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Mollet, Guy Alcide

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M. (Flers de l’Orne 1906-Parigi 1975), proveniente da una famiglia di origini modeste e rimasto precocemente orfano, dovette lavorare per poter studiare, e ciò contribuì indubbiamente a una sua precoce politicizzazione. Nel 1923 aderì al Partito socialista – Sezione francese dell’internazionale operaia (Section française de l’Internationale ouvrière, SFIO), svolgendo allo stesso tempo un’intensa attività sindacale che gli valse varie sanzioni. Trasferito di autorità ad Arras nel 1925, diventò nel 1928 segretario federale delle Gioventù socialiste. Tornato dal servizio militare, il suo impegno politico si diversificò: partecipò attivamente alla campagna legislativa del 1932; diventò nel gennaio del 1934 segretario del gruppo degli “Amici della Bataille socialiste” (della SFIO) del Pas-de-Calais; entrò a far parte qualche mese dopo del Grande oriente. Si radicalizzò progressivamente, in nome di un pacifismo integrale, sostenendo senza riserve le posizioni della tendenza redressement della SFIO a partire dal 1938. Richiamato alle armi nell’agosto del 1939, fu fatto prigioniero e mandato al campo di Weinsberg, per poi rimpatriare nel 1941. Ebbe una discreta attività resistenziale, prima nell’Organisation civile et militaire (OCM), poi nelle Forces françaises de l’intérieur (FFI) nel giugno 1944. Tornato ad Arras, riprese la sua attività politica diventando segretario del Comitato provinciale di liberazione e membro del Comune provvisorio, nonché direttore politico del giornale “Libre Artois”.

La liberazione accelerò la carriera politica di M. Da una parte, ricoprì diverse cariche elettive: sindaco di Arras (riconfermato nel 1947 e nel 1953), presidente del consiglio regionale (fino al 1948) e deputato (carica che ricoprirà fino alla sua morte nel 1975). Dall’altra, forte del controllo della principale federazione del partito – quella del Pas-de-Calais – e dell’autorità acquisita nel febbraio del 1946 alla presidenza della Commission de la constitution de l’Assemblée constituante, dove si distinse per la sua intransigenza, riuscì ad impadronirsi della SFIO nel 1946. Lo fece attraverso la denuncia, in nome dell’unità d’azione con il PCF, di qualsiasi tentativo di laburismo alla francese, una prospettiva allora auspicata dal segretario generale Daniel Mayer e da Léon Blum. La maggioranza che venne a crearsi attorno a lui per rovesciare la direzione uscente, tuttavia, esprimeva non tanto una linea politica precisa quanto un malcontento generale risultante dalle prime delusioni elettorali, scontando anche il fatto che M. sembrava facile da controllare data la sua poca esperienza dell’apparato del partito (partecipava per la prima volta a un congresso nazionale nel 1945). In questo modo, la sua elezione a segretario generale della SFIO, carica che manterrà fino al 1969, fu il risultato di un compromesso finale e ci vollero ancora due anni perché M. consolidasse la propria leadership: solo a partire dal 1948, una volta acquisito il carattere definitivo della rottura con i comunisti ed effettuata la scelta di campo, ebbe una maggioranza stabile ai congressi, fino alla fine degli anni Sessanta. Del resto, mentre era stato di nuovo designato membro della Commissione per la Costituzione nella seconda Assemblea costituente, e diventato ministro di Stato nel governo Blum (dicembre 1946-gennaio 1947), da allora e fino all’inizio degli anni Cinquanta, non partecipò più a nessun governo ed ebbe un’attività parlamentare assai ridotta (non fece parte di nessuna commissione, non depose alcuna proposta di legge, né alcuna risoluzione, intervenne poco), consacrandosi al partito e ai suoi mandati locali. Alla morte di Léon Blum nel 1950, diventò l’ispiratore della politica del partito.

L’interesse di M. per le questioni europee fu assai tardivo e risale agli inizi del 1948. La guerra aveva avuto come conseguenza di marginalizzare le tendenze più pacifiste del partito e, come la maggior parte dei suoi compagni, M. guardava nel 1945 innanzitutto all’ONU per organizzare la pace. Furono il blocco dell’istituzione, e soprattutto l’evoluzione del quadro internazionale a spingerlo a prendere in considerazione un’organizzazione autonoma dell’Europa e a dedicarvi buona parte delle sue energie e del suo tempo, contribuendo in questo modo a fare dell’integrazione europea uno degli obiettivi prioritari della SFIO e dell’europeismo uno dei tratti principali dell’identità politica dei socialisti francesi nel secondo dopoguerra (v. anche Integrazione, teorie della: Integrazione, metodo della). Questa svolta aveva anche un carattere tattico in quanto consentiva a M. di avvicinarsi agli europeisti più convinti della SFIO e di rafforzare la propria leadership all’interno del partito. Per quanto la sua conversione fu reale e il suo impegno diffuso, le sue mosse e i suoi interventi ebbero quasi sempre a che fare con gli equilibri interni al suo partito.

Il precipitare della Guerra fredda convinse quindi M. della necessità urgente di organizzare l’Europa occidentale. Conveniva, avrebbe riferito alla direzione il 18 febbraio del 1948, «accettare soluzioni europee prima di cercare di realizzare soluzioni mondiali, anche se queste soluzioni europee sono insufficienti, perché rappresentarono sempre qualcosa di meglio delle soluzioni semplicemente nazionali». Nella stessa riunione, inoltre, sostenne la necessità di organizzare l’Europa anche a prescindere da un suo contenuto prettamente socialista: «Non bisogna attendere che l’Europa sia socialista prima di federarla. Invece, una volta federata, bisognerà farla diventare socialista» (v. Federalismo). Il monopolio del tema federalista non andava lasciato ad altri. Una posizione, questa, lontana da quella espressa allora dal Labour, deciso a non andare al Congresso dell’Aia, ma condivisa dalla maggior parte del comitato direttivo del partito. Per solidarietà con gli inglesi, tuttavia, la SFIO non partecipò alla conferenza, ma vi inviò i suoi membri a titolo individuale. Nonostante M. non condividesse l’intransigenza del Labour, la sua volontà di coinvolgerlo nel processo in corso fu una costante della sua azione almeno fino all’inizio degli anni Cinquanta.

