Fischler, Franz

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Dopo gli studi di agraria all’Università di Vienna, F. (Absam, Innsbruck 1946) nel 1973 cominciò a lavorare come assistente di Economia agraria in questa stessa università dove rimane, dopo aver conseguito il dottorato nel 1978, sino all’anno seguente. Il suo primo coinvolgimento nelle questioni europee risale agli anni Settanta. Quando ancora era studente universitario a Vienna, F. organizzò alcuni incontri per discutere le idee di Sicco Mansholt sulle sovvenzioni all’agricoltura (v. anche Politica agricola comune). Nel 1968 Mansholt, in un memorandum noto come “progetto Mansholt” (v. Piano Mansholt), aveva individuato due obiettivi prioritari: la modernizzazione delle aziende agricole e il miglioramento della trasformazione e della commercializzazione dei prodotti agricoli. In uno di questi dibattiti, in presenza di Günther Tiede, che allora era a capo dell’ufficio di statistica agraria a Bruxelles, gli studenti espressero le loro perplessità sul progetto Mansholt. Ritenevano che l’idea di fornire sovvenzioni solo ad aziende agricole “abbastanza grandi” avrebbe decretato la fine dell’agricoltura alpina. Divenuto responsabile delle questioni relative all’agricoltura sul piano europeo F. si sarebbe “convertito” alle idee di Mansholt (v. Fischler, Hagspiel, 2000, p. 16), ma le regioni alpine gli resteranno sempre particolarmente a cuore.

Lasciata l’università, F. divenne vicedirettore alla Camera dell’agricoltura del Tirolo, occupandosi di cultura e istruzione, di progettazione e di protezione ambientale. In vista dell’ingresso dell’Austria nell’Unione europea nel 1987, l’allora ministro dell’Agricoltura Joseph Riegler – in seguito successore di Alois Mock a capo del Partito popolare (Österreichische Volkspareti, ÖVP) – avviò alcune riforme politiche. Secondo F. le riforme erano solo un modesto punto di partenza che scalfiva appena la struttura estremamente antiquata rimasta in vita durante il dopoguerra. La riforma cercava di ridurre le eccedenze incoraggiando gli agricoltori ad astenersi volontariamente dal fornire interamente le loro quote, compensando i mancati redditi con sovvenzioni dirette – una caratteristica dell’agricoltura peraltro ben nota ai paesi europei. Fino al 1992 la garanzia dei redditi in Europa fu assicurata dalla politica dei prezzi: si cercava di proteggere il livello elevato dei prezzi interni, in modo che la produzione interna non risentisse negativamente dei bassi prezzi delle importazioni. L’Accordo generale sulle tariffe e il commercio (GATT) – (v. Organizzazione mondiale del commercio) aveva imposto una riduzione delle sovvenzioni interne, dei dazi esterni e delle esportazioni sovvenzionate.

Nel 1985 F. divenne direttore della Camera dell’agricoltura del Tirolo e conservò quest’incarico fino al 1989, quando fu nominato ministro dell’Agricoltura e delle foreste. F. riteneva che dopo le timide riforme avviate dal suo predecessore fossero necessarie decisioni di portata più ampia. Comunque il suo compito principale consistette nel preparare gli agricoltori austriaci all’Adesione all’Unione europea. Specialmente durante il periodo precedente al referendum F. si adoperò per convincere gli agricoltori della positività di questa scelta, esercitando pressioni e negoziando con gli agricoltori per indurli ad accettare riforme molto più radicali al fine di rendere l’agricoltura austriaca idonea ai requisiti dell’Unione europea.

In Austria gli agricoltori potevano contare su un ampio sostegno del resto della popolazione, a differenza di quanto accadeva in altre parti d’Europa. Quindi il referendum austriaco fu deciso in buona parte nella convinzione che l’agricoltura non solo non avrebbe subito perdite, ma sarebbe stata persino avvantaggiata dall’adesione all’Unione europea (UE). Restare fuori all’Unione peraltro sarebbe stato rischioso. Infatti, in caso di insuccesso del referendum, gli agricoltori non solo si sarebbero trovati ad affrontare le rappresaglie del mondo industriale (che voleva fortemente l’adesione), ma anche il malumore del Partito socialdemocratico al governo. Il governo avrebbe potuto sospendere le ingenti sovvenzioni per le eccedenze di produzione se gli agricoltori non avessero più dato il loro sostegno ai socialdemocratici.

