Confederazione europea dei sindacati

image_pdfimage_print

Nei primi anni del secondo dopoguerra si assistette in Europa a una rinascita del movimento sindacale, caratterizzato da un apparente desiderio di collaborazione fra le varie organizzazioni aderenti alla Federazione sindacale mondiale (FSM, o World federation of trade unions, WFTU), egemonizzata dal movimento comunista. L’emergere della Guerra fredda favorì nella parte occidentale del continente la rottura della unità d’azione fra i partiti comunisti e le forze politiche democratiche. Nel volgere di breve tempo questo fenomeno si estese ai sindacati. Particolarmente significativi a questo riguardo furono gli eventi in Francia e in Italia: nel primo paese con la nascita nel 1948 del sindacato socialista Confédération générale du travail-Front ouvrière (CGT-FO), nel secondo con le scissioni dalla Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL) e la formazione tra il 1948 e il 1950 della cattolica Confederazione italiana dei sindacati dei lavoratori (CISL) e della Unione italiana del lavoro (UIL) di ispirazione socialdemocratica e repubblicana. Tali sviluppi condussero all’uscita dalla FSM di varie organizzazioni sindacali democratiche e alla creazione della Confederazione internazionale dei sindacati liberi (CISL internazionale o International confederation of free trade unions, ICFTU), alla quale si affiancò la Confederazione internazionale dei sindacati cristiani (CISC); è interessante notare come l’italiana CISL decidesse di aderire alla CISL internazionale piuttosto che alla CISC.

Una delle discriminanti nel determinare le varie scissioni a livello nazionale e internazionale fu l’atteggiamento assunto nei confronti del Piano Marshall e del progetto di ricostruzione dell’economia dell’Europa occidentale, il quale aveva importanti implicazioni per ciò che concerneva l’avvio della costruzione europea. Quando, nel 1950, il governo francese lanciò il Piano Schuman per la creazione di una Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), le forze sindacali dell’Europa occidentale, soprattutto quelle di ispirazione cattolica, mostrarono forte attenzione nei riguardi di questo progetto che avrebbe avuto un significativo impatto sui lavoratori dei settori carbonifero e siderurgico; da parte loro, d’altronde, Jean Monnet e i suoi collaboratori non trascurarono il ruolo che i sindacati anticomunisti avrebbero potuto giocare nel determinare una forma di ampio consenso nei confronti della nascente comunità europea, tanto è vero che due leader sindacali, il belga Paul Finet e il tedesco Heinz Potthoff sarebbero entrati a far parte dell’Alta autorità della CECA, mentre all’interno della Comunità sarebbe stato creato un Comitato consultivo con la presenza dei rappresentanti delle organizzazioni sindacali non comuniste dell’Europa dei Sei (v. anche Dialogo sociale).

Le aspirazioni dei sindacati socialisti e cattolici a svolgere un ruolo di spicco nella costruzione europea trovarono negli anni successivi solo parziale risposta. Quando, nel 1955, con la Conferenza di Messina ebbe inizio il processo che avrebbe condotto ai Trattati di Roma e alla nascita della Comunità economica europea (CEE) e dell’Euratom (o Comunità europea dell’energia atomica, CEEA), le leadership politiche dei Sei decisero di escludere dal negoziato i rappresentanti delle parti sociali; nei documenti siglati a Roma, soprattutto in quello relativo alla CEE, sembrò prevalere la volontà di creare un libero mercato nel cui ambito gli aspetti considerati più significativi dai sindacati, ad esempio l’ipotesi di una politica sociale, vennero subordinati agli obiettivi di natura economica. Inoltre, solo nella fase conclusiva delle trattative i Sei, su spinta di alcune organizzazioni sindacali e di un paio di delegazioni nazionali, decisero di creare un Comitato economico e sociale (CES) su base tripartita, con la presenza dunque di esponenti dei sindacati nazionali, ma si stabilì che il CES avrebbe avuto semplici funzioni consultive. Ciò nonostante, i leader sindacali dell’Europa dei Sei compresero che la CEE e l’Euratom avrebbero avuto importanti conseguenze sulle condizioni di vita e di lavoro dei propri iscritti.