In un primo momento, M. cercò nella ricostruzione del Movimento socialista internazionale il modo per progettare e attuare questo ideale europeo. L’Internazionale socialista (IS) ricostituita si sarebbe dovuta impegnare nel processo in corso, conferendogli un’impronta socialista. Un’impronta necessaria per assicurare la costruzione di un’Europa terza forza, non neutrale, ma in grado di opporsi alla logica dei blocchi. Anche dopo la rottura del movimento socialista internazionale all’indomani del colpo di Praga, e fino al 1950, M. non rinunciò a questa idea terzaforzista; idea che, anzi, si rafforzò in un primo tempo proprio grazie alla prospettiva europeista. Partecipò attivamente alle consultazioni che il COMISCO (Committee of the international socialist conference) moltiplicò, dopo il febbraio del 1948, sull’organizzazione dell’Europa occidentale. Difese in quella sede la tesi, assieme ai rappresentanti dei paesi del Benelux, di un’Europa federale anche se, di fronte alla strenua opposizione di inglesi, scandinavi e tedeschi, cercò sempre di mediare, mosso dalla volontà – così avrebbe riferito a Jean Monnet – di evitare un’ulteriore rottura all’interno del socialismo occidentale. I suoi sforzi, tuttavia, furono vani: la ricostituzione dell’Internazionale socialista nel 1951, sancendo il carattere non prioritario dell’integrazione europea, si presentò come un espediente per nascondere il mancato accordo in quel campo e quello che, al suo interno, verrà chiamato il “polo anticomunitario” (composto essenzialmente da inglesi, tedeschi e scandinavi) rimase dominante nei primi anni dell’integrazione europea.

Parallelamente al suo impegno in seno al movimento socialista internazionale, M. partecipò alla creazione del Consiglio d’Europa. Aveva sostituito Blum, ammalato, al Comitato di studi creato all’indomani del Congresso dell’Europa dai governi firmatari del Patto di Bruxelles per fare delle proposte in prospettiva di una prima organizzazione politica dell’Europa. Membro dell’Assemblea consultiva del Consiglio d’Europa, ne diventò presidente nel 1954 (fino al 1956). Fu anche rapporteur, poi presidente, della commissione degli Affari generali del Consiglio d’Europa e presidente dell’intergruppo socialista (fino al 1956). Cercò di fare di quest’ultimo un luogo di mediazione tra le varie anime del socialismo europeo in tema di integrazione europea, cercando lì un terreno d’accordo irraggiungibile in seno al movimento socialista internazionale. In particolare, benché favorevole a un’organizzazione federale dell’Europa, si oppose ai progetti dei federalisti oltranzisti e sviluppò un approccio “funzionale”, sostenendo cioè la creazione di autorità specializzate con poteri reali ma limitati (v. Funzionalismo); un approccio sul quale sperava di ottenere il consenso dei laburisti.

Per M., l’Associazione del Regno Unito era necessaria essenzialmente per due motivi: da una parte, era fondamentale per la costituzione di un’Europa terza forza e, dato che i laburisti erano al governo, avrebbe rafforzato l’impronta del socialismo sul processo politico in corso; dall’altra, avrebbe consentito di creare una leadership anglo-francese, e quindi di affrontare con serenità l’integrazione della Germania. In effetti, per quanto fossero varie le motivazioni che spingevano M. a impegnarsi nel processo d’integrazione europea, motivazioni che avevano a che fare con lo sviluppo economico dei paesi europei, la loro autonomia internazionale o ancora la minaccia sovietica, il problema tedesco rimaneva, almeno in quegli anni, lo snodo centrale da risolvere. Il progetto che si proponeva di realizzare era quello delineato da Blum e cioè, in prospettiva, la piena integrazione della Germania in un’entità più grande, grazie a delle deleghe di sovranità nazionale.

Nonostante l’ostinazione di M., le relazioni con i laburisti si deteriorarono rapidamente, a causa della loro opposizione a qualsiasi formula sovranazionale, opposizione già chiara nei dibattiti del Consiglio d’Europa ma diventata del tutto esplicita in occasione del loro rifiuto del Piano Schuman reso effettivo nel giugno del 1950. Malgrado le reticenze stesse della SFIO riguardo al piano, M. fu fortemente deluso dall’atteggiamento britannico, che non mancò più, da allora, di criticare. Prendendo poi atto delle conseguenze della guerra di Corea, iniziata a fine giugno, M. rinunciò a presentare la sfida europeista come la ricerca di una “terza forza” europea. Fu proprio allora che René Pleven gli propose un posto di ministro di Stato incaricato del Consiglio d’Europa nel governo che stava formando (luglio 1950-marzo 1951); incarico che M. manterrà anche nel governo successivo (marzo-agosto 1951) in qualità di vicepresidente del Consiglio.