Parte degli accordi “interni” riguardava quindi la crescita del PIL atteso dalle organizzazioni industriali, le più favorevoli all’ingresso dell’Austria nell’Unione europea. Di conseguenza F. negoziò una “ridistribuzione” dell’atteso aumento del PIL a favore degli agricoltori, allo scopo di persuaderli a votare per il referendum. Un altro accordo riguardava l’avanzamento della riforma per la trasformazione del latte, un punto molto sensibile. Occorreva cambiare le regolamentazioni in vigore del mercato, il che richiedeva una maggioranza dei due terzi del Parlamento. Quindi si trattava di una sfida molto delicata, dal momento che in Austria l’influente coalizione sociale formata dai rappresentanti delle Camere di commercio, dai presidenti delle Camere dell’agricoltura, dalle Camere del lavoro e dai sindacati aveva preso per anni le decisioni necessarie più o meno al suo interno. In qualità di ministro F. riteneva che le loro decisioni di solito scavalcassero gli intenti del ministero. Nondimeno, di regola, era lui a coordinare tali decisioni insieme al ministro delle Finanze. Il mercato austriaco era organizzato in modo tale per cui gli agricoltori nel corso di decenni avevano prodotto per un mercato interno protetto senza assumersi alcun rischio, mentre ora la riforma esigeva che rinunciassero a questi vantaggi. Malgrado facessero di tutto per opporsi – a quanto pare esisteva anche un progetto segreto per sbarazzarsi di F. – i loro tentativi falliranno.

L’Austria entrò a far parte della UE durante la presidenza alla Commissione europea di Jacques Santer (v. anche Presidente della Commissione europea), che in quel periodo cercava un commissario per l’agricoltura e lo sviluppo rurale. Il capo gabinetto di Santer, Jim Cloos, che conosceva F., propose il suo nome. In principio F. era titubante, preoccupato soprattutto da una burocrazia gestita in una lingua straniera, ma alla fine accettò la proposta, diventando quindi nel 1995 il primo commissario europeo di nazionalità austriaca. Da allora in poi (F. sarà confermato anche sotto la presidenza di Romano Prodi, dopo le dimissioni della Commissione guidata da Santer) conserverà il suo incarico di membro della Commissione europea per l’agricoltura, lo sviluppo rurale e, fino al 1999, anche per la pesca.

Dopo l’ingresso nell’Unione europea dell’Austria si verificarono importanti cambiamenti riguardanti il mercato, la politica dei prezzi e dello sviluppo, l’organizzazione dei mercati agricoli e i rapporti di concorrenza (v. anche Politica europea di concorrenza). Innanzitutto i prezzi diminuirono, in parte più di quanto ci si aspettasse (i prezzi di produzione erano superiori del 40% rispetto a quelli dell’UE), circostanza che penalizzava particolarmente gli agricoltori in quanto l’Austria non aveva avuto un periodo di adattamento. Secondo il resoconto del ministro dell’Agricoltura il prezzo di produzione del latte era diminuito di un terzo (era quindi inferiore a quello della Baviera, che comunque aveva un’industria del latte più efficiente), il prezzo del grano era diminuito della metà rispetto al prezzo precedente, la carne di maiale del 20% e quella di manzo del 17%. Questi divari furono coperti con pagamenti diretti attinti da vari fondi europei. A differenza di quanto avveniva nel sistema austriaco, in genere le aziende di maggiori dimensioni e più avvantaggiate ricevono sussidi maggiori, e ciò favorisce in particolare l’area orientale del paese. Agli occhi degli agricoltori della regione alpina (per la maggior parte nei territori occidentali) ciò appare un paradosso: la distribuzione della spesa agricola va infatti a tutto vantaggio delle aree più ricche e delle aziende più forti. Prima dell’ingresso nella UE i finanziamenti nazionali erano strutturati in senso spiccatamente regionale in ragione delle difficili condizioni di produzione, non in ragione del reddito, al fine di evitare l’abbandono delle zone svantaggiate. Per queste aree tuttavia l’Austria riuscì a ottenere uno speciale aiuto annuale, la cosiddetta “indennità compensativa”, a compenso appunto dei maggiori costi derivanti dalle più difficili condizioni naturali di produzione. Le aziende delle zone montane avrebbero potuto ricevere sovvenzioni per una produzione rispettosa dell’ambiente, ma anche in questo caso indipendentemente dalle dimensioni delle superfici coltivate e senza limiti massimi di produzione.

