Protocollo sulla politica sociale

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Il Protocollo sulla politica sociale negoziato a Maastricht e allegato al Trattato di Maastricht dà forma giuridica al compromesso raggiunto in quella sede tra undici Stati membri desiderosi di dare applicazione agli enunciati della Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989 e il Regno Unito, a guida conservatrice, che d’altra parte non aveva sottoscritto quella Carta, fermamente contraria a nuovi sviluppi in campo sociale a livello europeo.

Il testo si compone di due parti: il Protocollo vero e proprio approvato dai 12 Stati membri e l’Accordo annesso, che invece vincola solo 11 Stati membri a eccezione appunto della Gran Bretagna.

Il Protocollo, preso atto dell’Accordo, autorizza gli 11 Stati membri interessati «a fare ricorso alle istituzioni, alle procedure e ai meccanismi del Trattato allo scopo di prendere tra loro e applicare, per quanto li riguarda, gli atti e le decisioni necessarie per rendere effettivo il suddetto Accordo» e chiarisce che la Gran Bretagna non partecipa a queste deliberazioni né è tenuta ad applicarne le decisioni (v. Decisione).

Logica conseguenza di questa autoesclusione (opting-out) è l’altra disposizione del Protocollo che prevede, in deroga al Trattato, un abbassamento della soglia della Maggioranza qualificata necessaria per le decisioni del Consiglio dei ministri.

Ma le innovazioni più rilevanti per quanto riguarda la Politica sociale sono contenute nell’Accordo a Undici. Esse attengono, da un lato, alle competenze del legislatore europeo che vengono ampliate e meglio definite e, dall’altro, all’introduzione di un Processo decisionale che riconosce un ruolo determinante alle Parti sociali organizzate sul piano europeo nell’elaborazione delle disposizioni in materia sociale.

Per quanto riguarda il primo aspetto, l’Accordo modifica l’art. 118 del Trattato di Roma (v. Trattati di Roma), prevedendo la possibilità di definire delle prescrizioni minime sotto forma di direttive europee (v. Direttiva) in dieci aree d’interesse sociale, con l’esclusione esplicita delle seguenti materie: le retribuzioni, il diritto di associazione, il diritto di sciopero e di lock out (art. 2 dell’Accordo). Per cinque delle suddette aree è previsto, inoltre, che il Consiglio deliberi a maggioranza qualificata. Questa forma di decisione, già in vigore per la salute e la sicurezza sul posto di lavoro a seguito dell’art. 118 A dell’Atto unico europeo, viene quindi estesa alle disposizioni relative alle condizioni di lavoro, all’informazione e alla consultazione dei lavoratori, all’uguaglianza tra i generi e all’integrazione delle persone escluse dal mercato del lavoro.

Il Voto all’unanimità del Consiglio è invece necessario per le decisioni relative alla sicurezza e alla protezione sociale, alla tutela dei lavoratori in caso di risoluzione del contratto di lavoro, alla rappresentanza e difesa collettiva degli interessi dei lavoratori e degli imprenditori compresa la cogestione, alle condizioni di occupazione dei cittadini dei paesi terzi e al finanziamento di misure destinate alla promozione dell’occupazione oltre quanto previsto per il Fondo sociale europeo.

L’Accordo sociale di Maastricht offre quindi alla politica sociale europea nuove basi giuridiche, che permetteranno negli anni successivi l’approvazione di importanti direttive quali quelle relative al tempo di lavoro (1993), al distacco dei lavoratori nel quadro delle prestazioni di servizi (1996) e soprattutto, nel 1994, della direttiva sull’informazione e la consultazione dei lavoratori nelle imprese multinazionali e sui Comitati aziendali europei che rappresenta una delle acquisizioni più significative del diritto europeo del lavoro.

L’altra novità introdotta dall’Accordo, relativa alla procedura decisionale, non è meno importante in quanto destinata a rendere più pregnante il “Dialogo sociale” tra le parti sociali europee (iniziato nel 1985 per iniziativa del Presidente della Commissione europea, Jacques Delors), fino al punto di riconoscere a queste una capacità negoziale sostitutiva, almeno parzialmente, dell’iniziativa legislativa.

Per la verità in via di principio questa capacità era già stata riconosciuta nell’art. 118 B dell’Atto unico del 1986 con la formula seguente: «La Commissione si sforza di sviluppare a livello europeo un dialogo tra le parti sociali, il quale possa sfociare, se esse lo ritengono opportuno, in relazioni convenzionali».

L’Accordo va oltre, e rende operativi questi enunciati. Esso conferisce di fatto maggiore autonomia al “dialogo sociale”, sottolineando che il compito della Commissione europea consiste nell’adozione di misure atte a facilitarlo con un sostegno equilibrato delle parti e allo stesso tempo attraverso una loro sistematica consultazione associa più strettamente le stesse parti sociali al processo decisionale.