In un clima politico interno in cui gollisti e comunisti non perdevano occasione per denunciare i progetti di un governo del quale faceva ormai parte, e in cui a livello internazionale la pressione sovietica era quanto mai alta, l’esperienza ministeriale spinse M. a contemplare un’Europa senza la Gran Bretagna, all’interno dell’Alleanza atlantica: la scelta dell’Occidente non era mai stata messa in discussione da parte di M., ma fino a quel momento si era sempre rifiutato di accettare la logica dei blocchi, sperando che l’Europa potesse giocare un ruolo autonomo. Si dichiarò allora convinto che i britannici, vedendo la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) funzionare, avrebbero poi chiesto di farne parte. Inoltre, il loro passaggio all’opposizione nel 1951 faceva venir meno una delle ragioni della sua insistenza nel volere la loro presenza. La rinuncia alla presenza britannica era la premessa necessaria, invece, per accettare l’Europa dei Sei, anche se si trattava di un’Europa in cui l’impronta democristiana era forte. Per sua iniziativa, tuttavia, veniva inserito un protocollo nel trattato della CECA volto a organizzare delle relazioni strette con il Consiglio d’Europa; un legame che consentiva di mantenere i britannici inseriti in qualche modo nel processo in corso. E in seno all’Internazionale, M. continuò a cercare di mediare tra le varie anime del socialismo internazionale: nel congresso di Milano del 1952, dove diventò vicepresidente dell’Internazionale socialista (carica che manterrà fino al 1969), e dove si affermò esplicitamente l’opposizione tra laburisti e social-democratici tedeschi contro la “Piccola Europa” del Piano Schuman, continuò a frenare l’ardore dei socialisti del Benelux e fu il principale attore del compromesso finale il quale sottolineava la necessità di stabilire «un’intima associazione tra qualsiasi comunità specializzata e le nazioni del Consiglio dell’Europa che non fanno parte di questa comunità».

In quegli anni M. sviluppò ulteriormente il suo impegno europeo. Diventò membro dell’Assemblea della CECA (dal 1952 al 1956) e presidente del suo gruppo socialista. Moltiplicò incontri, dibattiti, articoli sia nella stampa nazionale che straniera, interventi all’Assemblea nazionale dove si consacrò essenzialmente, nella seconda legislatura (1951-1956), alle questioni europee. A partire dal 1952, partecipò alle riunioni del gruppo di Bilderberg, il cui obiettivo era riunire delle personalità europee influenti per riflettere sui modi di attenuare le tensioni tra americani ed europei.

Dopo essersi aspramente opposto a qualsiasi tipo di riarmo tedesco, M. prese atto, senza entusiasmo, dell’esigenza americana e decise di appoggiare la proposta di Pleven di un esercito integrato. Oltre a esprimere la propria solidarietà nei confronti di un governo di cui faceva parte, M. si convinse che la Comunità europea di difesa (CED) avrebbe consentito di risolvere sia il problema del riarmo tedesco che quello della minaccia sovietica. Da una parte, in effetti, avrebbe reso l’Europa «abbastanza forte perché, alleata degli Stati Uniti, scoraggiasse ogni tentativo di aggressione russa» e allo stesso tempo «abbastanza indipendente perché la Russia non abbia più da temere un’iniziativa di guerra preventiva o di crociata». Dall’altra parte, avrebbe consentito di controllare il riarmo tedesco per mezzo dell’integrazione. In effetti, se esso fosse avvenuto nel quadro dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), la Repubblica Federale Tedesca (RFT) sarebbe stata dotata di «tutti gli attributi della sovranità», a parità di diritto con gli altri membri, «con un esercito nazionale a disposizione di un governo, padrone del suo destino»; inoltre, l’Europa avrebbe perso un’occasione di affermarsi autonomamente. Se, invece, la soluzione fosse stata una Germania riunificata all’insegna della neutralità – così come chiedeva la Sozialdemokratische Partei Detschlands (SPD), sostenuta da alcuni settori della SFIO –, sarebbe diventata pericolosa, cadendo direttamente sotto il dominio sovietico o cercando un ruolo autonomo tra i due grandi. Perciò, una volta dato per acquisito il riarmo tedesco, l’integrazione della RFT nel quadro di una struttura europea diventava di assoluta necessità, e prioritario rispetto a qualsiasi velleità di Riunificazione tedesca: una posizione, questa, che allontanava M. dai social-democratici tedeschi e lo riavvicinava al Mouvement républicain populaire (MRP) e, in fin dei conti, a Konrad Adenauer. Tutto, inoltre, doveva essere fatto per assicurarsi la partecipazione della Gran Bretagna, anche a costo di rinunciare al carattere sovranazionale della Comunità. M. chiese, ad esempio, che dei parlamentari britannici potessero seguire i lavori dell’Assemblea ad hoc. Nel caso i britannici non avessero voluto partecipare, cosa che successe nei fatti, una formula di associazione avrebbe dovuto essere trovata.

L’insistenza sulla “garanzia” britannica aveva un suo ruolo nei dibattiti interni alla SFIO: nell’insieme, il partito seguiva la posizione espressa da M., ma una minoranza attiva e composta da alcuni grandi leader (ad esempio Jules Moch, presidente della commissione Affari esteri dell’Assemblea nazionale; Max Lejeune, presidente della commissione della Difesa nazionale) era sempre più ostile al progetto. Tuttavia, tale insistenza rispondeva anche al timore, sempre presente in M., di un confronto diretto franco-tedesco. Permette infine di capire perché, favorevole alla CED, egli si oppose invece al progetto di Comunità politica europea (CPE), anche se partecipò ai lavori della commissione costituzionale dell’Assemblea ad hoc. In effetti, se l’assenza britannica non precludeva la costituzione di comunità “specializzate” sull’esempio della CECA, impediva invece, secondo M., la costruzione di una “comunità politica”. Per quanto condannasse l’atteggiamento britannico, M. riteneva che una “federazione continentale”, limitata a sei paesi, avrebbe segnato definitivamente la rottura politica dell’Europa occidentale.