Nel 1958, all’indomani dell’attuazione dei Trattati di Roma, i sindacati appartenenti alla CISL internazionale (ICFTU) davano origine al Segretariato sindacale europeo (SSE), mentre la CISC creava un’Organizzazione europea (OE-CISC). Entrambi gli organismi miravano a seguire con attenzione il processo di costruzione europea e, se possibile, a influire su di esso. In realtà la capacità del SSE e della OE-CISC di incidere sulle dinamiche comunitarie risultò minima sino alla fine degli anni Sessanta. Varie ragioni erano all’origine del ruolo secondario svolto dalle organizzazioni dei lavoratori in questi anni sulle vicende della CEE. In primo luogo, va sottolineato come per più di un decennio la CEE finì con l’esprimere solo due politiche, per quanto rilevanti: da un lato l’Unione doganale per le merci, dall’altro la Politica agricola comune (PAC); inoltre, sul piano politico la costruzione europea si scontrò con i conflitti che spesso opposero la Francia di Charles de Gaulle ai “Cinque”. Non deve essere inoltre trascurato come in generale in tutta l’Europa occidentale i sindacati vissero durante gli anni Sessanta una fase di debolezza, in parte determinata dall’avvento della società dei consumi e dalle trasformazioni vissute dalla classe operaia. Le organizzazioni sindacali non comuniste esercitarono pressioni per vedersi riconosciuto un ruolo all’interno della CEE, ma senza successo ove si escluda la funzione, d’altronde marginale, esercitata all’interno del CES. Da parte loro i maggiori sindacati comunisti, la CGT francese e la CGIL italiana, continuavano a offrire una interpretazione negativa della costruzione europea e a mostrarsi convinti che questa avrebbe peggiorato le condizioni di vita dei lavoratori, per essere poi smentiti dai fatti.

Con il Vertice dell’Aia del dicembre 1969 il processo di integrazione entrava in una nuova fase. Non solo si poneva in cantiere il primo, importante allargamento della Comunità, ma venivano poste altresì le basi per un ampliamento delle competenze della CEE con il lancio nei primi anni Settanta di una serie di nuove politiche destinate ad avere un forte impatto sui lavoratori europei: dalla politica regionale (v. Politica di coesione; Comitato delle regioni) alla politica sociale, dalla Politica ambientale alla Politica industriale, ecc. Questa evoluzione corrispondeva in parte anche alle trasformazioni vissute dall’Europa occidentale sia sul piano sociale, con il “maggio francese”, sia su quello economico, con il rallentamento dell’espansione e poi con il sopraggiungere di una grave crisi che avrebbe caratterizzato tutti gli anni Settanta, spingendo ampi settori del mondo occidentale a ritenere possibile una irreversibile decadenza del modello di sviluppo capitalistico e la conseguente ricerca di nuove risposte. Questi ultimi fenomeni diedero un nuovo impulso all’azione delle forze sindacali e in generale al movimento dei lavoratori; significativo in questo ambito fu il caso italiano con l’“autunno caldo” del 1969 e con la conseguente spinta verso l’unità sindacale fra CGIL, CISL e UIL. La stessa CEE parve rendersi conto dell’opportunità di avviare un confronto con le forze sociali. Nel 1970, su prevalente spinta dell’Italia, si tenne a Lussemburgo la prima conferenza tripartita con la partecipazione di rappresentanti dei sindacati, delle associazioni degli imprenditori e dei governi. Venne inoltre costituito il Comitato permanente sull’impiego, aperto alla presenza di esponenti delle organizzazioni dei lavoratori e, come ricordato, tra il 1972 e il 1974 venne lanciato dalla CEE il primo programma d’azione sociale europea (v. Comitato per l’occupazione).

Questi importanti cambiamenti nel contesto delle politiche comunitarie, l’allargamento della CEE del 1972 con l’ingresso del Regno Unito, in cui le trade unions giocavano ancora una parte importante, nonché l’aspirazione a superare le divisioni della Guerra fredda manifestatasi ad esempio in Italia e in Francia, furono fra gli elementi che spinsero i sindacati europei a fondare, con la conferenza di Bruxelles del febbraio del 1973, la Confederazione europea dei sindacati (CES o ETUC, European trade unions confederation), il cui primo presidente fu l’inglese Victor Feather e il primo segretario il belga Théo Rasschaert. Significativamente, nel volgere di breve tempo, su spinta della CISL e della UIL, la CGIL entrò a far parte della CES. In realtà, a dispetto di questi sviluppi e di un apparente interesse da parte della Comunità nei confronti di alcuni temi cari ai sindacati, quali il lancio nel 1974 del primo programma di azione sociale europea e l’istituzione delle due prime agenzie comunitarie, la CES non sembrò cogliere queste apparenti opportunità per l’avvio di un Dialogo sociale europeo; parve anzi assumere una posizione distante, se non scettica, nei confronti del suo coinvolgimento nelle dinamiche comunitarie. Questo atteggiamento era determinato da varie ragioni: in primo luogo la disillusione delle forze sindacali nei riguardi degli scarsi risultati derivanti dai primi tentativi della CEE di avviare una concreta politica sociale; in secondo luogo la perdurante convinzione da parte dei rappresentanti dei lavoratori che altri gruppi di interesse, in particolare le associazioni padronali, fossero in grado di incidere in maniera ben più efficace attraverso la “comitologia” sulle scelte di Bruxelles. Non va d’altronde trascurato come non vi fosse una sovrapposizione esatta fra l’Europa dei “Nove” e la più ampia area geografica coperta dalla CES.