Assieme ai colleghi austriaci F. cercò di accentuare i criteri sociali e le indennità fondamentali e di ottenere condizioni di favore per gli agricoltori della regione alpina. In contrasto con la tendenza generale a considerare l’agricoltore come un imprenditore, gli agricoltori alpini in quest’ottica sono ritenuti meritevoli di aiuti economici non solo per la loro attività integrativa nell’interazione fra natura e società, ma anche per il loro ruolo nella preservazione del modello di vita del villaggio rurale alpino; si mette quindi in risalto l’importanza multifunzionale degli agricoltori. Poiché nella UE le aree agricole svantaggiate ammontano al 56%, gli aiuti finanziari sono distribuiti in modo generalizzato, senza distinzioni e specificazioni. Tuttavia secondo F. i fondi dovrebbero andare alle regioni realmente svantaggiate attraverso gli aiuti diretti, aboliti nel periodo delle eccedenze. Anche in questo caso, tuttavia, occorre perseguire la modernizzazione e l’incremento di valore delle aziende agricole, in quanto i prezzi non possono essere indipendenti da quelli del mercato globale. I cambiamenti strutturali dovranno portare alla creazione di medie e piccole imprese in quelle regioni, in modo da frenare la disoccupazione agricola con la creazione di nuovi posti di lavoro. Un’altra fonte di reddito alternativo potrebbe essere offerta dal turismo integrato. Secondo F., l’ingresso dell’Austria nella UE non ha portato svantaggi agli agricoltori, anzi a partire dal 1995 i loro redditi hanno avuto un’evoluzione positiva.

Uno dei primi obiettivi della Comunità economica europea è stato quello di creare un mercato comune. Il Mercato unico europeo riguardava specialmente l’agricoltura e il potenziale economico del suo settore alimentare, come dichiarava il Rapporto Cecchini (1985). Ciononostante la politica agraria nei vari paesi si conformava a modelli di mercato di matrice ottocentesca; occorreva quindi procedere ad una armonizzazione degli ordinamenti dei mercati per garantire competitività al mercato unico. Ma i criteri di una Politica agricola comune (PAC) furono concepiti nel 1962, quando la fame e la povertà erano un ricordo ancora molto vivo in Europa, ed erano quindi caratterizzati dalla tendenza ad acquistare tutta la produzione agricola, al fine di assicurare un ampio approvvigionamento di generi alimentari. Ma questo sistema divenne del tutto obsoleto quando gli agricoltori cominciarono a produrre eccedenze che non potevano essere consumate (in particolare di burro e di latte); inoltre esso incoraggiava negli agricoltori la tendenza a non assumere rischi e a non investire nell’innovazione.

Si imponeva urgentemente una riforma della PAC. Nel 1992 la Commissione varava una riforma destinata a far piazza pulita di strutture ormai inadeguate, in parte responsabili delle eccedenze fuori controllo degli anni Ottanta. Si procedette quindi a una riduzione dei prezzi dei prodotti agricoli per adeguarli ai prezzi mondiali. Le conseguenti perdite di profitti sarebbero state compensate da pagamenti diretti. In questo modo si teneva conto anche delle esigenze dei nuovi paesi membri, diversificate a seconda del clima, della conformazione del suolo, della compagine politica e via dicendo. La riforma era quindi un importante passo in avanti nella politica agricola dell’Unione. Ma i prezzi mondiali permanevano molto più bassi rispetto a quelli della UE, per cui secondo alcuni critici (v. Gardner, 1996) la riforma si sarebbe limitata a tamponare il problema delle eccedenze incontrollate degli anni Ottanta. F. tuttavia ribatteva che il principio guida della riforma, consistente nel separare la politica dei prezzi dalla politica del reddito, si era dimostrato giusto, soprattutto per quel che riguardava il reddito degli agricoltori. Non va peraltro dimenticato che all’interno della UE il reddito degli agricoltori è rappresentato per il 40% da pagamenti diretti dell’Unione.