Nonostante il congresso della SFIO del luglio del 1954 si fosse pronunciato a favore della ratifica del trattato con una maggioranza ragguardevole, rifiutando ai parlamentari la libertà di voto – parlamentari di cui la metà circa si era più volte espressa contro – le ribellioni si moltiplicarono durante quel periodo: la commissione degli Affari esteri rigettava il trattato il 9 giugno con l’appoggio di sei socialisti; il 18 giugno, fu il turno di quella della Difesa nazionale con quattro socialisti che votarono contro; e il 30 agosto, mentre 53 socialisti rispettavano il verdetto del partito, 50 si esprimevano contro la ratifica del trattato. Voti che, com’è noto, avrebbero consentito, nel caso fossero stati favorevoli, la ratifica del trattato. Per quanto la situazione fu al momento difficile per M. in quanto un progetto che aveva sostenuto e sul quale si era molto impegnato naufragava a causa di una parte del suo gruppo parlamentare, le ribellioni furono rapidamente domate e M. ne approfittò per rafforzare la propria leadership nel partito.

Sempre in polemica con i suoi avversari interni e benché si congratulasse della partecipazione della Gran Bretagna alla soluzione approvata con gli Accordi di Londra e Parigi, M. non mancò un’occasione per ricordare quanto la formula proposta da Pleven fosse migliore: dava più autonomia all’Europa; controllava meglio il riarmo tedesco; approfondiva il processo d’integrazione europea. Per M., l’esistenza di un’Europa forte e sicura era il presupposto per la coesistenza pacifica e non un suo corollario. L’ordine di priorità era quindi invariato: prima la difesa dell’Europa – che passa attraverso l’aiuto americano – e poi il dialogo con l’URSS. La CED tuttavia avrebbe reso l’Europa meno dipendente dagli Stati Uniti. Inoltre, egli riteneva che con una sovranità recuperata «senza contropartita né restrizione», per i tedeschi sarebbe stata forte la tentazione di assumere un atteggiamento più nazionalista che europeo. Infine, M. sottolineava quanto, con il fallimento della CED, l’integrazione europea avesse subito una battuta d’arresto. Bisognava cercare di migliorare gli Accordi di Londra attraverso in particolare l’attuazione di un controllo democratico e, soprattutto, evitare che tale sconfitta compromettesse l’integrazione economica dell’Europa e impedisse il suo approfondimento. M. uscì dalle vicende della CED rafforzato nella sua convinzione che l’Europa funzionale e settoriale fosse la più idonea al raggiungimento di un’intesa tra i vari paesi coinvolti.

Oltre a considerare l’esito della Conferenza di Messina deludente, M. manifestò il suo sostegno a favore del rilancio del processo d’integrazione europea in primo luogo all’interno del proprio partito, dove sostenne l’adozione di una linea più decisamente europeista in occasione del Congresso nazionale tenutosi alla fine di luglio del 1955. In concomitanza con l’accrescersi della tensione in Algeria, l’Europa non era più vista principalmente come il frutto di una necessaria riconciliazione franco-tedesca, ma diventava sempre più, nei programmi della SFIO, lo strumento dello sviluppo economico della Francia e il quadro per un ripensamento delle relazioni con i territori d’oltremare. Inoltre, se fino ad allora M. aveva sempre cercato di mediare tra “europeisti” e “anticomunitari” in seno all’Internazionale, venendo spesso incontro ai laburisti, adottò una linea molto più decisa a favore dell’integrazione europea in occasione del IV Congresso nel luglio 1955, cercando di rafforzare il polo europeista e di attirarvi i tedeschi. In effetti, all’indomani della Conferenza di Messina, Jean Monnet aveva chiesto a M. di partecipare al suo Comitato per gli Stati Uniti d’Europa in via di costituzione. M. accettò alla chiusura del IV congresso dell’IS, dopo aver ricevuto l’“autorizzazione” dalla SFIO, ma soprattutto subordinando la propria adesione – in una lettera a Monnet – alla partecipazione dei social-democratici tedeschi. Per quanto la svolta europeista della SPD fosse ancora agli albori, è probabile che M. abbia approfittato dell’occasione per trovare un terreno d’accordo con i tedeschi. A fine luglio, Ollenhauer aderiva al Comitato, trascinando con sé il proprio partito. Cominciava così a delinearsi una convergenza tra la SFIO, la SPD e i partiti del Benelux nel considerare l’Europa come il terreno per un modello di sviluppo economico e sociale alternativo a quello laburista e a quello scandinavo. Ciò dimostrava, inoltre, come M. desse ormai la priorità all’Approfondimento del processo d’integrazione europea rispetto al suo Allargamento: ossia la piena accettazione piena della “Piccola Europa”, anche se la presenza britannica sarebbe sempre stata fortemente auspicata. L’adesione al Comitato significava anche l’accettazione consapevole di una necessaria collaborazione con la Democrazia cristiana e altre formazioni europeiste per l’approfondimento del processo d’integrazione.

