anni Ottanta, C. si confronta con il problema dell’Europa in una fase di importanti cambiamenti degli equilibri politici ed economici mondiali. Al centro dei suoi interventi è la grande svolta nei rapporti Est-Ovest per gli accordi sul disarmo e per il nuovo clima di cooperazione tra le due superpotenze. È proprio in relazione a questi profondi mutamenti che C. continua a misurare i ritardi dell’Europa. Accanto a un maggiore e più efficace coordinamento tra i paesi membri, gli appare necessaria la creazione di una nuova identità europea in materia di sicurezza: «un’Europa unità può sviluppare con i Paesi dell’Est un dialogo di ampio respiro che abbia obiettivi di pace, di disarmo, di cooperazione e di scambi».

L’insistenza sul tema della revisione del quadro istituzionale comunitario non perde vigore, nonostante vengano accentuati i riferimenti all’ambito dell’integrazione economica e sociale dinanzi a un’Europa comunitaria in cammino verso il Mercato unico.

Il 15 febbraio 1989, presentando a Roma il testo del Manifesto politico-programmatico messo a punto dall’Unione dei Partiti socialisti europei, C. esprime la convinzione che occorra costruire, intorno al Mercato, una Comunità più progredita e solidale, «meno disuguale nelle condizioni di vita e di lavoro, aperta umanamente alle ragioni profonde dell’unità culturale, della continuità e omogeneità dello spazio più ampio dischiuso ai cittadini. La maggiore unità monetaria, di governo della produzione, la struttura della società, il superamento del divario fra le aree territoriali, sono oggi le materie che toccano il cuore dell’integrazione e formano il crogiuolo in cui deve maturare la Comunità».

Gli eventi del biennio 1989-1991 preannunciano nuove impegnative prove, ponendo di conseguenza l’Europa dei Dodici di fronte a più grandi e ineludibili responsabilità.

Intervenendo a Berlino al Congresso dell’Unione dei Partiti socialisti della Comunità europea (febbraio 1990), C. riconosce che la profonda crisi e le trasformazioni in atto nei paesi dell’Est europeo indicano nuovi traguardi per la realizzazione di quella Comunità solidale fortemente auspicata dalle forze socialiste: «La prospettiva futura dei nostri rapporti con l’Europa orientale potrà essere non solo una partnership nella sfera degli scambi commerciali, ma configurarsi come un’associazione destinata a generare vincoli più impegnativi, giacché si fonda sulle radici della nostra comune identità di nazioni europee. Istituire con noi questo rapporto è per i paesi dell’Est una libera scelta. Per l’Occidente, favorire la loro vocazione europeistica e condividerla attivamente è un mandato morale».

Quanto poi al delicato capitolo della Riunificazione tedesca, il leader del PSI la definisce una tappa obbligata e fondamentale, pur esprimendo la convinzione che essa debba restare intimamente legata al processo di integrazione comunitaria. Il 4 aprile 1990, intervenendo dinanzi al Parlamento europeo, C. trova il modo di chiarire la propria posizione: «una Germania unificata in una Comunità debole avrebbe un effetto disgregante. La risposta deve essere l’accelerazione dell’integrazione, oltre la puntuale realizzazione del mercato unico, e la revisione dei meccanismi istituzionali della Comunità che dovrà deciderla una Conferenza intergovernativa da convocare parallelamente a quella monetaria, secondo un impegno che vorremmo fosse preso già al Consiglio europeo di Dublino».

Gli anni Novanta segnano una nuova tappa nel processo di costruzione comunitaria. Il passaggio a una moneta unica europea prima della fine del secolo rappresenta per C. un’evoluzione resa necessaria dalla crescente interdipendenza dell’economia mondiale. Ciò non di meno, il nuovo Trattato di Maastricht avrebbe dovuto fissare, negli intendimenti del segretario socialista, «la vocazione dell’Unione a trattare tutti gli aspetti della politica estera, sicurezza e difesa».

Il 3 luglio 1992, nel corso del dibattito sulla fiducia al governo di Giuliano Amato, in quello che è destinato a essere uno degli ultimi interventi di C. in Parlamento, spazio importante è nuovamente dedicato al processo di costruzione europea: «Sono questi gli anni del passaggio verso un’Europa più unita, più integrata e augurabilmente più coesa. È naturalmente fondamentale che l’Italia riesca a raggiungere il passo dei suoi grandi partner europei e che, per far questo, si mostri capace di compiere tutti gli sforzi che devono essere realizzati. […] tuttavia dobbiamo insistere a chiederci quale Europa vogliamo e verso quale Europa vogliamo indirizzarci: non verso un’Europa sottratta ad ogni controllo dei poteri democratici; non verso politiche determinate solo sulla base di criteri macroeconomici, indifferenti di fronte alla valutazione dei costi sociali […]. Un’Europa che guardi al proprio riequilibrio interno ma anche all’altra Europa, che si è liberata dal comunismo, ma che rischia di restare ancora separata e divisa, non più, come è stato detto, dalla cortina di ferro, ma dal muro del denaro».

Un’Europa, in definitiva, «capace di una vera politica estera e di una più larga apertura verso il mondo più povero che preme alle sue porte».

Andrea Spiri (2012)

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