Non appena F. assunse il suo incarico di commissario a Bruxelles si trovò ad affrontare una grave emergenza, connessa all’epidemia di encefalopatia spongiforme bovina (BSE) collegata alla sindrome di Creutzfeld-Jacob (CJD; v. Fischler e Hagspiel, 2000, p. 32). L’agente infettivo dell’encefalopatia spongiforme era stato scoperto solo nel 1990, ed era convinzione diffusa che si trattasse di una forma analoga alla scrapie, una malattia degli ovini nota da oltre due secoli. Poiché fino ad allora la scrapie non si era dimostrata trasmissibile all’uomo, si presumeva che anche l’infezione bovina non fosse contagiosa per l’uomo. Nel 1996 il comitato scientifico britannico pubblicò il suo famoso rapporto sull’encefalopatia spongiforme in cui si affermava che molto probabilmente era causa di una nuova malattia, nota come sindrome di Creutzfeld-Jacob. Questa notizia naturalmente fu un’autentica bomba. I media dipinsero uno scenario apocalittico, prefigurando la morte di 100.000 persone e di 12 milioni di capi di bestiame. Tuttavia il vero problema era quello di stabilire la quantità necessaria perché gli esseri umani fossero infettati. A Charles Weissmann, esperto di prioni, venne chiesto di organizzare le ricerche scientifiche per scoprirlo.

Dietro suggerimento di F., la Commissione vietò l’esportazione di carne del Regno Unito, misura che ebbe come conseguenza una nuova “crisi della sedia vuota”. Nonostante la tempestività delle misure adottate, la loro applicazione richiese più tempo di quanto non si prevedesse e alla fine il divieto di esportazione rimase in vigore per tre anni. La Commissione pubblicò due rapporti sull’encefalopatia spongiforme: First Bi-annual BSE follow-up report – COM(1998) 282 final – e Second bi-annual BSE follow-up report – COM(1998)589 –, con i contributi del vertice di Firenze (1996), in larga parte formulati dallo stesso F.

Il primo Rapporto concerneva l’attività di ricerca necessaria per trovare un test valido per la BSE, nonché le misure da intraprendere a livello europeo per evitare che qualsiasi materiale infetto entrasse nella catena alimentare. La causa della malattia era imputata all’uso delle farine animali nell’alimentazione dei bovini. Si provvide quindi a mettere al bando definitivamente questa pratica nell’Unione europea, evitando, in questo modo, il riciclaggio dell’agente infettante attraverso l’utilizzo di carcasse di bovini malati nella produzione di farine di carne ed ossa destinate all’alimentazione animale. Venne inoltre disposta la distruzione del materiale specifico a rischio per encefalopatie spongiformi bovine e delle proteine animali ad alto rischio. Per quanto riguarda gli aiuti alle vittime, si dovette tener conto delle differenze nazionali. In alcuni paesi erano riconosciuti solo i casi confermati, in altri erano riconosciute malattie simili, in altri erano presi in considerazione solo casi di malattia denunciabili alle autorità sanitarie. Nell’arco di due anni i casi aumentarono anche in seguito ad un’accresciuta consapevolezza tra i medici. Inoltre furono scoperte nuove varianti di CJD (nvCJD), che contribuirono ad accrescere il numero di persone interessate al contagio.

Particolarmente illuminanti risultano i rapporti sull’adempimento del Diritto comunitario. Ovviamente si rendevano necessarie numerose ispezioni e anche procedure che violavano la sovranità degli Stati membri al fine di stabilire un’azione comune prendendo provvedimenti contro la BSE e quindi contro violazioni del diritto comunitario in materia di BSE. Le irregolarità riguardanti il commercio di carne non in regola furono un problema di coordinamento non tanto fra la polizia e le dogane quanto piuttosto fra servizi veterinari e dogane nazionali. L’inefficienza nell’applicare le decisioni (v. Decisione) della Comunità da parte degli uffici veterinari nazionali fu uno dei motivi principali della scarsa incisività della battaglia contro la BSE nei casi in cui la carne contaminata entrò di fatto nella catena alimentare. L’Ufficio europeo per la lotta antifrode per due volte ordinò controlli sul posto da parte del Food and veterinary office (FVO).