Per alcuni osservatori, sia la scelta di M. alla presidenza del consiglio all’indomani delle elezioni da parte del presidente Coty, sia poi quella di Christian Pineau agli Esteri da parte di M., fu il frutto della volontà europea di questi leader. In realtà, la loro prima preoccupazione all’epoca fu quella di trovare una maggioranza in Parlamento. Mentre il precipitarsi della situazione algerina raccomandava di formare un governo forte e stabile, nessuna formazione o coalizione era in grado di governare da sola. Composta dai moderati, democristiani, radicali “fauristi”, Union démocratique et socialiste de la Résistance (UDSR) dissidenti e gollisti, la coalizione di centrodestra usciva nettamente vincente con poco più del 32% dei voti, ma l’Assemblea nazionale risultava di fato spostata a sinistra: i comunisti ottenevano circa il 25% dei voti; il Fronte repubblicano, coalizione composta da socialisti, radicali mendesisti e alcuni rappresentanti dell’UDSR, circa il 27% mentre l’estrema destra raggiungeva quasi il 13%. Data la chiara intenzione dei socialisti di non allearsi con i comunisti, la soluzione si sarebbe trovata al centro. In questo quadro, Coty affidò l’incarico al leader del principale partito in grado di costituire un tale governo, ovvero la SFIO che aveva ottenuto circa il 15%, 4 punti percentuali in più dei radicali di Pierre Mendès France e dei democristiani. Tale decisione suscitò un’accesa polemica da parte dei mendesisti, soprattutto per la scelta di Mollet di affidare il ministero degli Esteri a Christian Pineau; un posto che Mendès rivendicava per sé. Sicuramente più carismatico di M., egli si era fatto però numerosi nemici, sia per il suo stile di governo che per alcune sue scelte. Inoltre, benché l’ipotesi di un sostegno a un governo Mendès fosse prospettata da alcuni socialisti, essi non avevano nessun interesse ad appoggiarlo a partire dal momento in cui potevano legittimamente chiedere la presidenza per uno di loro. Inoltre, per quanto concordassero in linea di massima sulla questione algerina, erano ben consapevoli di non poter portare avanti una politica economica e sociale comune. Non sono poi da escludere incompatibilità personali tra Mendès e M. ed è anche noto che Mendès aveva da sempre espresso delle posizioni sull’Europa molto caute. Se è vero, quindi, che Coty e poi M. erano convinti della necessità di andare avanti con il processo d’integrazione europea, le loro scelte avevano come principale obiettivo quello di ottenere il sostegno dei democristiani per la costituzione di un governo stabile. Di fatto, il governo di minoranza costituito da M. fu investito da un’ampia maggioranza (420 voti contro 71), grazie a un doppio sostegno: quello del PCF, deciso a uscire dal ghetto nel quale si trovava dal 1947 e quello del Mouvement républicain populaire (MRP), desideroso di non apparire troppo a destra, e pronto ad aiutare M. nel suo percorso europeo.

Non è sempre facile ricostruire il ruolo di M. – una volta diventato presidente del Consiglio – nel portare la Francia nei negoziati del Mercato comune europeo (v. Comunità economica europea) e dell’Euratom. Non era affatto scontato nel gennaio 1956, e ancora meno nell’ottobre dello stesso anno – quando i negoziati sembravano a un punto fermo – che quelli che sarebbero diventati i Trattati di Roma potessero effettivamente realizzarsi. Il governo francese non era il solo a creare delle difficoltà e l’Europa non era una questione di primo piano nell’agenda politica francese. Di fatto, M. non se ne occupò direttamente, se non in rare occasioni, e le sue scelte apparivano spesso di carattere strategico o dettate dalle circostanze. L’Europa consentiva di ottenere maggioranze in parlamento e qualcuno ha voluto vedere nel rilievo dato al tema dall’autunno in poi il tentativo per cancellare l’umiliazione subita a Suez. Se è vero che i fatti di Ungheria, così come la crisi di Suez o la decolonizzazione contribuissero ad accelerare i negoziati, è anche vero che bisognava fare i conti con un’opinione pubblica spesso reticente se non ostile e che la situazione economica e finanziaria della Francia – a causa della guerra d’Algeria – raccomandava sul breve periodo la prudenza. In questo contesto, il ruolo di M. fu fondamentale per due ragioni: in primo luogo, avendo a che fare con un governo diviso sul tema, seppe circondarsi di una “squadra” di europeisti convinti alla quale non fece mai mancare il proprio sostegno; in secondo luogo, ebbe un ruolo decisivo nel risolvere il contenzioso con i tedeschi, prima di tutto per quanto riguardava la Sarre, e poi più in generale sui Trattati stessi. Se quindi M. non ebbe un ruolo di primo piano nei negoziati per i due Trattati, questi due elementi, così come la cronologia dei suoi interventi, testimoniano la sua volontà politica di portare avanti il processo.

M. non era stato promotore dei progetti in corso, ma sosteneva l’attività del Comitato d’azione per gli Stati uniti d’Europa (CASUE) di cui era membro e a più riprese, nella seconda metà del 1955, aveva accusato il governo di Maurice Faure di lasciare insabbiare i negoziati avviati a Messina. Da un punto di vista ideale, in effetti, M. si dimostrava convinto dell’interesse per la Francia di approfondire il processo d’integrazione europea, non tanto per entusiasmo, come ha notato Gérard Bossuat, ma per “obbligazione storica ragionata”. A metà degli anni Cinquanta, M. riteneva che una maggiore integrazione rappresentasse una possibile risposta a vari problemi di allora: indipendenza, sicurezza, crescita e prosperità. Prima di tutto, avrebbe contribuito a risolvere la crisi dello Stato nazionale e il problema del declino dei paesi europei – in primis la Francia – e le loro difficoltà a pesare a livello internazionale: era questo il vecchio sogno di un’Europa terza forza, in grado di agire autonomamente tra i due grandi. Non si trattava di rimettere in discussione l’Alleanza atlantica ma di tentare di modificarne gli equilibri interni. L’Europa diventava il quadro all’interno del quale la Francia avrebbe potuto rafforzarsi ed esprimere di nuovo la propria potenza. Avrebbe accompagnato il processo di decolonizzazione in corso, attenuandone il peso per la Francia. Ancora nel 1956, era ampiamente diffusa l’idea secondo la quale i territori d’oltremare rappresentavano uno strumento della potenza. M. era convinto che i paesi dell’Africa nera dovevano acquisire l’indipendenza e nel giugno del 1956 fu firmata la legge quadro per i Territori d’oltremare. Sosteneva tuttavia l’“Eurafrica” – un’idea cara al ministro socialista Gaston Defferre – quale soluzione per accompagnare il processo di decolonizzazione mantenendo le ex colonie nell’alveo dei paesi europei e quindi della Francia, ed evitare che queste potessero cadere sotto l’influenza dei due grandi (v. anche Regioni ultraperiferiche dell’Unione europea). In secondo luogo, l’Europa avrebbe consentito di risolvere la questione tedesca, ancorando la Germania all’Occidente; una necessità sempre viva per assicurare la sicurezza della Francia e dell’Europa, soprattutto dopo il recupero da parte della RFT della sua piena sovranità e di fronte al dinamismo economico e industriale tedesco. Infine, avrebbe assicurato, meglio di ogni singolo paese, la prosperità dei lavoratori, grazie in particolare all’esportazione del modello sociale francese.