Questa consultazione si svolge in due fasi: prima della presentazione della proposta della Commissione le parti sono chiamate a esprimersi sulla sua opportunità e sul suo carattere e, successivamente, se la Commissione decide di procedere, esse sono ancora richieste di formulare la loro opinione nel merito della proposta stessa. È in questa seconda fase che le parti possono decidere di esercitare la loro autonomia negoziale informandone la Commissione che sospende l’iter legislativo. Il periodo concesso ai negoziati è di nove mesi salvo proroga concordata con la Commissione.

In caso di esito negativo, la Commissione riprende la libertà d’iniziativa. In caso di esito positivo dei negoziati si aprono due possibilità: l’accordo raggiunto è attuato secondo le procedure e la prassi proprie delle parti sociali e degli Stati membri oppure nelle materie elencate all’art. 2 dell’Accordo e a richiesta congiunta dei firmatari, in base a una decisione del Consiglio su proposta della Commissione.

Un’altra disposizione prevede inoltre che uno Stato membro possa affidare alle parti sociali, sempre dietro loro richiesta congiunta, il compito di mettere in atto le direttive comunque approvate a titolo dell’Accordo.

È evidente che le innovazioni contenute negli artt. 3 e 4 dell’Accordo permettono un nuovo protagonismo delle parti sociali sul piano europeo, mentre ne confortano il ruolo anche a livello nazionale. D’altra parte è interessante notare che a questo risultato si è giunti sulla base di un accordo firmato a Bruxelles il 31 ottobre 1991, alla vigilia della conclusione della Conferenza intergovernativa (CIG) (v. Conferenze intergovernative) per il Trattato di Maastricht, tra la Confederazione europea dei sindacati (CES), l’Unione delle industrie della Comunità europea (UNICE) e il Centro europeo delle imprese pubbliche (CEEP), le tre organizzazioni delle parti sociali riconosciute sul piano europeo. A ben vedere, gli artt. 3 e 4 dell’Accordo riproducono praticamente alla lettera il testo di questa intesa, fatta propria dalla Commissione e da questa sostenuta in sede di CIG.

La sola divergenza riguarda la richiesta delle parti sociali di prevedere espressamente che, in caso di decisione del Consiglio su un accordo, questo non possa essere modificato, ma solo accettato o respinto in blocco. Questa richiesta non è stata accolta in quanto i negoziatori governativi l’hanno ritenuta lesiva delle prerogative del legislatore europeo. Tuttavia, in concreto, quando negli anni successivi il Consiglio è stato chiamato a questo tipo di decisioni esso si è limitato a varare delle direttive di puro e semplice recepimento degli accordi tra le parti, dando loro valore erga omnes senza introdurre modificazioni di sorta.

Per quanto riguarda le modalità di attuazione degli accordi europei, opportunamente definiti dato il loro carattere di accordi quadro, le parti sociali hanno ugualmente praticato le due alternative possibili.

In un primo tempo esse hanno privilegiato il ricorso alla validazione degli accordi da parte del Consiglio, come nel caso delle intese sui congedi parentali (1995), il lavoro a tempo parziale (1997) e il contratto di lavoro a tempo determinato (1999). In anni più recenti esse hanno cominciato a sperimentare la possibilità di dare attuazione agli accordi assicurandone la trasposizione negli Stati membri attraverso i meccanismi della contrattazione collettiva propri a ciascuno di essi, e quindi attraverso la responsabilizzazione dei loro affiliati nei singoli paesi. Questa procedura è stata adottata per gli accordi sul telelavoro (2002) e sullo stress nel lavoro (2004). Si tratta di accordi definiti “volontari” in quanto non hanno origine da un’iniziativa della Commissione, ma da una decisione autonoma delle parti. In questi casi non si è più in presenza di una “legislazione contrattata”, ma si può parlare di veri e propri accordi di natura sindacale.

È fuor di dubbio che il Protocollo sociale di Maastricht abbia positivamente influenzato la politica sociale europea e abbia favorito il delinearsi di un sistema europeo di relazioni sociali, innanzitutto sul piano interconfederale, ma progressivamente anche a livello dei settori e delle categorie.

Venuta meno l’autoesclusione britannica (opting-out) con l’avvento del governo laburista nel 1997, i contenuti dell’Accordo sono stati integrati nel Trattato di Amsterdam e figurano oggi agli artt. 137, 138, 139 del Trattato (consolidato) dell’Unione.

Emilio Gabaglio (2002)

Bibliografia

AA.VV., La contrattazione collettiva europea. Profili giuridici ed economici, Franco Angeli, Milano 2001.

AA.VV., Protocollo sociale di Maastricht: realtà e prospettive, in “Notiziario di giurisprudenza del lavoro”, supplemento, Roma 1995.

Degimbe J., La politique sociale européenne. Du Traité de Rome au Traité d’Amsterdam, Institut syndical européen, Bruxelles 1999.

Lettieri A., Romagnoli U. (a cura di), La contrattazione collettiva in Europa, Ediesse, Roma 1998.

Nunin R. Il dialogo sociale europeo. Attori, procedure, prospettive, Giuffrè, Milano 2001.