Il 27 marzo 1996 la Commissione impose un divieto assoluto di esportazione di animali bovini vivi, delle loro carni e dei prodotti di carne, sego e gelatina, e di alimenti derivati da carne e ossa di mammiferi provenienti dalla Gran Bretagna. L’11 giugno 1996 le esportazioni furono riprese a rigide condizioni. Il 18 marzo 1998 furono esclusi gelatina, fosfati di calcio, collagene, sego, prodotti di sego, e prodotti derivati da sego prodotto in Gran Bretagna da animali macellati in questo paese, vietandone l’uso nella catena alimentare umana ed animale o nella manifattura di prodotti cosmetici, medici o farmaceutici. Furono promulgate leggi per individuare gelatina e altri prodotti, imponendo condizioni più severe in materia di etichettatura, marchi e certificazioni. Nel maggio 1998 fu compiuto il primo passo per revocare il divieto contro la Gran Bretagna. Il bestiame dell’Irlanda del Nord poteva essere esportato dal momento che tutte le condizioni erano state ottemperate e che inoltre era stato creato un sistema informatizzato di rintracciabilità.

Nel secondo Rapporto si dichiarava che l’eliminazione del “materiale specifico a rischio” dagli alimenti e dalla catena alimentare non era stata coronata da successo in quanto era stata ostacolata dal Consiglio dei ministri, che non aveva trovato un accordo su un approccio comune. Di conseguenza le raccomandazioni erano rimaste inefficaci in rapporto alla prevenzione del rischio su base comunitaria. Furono esercitate forti pressioni per un test BSE post mortem e i risultati dei test di convalidazione erano attesi per l’inizio del 1999. Comunque l’emergenza avrebbe contribuito a rendere operanti nuove strutture per i comitati scientifici e sistemi di controlli da parte del FVO, incoraggiando altresì l’ottimizzazione delle strutture esistenti.

Già nel 1993, con il Trattato di Maastricht (art. 129), si era cominciato ad affrontato il tema della tutela della salute pubblica. In un contesto internazionale, insieme con l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) gli accordi Sanitary and phytosanitary measures (SPS) servirono a bloccare le misure protezionistiche in nome del diritto alla tutela della salute. In generale, la sicurezza alimentare diventerà un problema della Comunità piuttosto che dei paesi membri. In seguito al Rapporto Ortega, alcuni mesi dopo il divieto di esportazione per la carne britannica, nel maggio 1997, la Commissione pubblicò un Libro verde (v. Libri verdi) sui principi generali delle normative alimentari nell’Unione europea che faceva tesoro dell’esperienza della BSE. All’epoca del primo Rapporto erano stati raccolti pareri al fine di stabilire azioni future concernenti la normativa alimentare. Nel novembre 1997 fu organizzata insieme al Parlamento europeo una conferenza sulle politiche e sulle normative relative alla sicurezza degli alimenti. F. riteneva che nei consumatori si fosse ingenerata la sfiducia non solo nei confronti della carne bovina, ma più in generale anche nei confronti dei prodotti geneticamente modificati; di conseguenza uno degli obiettivi primari avrebbe dovuto essere quello di riconquistare la fiducia dei consumatori puntando alla sicurezza alimentare. Come si legge nel Rapporto Böge del 1997, la «sicurezza alimentare è più che mai una questione di interesse pubblico vitale, e si deve fare di tutto per recuperare la fiducia dei consumatori, gravemente scossa dalla crisi dalla conseguente alla BSE».

Il problema acquistò ulteriore evidenza a seguito dello “scandalo della diossina” nel 2000. Il successivo Libro bianco (v. Libri bianchi) sulla sicurezza alimentare impose 80 misure relative al cibo animale, alla salute e al benessere, all’igiene, alle contaminazioni, agli alimenti nuovi, agli additivi, agli aromi e all’imballaggio. Era prevista un’Autorità europea per la sicurezza alimentare. Tutte le questioni relative alla sicurezza alimentare sarebbero diventate responsabilità della direzione generale Salute e tutela dei consumatori (SANCO) in Irlanda.

L’Unione europea è la maggiore importatrice e la seconda maggiore esportatrice al mondo nel settore agricolo. A seguito degli accordi raggiunti nell’ottavo incontro dell’Uruguay round del 1993 si rendeva necessario compiere nuovi passi. Di conseguenza l’“Agenda 2000” proponeva ulteriori riforme da attuare entro il 2006. Nell’ambito dell’“Agenda 2000” F. suggeriva nuove misure, indicando nello sviluppo delle aree rurali un secondo obiettivo chiave della PAC.