Presentandosi alla Camera per chiedere l’investitura, M. fece dell’Europa uno dei pilastri della futura azione del suo governo in un discorso tuttavia molto cauto, dando la priorità all’Euratom e prospettando invece per il Mercato comune negoziati più lunghi e l’adozione di misure volte a garantire gli interessi delle imprese francesi e dei lavoratori. La priorità data all’Euratom era in sintonia con la preferenza di M. per le autorità specializzate e godeva del sostegno degli americani. Era anche la testimonianza della volontà di M. di fare presto un passo avanti perché, insieme ai suoi consiglieri, prevedeva negoziati lunghi e complicati per il MEC. Era, infine, secondo numerosi attori dell’epoca, l’espressione del timore che, dato il precedente della CED e le forti reticenze di vari ambienti francesi verso il Mercato comune, l’associazione dei due progetti avrebbe rischiato di provocare una nuova bocciatura da parte dell’Assemblea nazionale e, in questo modo, avrebbe fatto fallire entrambi i progetti. Pineau ha sottolineato ripetutamente come non fosse mancata da parte di M. la volontà di realizzare il MEC e quanto fosse tattica la mossa volta a gettare con Euratom un velo sul Mercato comune per farlo meglio accettare.

In effetti, l’Euratom godeva del sostegno dei vari organi politici e tecnici coinvolti e il governo francese stesso si era convertito all’idea di un pool europeo dell’energia atomica alla vigilia della Conferenza di Messina, al punto da diventare uno dei massimi sostenitori del progetto. Da una parte, gli esperti si preoccupavano dei bisogni energetici dei paesi europei per assicurare la crescita delle economie senza incrementare la dipendenza dagli Stati Uniti e dal Medio Oriente. Dall’altra parte, non era assente il timore che la Germania, molto dinamica a livello economico, raggiungesse una posizione dominante nell’ambito del nucleare in Europa, posizione che la Francia intendeva mantenere per sé. Infine, e forse soprattutto, il Commissariato all’energia atomica (CEA) e il ministero della Difesa si erano convinti che il procedere del nucleare militare francese, ritenuto essenziale (sia per le sue virtù difensive, sia per il prestigio e il peso che avrebbe dato alla Francia), sarebbe stato possibile solo grazie a un progetto come l’Euratom, che si sarebbe fatto carico delle spese del nucleare civile e avrebbe potuto portare a un’utile cooperazione. Il tutto alla condizione, però, che la libertà della Francia in materia rimanesse totale.

M. si era da tempo dichiarato favorevole al nucleare civile ma contrario alla produzione di armi. Nel marzo del 1955, la direzione della SFIO aveva assunto una posizione negativa a riguardo. Riprendendo la linea elaborata dal Comitato di Monnet, M. sottolineò che l’Euratom avrebbe sviluppato delle attività prettamente pacifiche e che gli Stati membri avrebbero dovuto rinunciare all’arma atomica. Tuttavia, la sua dichiarazione suscitò una tale levata di scudi in quegli ambienti che fino ad allora avevano sostenuto il progetto che M. si vide a fare marcia indietro. Nella primavera del 1956, accettò l’idea del nucleare militare e della necessità di mantenere per la Francia spazi di manovra autonomi in quel settore. In particolare, la Francia chiese che fosse data un’interpretazione restrittiva della moratoria proposta da Paul-Henri Spaak e alla quale Pineau aveva aderito a Bruxelles: essa avrebbe dovuto limitarsi a impegnare i governi a non procedere a prove nucleari durante 4 o 5 anni ma non impedire di proseguire nelle ricerche e dunque interrompere il programma nucleare militare francese. Nel novembre del 1956, M. firmò un protocollo – preparato durante l’estate – per gli anni 1957-1961 che prevedeva studi preparatori alla realizzazione di esplosioni atomiche sperimentali. Un protocollo che, dati gli estremi cronologici, rientrava nei parametri della moratoria così come intesa dal governo francese. Tornato all’opposizione, M. diventerà uno dei più accaniti oppositori alla force de frappe del generale.