Per definire l’area rurale fu elaborato un nuovo modello che non faceva riferimento solo alla densità della popolazione ma anche alle unità funzionali e amministrative. Furono definite tre regioni: area rurale integrata, area rurale intermedia, area rurale remota. In queste aree meno favorite (Less favoured areas, LFA) il PIL è più basso dell’8-30% rispetto alla media nazionale, la popolazione è costantemente in calo e la disoccupazione tende ad essere elevata. Dove la popolazione è troppo vecchia, la disoccupazione evidente e la società rurale a rischio, i fondi strutturali avrebbero cercato di creare nuove opportunità di occupazione per gli agricoltori, specialmente nel settore terziario.

F. suggerì ulteriori riforme, proponendo di focalizzare l’attenzione non tanto sulle misure quantitative, quanto piuttosto su quelle qualitative, come la protezione ambientale, la protezione degli animali, la qualità dell’alimentazione, la preservazione delle aree culturali. Queste misure aiutato avrebbero aiutato specialmente le aziende agricole di piccole dimensioni come quelle delle regioni alpine. Tuttavia, queste proposte sollevarono numerose proteste fra le associazioni degli agricoltori. Le sovvenzioni svincolate dalla produzione avrebbero trasformato gli agricoltori in beneficiari della “carità” di Bruxelles, rendendoli troppo dipendenti dalle decisioni politiche della Comunità.

Un’altra sfida per la politica agricola europea era legata all’Allargamento verso Est. F. aveva formulato una strategia presentata nel 1995 al Consiglio europeo di Madrid (Agricultural strategy paper 1995: COM(95) 607), in cui ribadiva che il prezzo dell’integrazione (v. anche Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della) sarebbe stato elevato e avrebbe richiesto sacrifici da entrambe le parti, «perché in questo caso non si può agire limitandosi ad inviare esperti e qualche aiuto economico» (v. Fischler, 2000), ma che comunque si trattava di un obiettivo possibile. Nel documento si esprimeva anche la volontà di favorire la coesione sociale ed evitare il divario fra Est e Ovest. Per aiutare i nuovi futuri membri all’adeguamento prima dell’adesione, veniva approntato il programma Special accession programme for agriculture and rural development (SAPARD).

Nei nuovi dieci paesi Central and Eastern European countries (CEEC) il 22% della forza lavoro (9,5 milioni di persone) è occupata nell’agricoltura, contro il 5% nell’Unione europea (8 milioni di persone). Le terre coltivate si amplieranno del 55% aggiungendo all’area agricola dell’Unione quasi 200 milioni di ettari. Le prevedibili eccedenze avrebbero due conseguenze principali: il divario fra il livello dei prezzi della UE e il mercato mondiale resterebbe significativo e i vincoli imposti dall’Organizzazione mondiale del commercio sulle esportazioni sovvenzionate potrebbero impedire all’Unione allargata di vendere le sue eccedenze a mercati terzi. Quindi occorre procedere a una modernizzazione onerosa (in termini di disoccupazione degli agricoltori) per ridurre l’eccesso di capacità produttiva.

Secondo lo Strategy paper del 1995 occorreva ristrutturare le economie rurali in vista della diversificazione. Un aspetto importante sarebbe stata la riduzione del divario dei prezzi e il sostegno al processo di adeguamento strutturale. Di conseguenza, invece di pagamenti diretti una quota significativa della spesa sarebbe stata destinata alle riforme strutturali e allo sviluppo rurale. La politica della PAC sarebbe stata riorientata verso i redditi diretti al fine di rispondere alle esigenze dei candidati, ma anche di evitare una sovracompensazione (e possibili tensioni sociali), in quanto era prevedibile un aumento dei prezzi (e dei redditi) nei Paesi candidati all’adesione dell’Europa centrale e orientale. Un ostacolo a questo processo era costituito dalla sistemazione definitiva dei diritti di proprietà, l’allineamento della legislazione e delle infrastrutture amministrative, i vincoli sul capitale e l’inefficienza del settore a valle.