Consapevole di avere l’appoggio dei principali interessati – e nonostante il progetto non fosse ancora definitivo e il sussistere di vari dissensi con i partner europei, in particolare con i tedeschi –, il governo organizzò un dibattito parlamentare il 6 luglio 1956 sull’Euratom per valutare la posizione della maggioranza sulle questioni europee. Fu chiesto l’intervento di due esperti non parlamentari per cercare di depoliticizzare il dibattito: Francis Perrin dell’Alto commissariato al CEA e Louis Armand, presidente della Sociéte nationale des chemins de fer (SNCF). La speranza era che l’appoggio dato al progetto da parte del Parlamento (avvenuto nei fatti l’11 luglio con un’ampissima maggioranza) avrebbe aperto la strada al Mercato comune.

Qualche settimana prima del dibattito in aula, in effetti, alla Conferenza di Venezia, la Francia aveva finalmente accettato di entrare nei negoziati sul Mercato comune e di portarli avanti parallelamente a quelli sull’Euratom, cosa sulla quale i partner della Francia insistevano da tempo. Il passo non era scontato dato che, al contrario di quanto avvenuto per l’Euratom, si dovevano affrontare numerose resistenze, se non opposizioni, che provenivano dagli ambienti professionali interessati ai trattati (industriali e agricoltori), ma anche dall’Alta amministrazione e dai vari ministeri, nonché da parte di alcuni settori del Parlamento, comprese le file socialiste (nonostante il congresso di luglio avesse ribadito il pieno appoggio alla politica europeista del suo segretario generale). Le perplessità riguardavano principalmente le capacità dell’economia francese di sostenere la concorrenza europea, in particolare tedesca (da qui le richieste di armonizzazione dei carichi sociali e dei costi di produzione, di politiche monetaria e fiscali comuni, ecc.), il carattere giudicato troppo sovranazionale del progetto (da qui la richiesta di prevedere una progressione per tappe e la non automaticità nel passaggio dalla prima alla seconda), l’associazione al MEC dei territori d’oltremare e la necessità di prendere maggiormente in considerazione l’agricoltura.

Di fronte a tali resistenze, la strategia del governo consistette nel rendere partecipi il più possibile questi vari ambienti grazie in particolare all’organizzazione di cui M. si circondò. Oltre al socialista Christian Pineau come ministro agli Esteri e al radicale Maurice Faure come sottosegretario, M. si affidò a Robert Marjolin, segretario generale dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), il quale diventò consigliere tecnico di Christian Pineau e vicepresidente della delegazione francese nei negoziati per il MEC e l’Euratom. Prese come consigliere Alexandre Verret, il quale diventò presidente della commissione interministeriale per il MEC, il cosiddetto Comité Verret, incaricato di gestire i negoziati in particolare con i vari gruppi di pressione. Infine Émile Noël diventò il suo direttore di gabinetto a Matignon, incaricato di preparare i negoziati e di seguirli. Noël era già stato direttore di gabinetto di M. dal 1954 al 1956 quando era presidente dell’assemblea consultativa del Consiglio d’Europa e lavorò in particolare con Jean-François Deniau, Jacques Donnedieu de Vabres, Jean-François Poncet e Georges Vedel.

Questa “squadra”, come già accennato, ebbe sempre il pieno appoggio di M. Pineau ricorda come tale appoggio fosse decisivo in particolare in occasione della Conferenza di Venezia in quanto gli diede carta bianca per accettare il Rapporto Spaak come base per negoziare i trattati. A settembre – quindi prima ancora della crisi di Suez – mentre i negoziati sembravano di nuovo a un punto fermo, M. insisté di fronte alle reticenze in particolare del suo ministro delle Finanze Paul Ramadier che il Mercato comune era un bene di per sé, anche per la Francia. E di nuovo a ottobre in comitato interministeriale ribadiva: «Il mercato comune sarà sul lungo periodo e anche sul medio termine benefico per la Francia mentre il mantenimento della situazione attuale non può che condurre a una catastrofe».

Oltre a coinvolgere Parlamento e ambienti interessati ai progetti in dibattiti preparativi ai negoziati, M. e i suoi consiglieri erano convinti di dover agire direttamente presso i tedeschi per sbloccare i vari ostacoli legati a divergenze tra i partner europei. In effetti, reiterate in autunno, le richieste della Francia – sull’armonizzazione dei carichi sociali, il mantenimento di aiuti speciali al commercio estero, una tariffa esterna comune elevata, l’associazione dei Territori d’oltremare, il diritto di ritirarsi dopo una prima tappa, una clausola di salvaguardia in caso di difficoltà della bilancia dei pagamenti, il diritto di costruire la bomba atomica, una Politica agricola comune – avevano contribuito a rendere ulteriormente tesi i rapporti.

Già nel giugno del 1956, in un incontro tra M. e Adenauer a Lussemburgo, era stato raggiunto l’accordo sulla Sarre e la canalizzazione della Moselle. Il 25 ottobre 1955, in effetti, un referendum aveva sancito il fallimento dello statuto di europeizzazione della Sarre voluto dai francesi e deciso il suo reintegro nella Germania. La Francia tuttavia continuò a cercare di ottenere delle contropartite in cambio del suo ritiro. L’accordo raggiunto il 4 giugno portò alla firma del Trattato di Lussemburgo il 27 ottobre, dopo un secondo incontro tra M. e Adenauer a Bonn il 29 settembre. Il contenzioso finalmente sanato rappresentava una premessa al raggiungimento di una maggiore intesa. Il 31 ottobre, M. scriveva nuovamente ad Adenauer per sottolineare l’importanza storica della sua visita a Parigi prevista per il 6 novembre. Accennando al fallimento della riunione degli Affari esteri del 20 e 21 ottobre, M. sottolineava, al di là del loro carattere tecnico, il significato politico “considerevole” dei problemi da affrontare, e proponeva di approfittare dell’incontro per prendere su tali problemi una posizione comune ai due governi (politica comune degli approvvigionamenti e proprietà delle materie fissili per l’Euratom; armonizzazione di alcuni carichi sociali e disposizioni relative alla situazione della Francia per il MEC).