Nel 1999 la competenza per il settore della pesca si trasferì alla direzione dell’Agricoltura e quindi divenne responsabilità di F. L’equivalente della PAC per la pesca è la Politica comune per la pesca (PCP) e i loro obiettivi sono simili: incremento del reddito e garanzia di uno standard di vita dignitoso per i lavoratori del settore, come pure prezzi regolati garantiti dalla stabilità e dall’approvvigionamento del mercato, sostegno alla non discriminazione fra gli Stati membri e speciale attenzione alla componente ambientale, con particolare riguardo allo sviluppo sostenibile. Entrata in vigore nel 1992, la PCP sarebbe stata operativa con lo schema previsto sino al 2006, con il finanziamento dei fondi strutturali incluso lo Strumento finanziario di orientamento della pesca (SFOP).

Il Libro verde della Commissione metteva in luce una serie di problemi al fine di sollecitare le decisioni necessarie per una migliore gestione del settore. Si riscontra qui un conflitto di obiettivi: sono indispensabili progressi nel settore, ma al tempo stesso occorre mirare a uno sfruttamento sostenibile delle risorse. L’esigenza di modernizzazione si scontra con i vincoli imposti alla pesca e la riduzione della capacità delle flotte non si concilia con la salvaguardia dell’occupazione. Inoltre, l’obiettivo di incrementare il reddito appare difficile da realizzare dovendo ridurre la produzione aumentando parallelamente le importazioni. Lo sfruttamento sostenibile delle risorse acquatiche pone il problema più grave: gli stock ittici, in particolare i merluzzi, hanno superato i limiti biologici di sicurezza, e si rende necessario un mutamento radicale nella gestione della pesca.

Le ragioni sono varie: la sovracapacità delle flotte, il progresso della tecnologia nautica che consente di pescare più del previsto (dal momento che le quote sono applicate alla potenza del motore e al tonnellaggio), la scarsa coordinazione nella gestione delle flotte e delle attività di pesca, l’inefficace applicazione delle decisioni. Inoltre, le quote annuali sono troppo elevate (sono organizzate in base a tetti e misure tecniche delle reti) e sono state anche estese dagli Stati membri al di là dei limiti raccomandati dalla Commissione. Tuttavia non tutti i problemi dipendono da uno sfruttamento eccessivo delle risorse ittiche. L’inquinamento delle acque causato dall’industria e dall’intervento antropico e i cambiamenti climatici si aggiungono ai problemi già esistenti. Si rende quindi assolutamente necessario un programma di salvaguardia delle risorse ittiche, ma il controllo e le sanzioni sono in mano agli Stati membri piuttosto che alla Commissione.

Questo sembra essere il problema principale: la distribuzione di responsabilità fra Stati membri e Commissione. I sistemi di supervisione e di controllo non sono unificati e provocano discrepanze all’interno dell’Unione, specialmente per quanto concerne le sanzioni. Le modalità e l’entità delle sanzioni variano ampiamente all’interno dell’Unione. Le regolamentazioni sono estremamente complesse, il che ne ostacola l’applicazione. Inoltre i controlli sono difficili a causa della dimensione delle maglie delle reti e della cattura contemporanea di varie specie.

Sia i pescatori che gli attori politici non si sentono abbastanza coinvolti nella gestione della pesca, che vedono influenzata dai consiglieri scientifici, e quindi seguono le decisioni molto fiaccamente. La loro esperienza e le loro opinioni devono comunque essere integrate in modo molto più ampio nei programmi di gestione della pesca per garantire fiducia e cooperazione.

Più di ogni altra cosa è necessario un sistema unificato per assicurare parità tra gli Stati membri. Il tentativo di attribuire più poteri ai funzionari della Commissione per il controllo sono stati respinti dagli Stati membri. Le sanzioni in questo modo non possono essere efficaci. Tutto questo significa che alla Commissione è stata assegnata una competenza, ma non il personale né la giurisdizione necessari.

Un aspetto trascurato è la dimensione sociale nell’ambito della pesca. Il bilancio annuale della pesca ammonta a 1,1 milioni di miliardi di Euro e copre investimenti diretti e acquacolture (v. anche Bilancio dell’Unione europea). Inoltre i fondi strutturali sono destinati alle regioni caratterizzate da sottosviluppo e sviluppo adattivo. La PCP avrebbe dovuto aiutare i pescatori ad adattarsi a possibili redditi alternativi, ma non ha avuto successo su larga scala. La Commissione ha dovuto prendere atto del fatto che gli investimenti in sovvenzioni dei decenni precedenti sono stati in certa misura controproducenti. La sovracapacità ha conseguenze negative sul reddito, sulla modernizzazione e sulla competitività. In ogni caso gli aiuti finanziari sono stati immessi in un mercato sovracapitalizzato, con la conseguenza di abbassare artificialmente i costi d’investimento e il rischio. In questo modo la competitività risulta distorta, in quanto negli stessi territori di pesca si trovano a competere flotte sovvenzionate e non sovvenzionate.

Il settore della pesca risulta in costante declino. La diminuzione complessiva del 13% significa una perdita di 60.000 posti di lavoro. Dal 1990-1997 le riduzioni nell’attività di produzione e di trasformazione hanno toccato il 19%. Per contro l’acquacoltura ha mostrato una tendenza all’incremento (+22%), trasformandosi in una fonte di reddito alternativa. Tuttavia, a causa delle condizioni ambientali i prezzi di produzione sono aumentati, riducendo la quota dei fondi destinata alla commercializzazione. La dipendenza dalla pesca è più elevata nelle regioni senza possibilità di redditi alternativi, e secondo alcuni gli investimenti potrebbero aver aumentato questa dipendenza.

La lavorazione del pesce nell’Unione europea soffre di gravi inefficienze. Le aziende sono in gran parte di piccole e medie dimensioni e non si adeguano agli standard richiesti per le materie prime. Alcune aziende si fondono o vengono incorporate da grandi società alimentari che operano a livello regionale o europeo. Questi sviluppi hanno determinato una serie di cambiamenti strutturali che consentono un livello più elevato delle attività di trasformazione e un incremento di valore.

Senza misure e idee nuove le prospettive future e la capacità di sopravvivenza della pesca europea sono destinate a un costante declino. Perciò nel settore della pesca si rende necessario uniformare e aggiornare le regolamentazioni e le sanzioni, assicurando un maggior coordinamento dei controlli. Occorre sviluppare una equa ripartizione delle responsabilità, obiettivi più chiari e regole di gestione efficaci, al fine di rafforzare la considerazione del fattore ambientale ai sensi dell’articolo 174 (CE) sulla tutela dell’ambiente (v. anche Politica ambientale). Ma è necessaria anche una maggior informazione sull’interazione fra ecosistemi e pesca, ed è previsto un piano d’azione per la varietà biologica – COM(99) 363.

Il dicembre 2002 ha rappresentato una svolta significativa per la riforma delle politiche comuni per la pesca. Sono stati decisi piani di gestione pluriennali per garantire redditi più stabili ai pescatori. Sono stati altresì elaborati piani di ricostituzione e misure di conservazione che limitano la quantità massima di pesce che può essere catturata da uno stock specifico nell’arco di un determinato periodo di tempo. Controlli efficaci, trasparenti e armonizzati devono essere messi in atto contro la pesca illegale. Sono state previste altresì misure per fronteggiare il problema della sovracapacità delle flotte. Gli interessati, in particolare i pescatori, dovranno inoltre partecipare maggiormente al processo di gestione della PCP. Un altro piano d’azione è stato messo a punto per vietare sia l’uso di navi con bandiere ombra, sia l’attracco nei porti senza gli adeguati controlli al fine di combattere la pesca di frodo.

Anche dopo le riforme del 1992 la PAC continua a essere oggetto di critiche, poiché incide per quasi il 50% sul bilancio dell’Unione europea, mentre contribuisce solo per il 3% circa al suo PIL. Contro queste critiche F. ritiene che la situazione può essere considerata soddisfacente e che senza la riforma le condizioni degli agricoltori sarebbero peggiori. Si rende tuttavia necessario uno schema di orientamento per il futuro. Con il disegno di legge per l’agricoltura varato dagli Stati Uniti, che fa un passo avanti in direzione dell’abolizione dell’intervento statale nel settore agricolo, si prospetta un’ulteriore liberalizzazione e si preannunciano altri incontri dell’OMC. La separazione della politica dei prezzi dalla politica dei redditi è stato un passo nella direzione giusta, ma l’Europa piuttosto che guardare al GATT dovrebbe concentrarsi sull’obiettivo di rendere competitivi i suoi prodotti agricoli.

Margaret Mantl (2008)

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