La storiografia è unanime nel considerare decisivo l’incontro del 6 novembre. L’annuncio del necessario ritiro francese da Suez durante i colloqui, che evidenziava ulteriormente la debolezza francese ed europea sulla scena internazionale, nonché i fatti d’Ungheria, avevano suscitato non pochi timori per la sicurezza e l’indipendenza dell’Europa presso i dirigenti ma anche presso l’opinione pubblica. In questo contesto M. e Adenauer si dimostrarono pronti a superare alcune divergenze. Sull’Euratom, fino ad allora, la Germania intendeva colmare autonomamente e con l’aiuto degli anglosassoni, il proprio ritardo sulla Francia nel settore nucleare civile e, non potendo sviluppare il nucleare militare, non intendeva servire le ambizioni francesi. Si era inoltre opposta al principio di un monopolio da parte dell’Euratom dell’acquisto e delle forniture dei prodotti fissili. Una misura, quest’ultima, voluta invece dai francesi, proprio per impedire lo sviluppo di un’industria nucleare tedesca autonoma, consentendo nello stesso tempo a quella francese il beneficio di avere la materia prima in quantità e a prezzo minore. In seguito all’incontro del 6 novembre, Adenauer accettò in particolare di lasciare la Francia andare avanti nel campo del nucleare militare: l’Euratom non avrebbe controllato l’uso delle materie fissili destinate all’ambito militare (il trattato non prevedeva, già dalla fine del 1956, limitazioni alla produzione di armi per gli Stati) e avrebbe invece potuto controllare la loro distribuzione. All’indomani del 6 novembre, tuttavia, venivano anche poste le basi per una collaborazione franco-tedesca nell’ambito degli armamenti, compresi quelli nucleari. Questa collaborazione bilaterale, parallela all’Euratom, portò in particolare agli Accordi di Colomb-Béchar del gennaio 1957. Sul MEC, la Francia cedeva sulla settimana di 40 ore e si impegnava a non mettere il proprio veto allo sviluppo dello stesso MEC dopo un primo periodo di 4 anni. In cambio otteneva di conservare tasse all’importazione e aiuti all’esportazione nell’attesa di risolvere il problema della bilancia dei pagamenti. Invece, l’incontro del 6 novembre non portò a nessun risultato per quanto riguardava la politica agricola comune e i Territori d’oltremare, nonché la questione della tariffa esterna comune, argomenti sui quali il governo francese, dietro l’insistenza dei ministri socialisti delle Finanze Ramadier e della Francia d’oltremare Defferre, avrebbe insistito fino alla firma dei trattati.

Nel gennaio del 1957, si svolse alla Camera il dibattito sul mercato comune – simile a quello sull’Euratom del luglio precedente. In quell’occasione, mentre Pineau insisteva sul MEC come strumento di modernizzazione dell’industria e dell’agricoltura francese, M. accentrò il suo discorso sulla possibilità offerta dal progetto di proiettare il modello sociale francese in tutta l’Europa, di fare dell’Europa uno strumento di progresso sociale e di rafforzare attraverso di essa la Francia. Il Parlamento approvò ad ampia maggioranza un ordine del giorno presentato dal presidente del gruppo parlamentare socialista Verdier che felicitava il governo per la sua politica europea, dettando però alcune condizioni: la conferma degli accordi presi sull’armonizzazione dei carichi sociali, l’attuazione di una politica agricola comune, l’inserimento dei Territori d’oltremare nel trattato. Sui Territori d’oltremare, Defferre insisté particolarmente chiedendo che la loro sorte fosse decisa prima della firma del trattato, e ottenne il sostegno di M., nonostante il parere contrario di Faure. Il problema fu risolto durante la conferenza di Parigi del febbraio 1957. In quell’occasione, M. poté formulare la speranza che dalla comunità economica potesse scaturire una comunità politica. Nonostante fosse dispiaciuto della mancata presenza britannica, non diede mai la preferenza a una zona di libero scambio così come gli inglesi proponevano. Il trattato, dopo la caduta del governo M., fu ratificato da un’ampia maggioranza in Parlamento a luglio.

L’Europa non rappresentò per M. un motivo di opposizione al ritorno di Charles de Gaulle, nonostante la questione fosse stata posta da alcuni membri del partito nel maggio del 1958. Se affermò molto rapidamente il suo disaccordo con la politica europeista del generale, M. mantenne per il partito una posizione molto cauta fino al 1962. A partire da quel momento, la politica europea diventò uno dei principali temi di opposizione della SFIO e di M. alla politica del generale. Non condivideva in particolare i presupposti del Piano Fouchet e la sua concezione dell’asse franco-tedesco. Tuttavia, la sua attività in quel settore fu sempre meno importante.

In una lettera indirizzata a Suzanne M. del 28 settembre 1977, due anni dopo il decesso del marito, Jean Monnet affermava di aver «sempre considerato che il ruolo di Guy Mollet nella costruzione dell’Europa era rimasto sconosciuto», dichiarandosi «convinto che fu tra coloro che hanno contribuito maggiormente alla costruzione europea ».

Christine Vodovar (2012)

Bibliografia

AA.VV., Guy Mollet. Un camarade en République, Presses Universitaires de Lille, Lille 1987.

Bossuat G., L’Europe des Français, 1943-1959. La Ive République aux sources de l’Europe communautaire, Publications de la Sorbonne, Paris 1996.

Devin G., L’Internationale socialiste, PFNSP, Paris 1993.

Lafon F., Guy Mollet, Fayard, Paris 2006.