A questo proposito sulle posizioni della Confederazione esercitavano una certa influenza i sindacati delle nazioni dell’Europa settentrionale, nonché le trade unions britanniche le quali, tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta, si mostravano nel complesso sfavorevoli nei confronti del processo di integrazione, alla stregua d’altronde dello stesso partito laburista. All’interno della CES, dunque, solo alcuni sindacati, per quanto di un certo rilievo, dichiaravano il loro aperto sostegno alla CEE e alla costruzione europea. Tale situazione di stallo non subì sostanziali mutamenti nel corso dei primi anni Ottanta, che videro d’altronde la Comunità affrontare una serie di gravi difficoltà, come ad esempio la questione del contributo britannico al bilancio di Bruxelles (v. Bilancio dell’Unione europea). Da parte loro, in questo stesso periodo alcuni importanti sindacati subivano i primi, duri attacchi alla influenza da loro esercitata nei rispettivi ambiti nazionali a seguito delle tendenze neoliberiste manifestatesi con l’arrivo al potere in Gran Bretagna di Margaret Thatcher. Non vi è da stupirsi, inoltre, se in alcune importanti organizzazioni dei lavoratori continuasse a prevalere la convinzione che la CEE agisse soprattutto a difesa degli interessi padronali, in particolare dei grandi gruppi industriali e finanziari.

Anche nel caso dei rapporti tra la CES e la Comunità il 1985 segnò un momento di svolta. Di particolare rilievo fu la nomina di Jacques Delors alla guida della Commissione europea. L’esponente socialista francese, oltre a essere stato ministro delle Finanze nei primi anni della presidenza di François Mitterrand, aveva vissuto un’esperienza diretta nel mondo sindacale francese, dapprima all’interno della organizzazione cattolica CFTC (Confédération français des travailleurs chrétien), trasformatasi in seguito nella CFDT (Confédération française démocratique du travail). Delors riteneva che all’obiettivo del “grande mercato unico” delineato nel Libro Bianco (v. Libri bianchi) della Commissione (v. Mercato unico europeo) dovesse affiancarsi un coinvolgimento delle forze sindacali nella strategia europea che era in corso di elaborazione ad opera dello stesso Delors e della “coppia” Mitterrand-Helmut Kohl. In tale ambito di particolare rilievo fu l’iniziativa presa dal presidente della Commissione per la convocazione di un primo incontro fra rappresentanti della CES, dell’Union of industrial and employers’ confederations of Europe (UNICE) (v. Unione delle industrie della Comunità europea), ecc. presso il Castello di Val Duchesse, nelle vicinanze di Bruxelles, e che nelle intenzioni di Delors avrebbe dovuto rappresentare l’avvio di un duraturo e proficuo “dialogo sociale” europeo. Seppur tra varie difficoltà – e grazie anche a un significativo intervento del sindacalismo italiano in occasione del congresso della CES tenutosi a Milano nel maggio del 1985 – vi fu da parte della Confederazione un parziale cambiamento di rotta, che si tradusse in una progressiva attenzione verso le proposte di Delors e verso la possibilità che il movimento dei lavoratori individuasse un proprio ruolo nell’ambito delle trasformazioni che la CEE sembrava destinata a vivere, a partire dalla convocazione della conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative) del Lussemburgo, la quale avrebbe condotto alla redazione dell’Atto unico europeo.

La leadership della CES si rendeva conto a questo punto che le trasformazioni economiche e sociali in corso nel mondo occidentale e la strategia varata dalla Commissione europea con il sostegno della Germania occidentale e della Francia avrebbero avuto un forte impatto sulle posizioni delle organizzazioni dei lavoratori, e che sarebbe stato quindi fondamentale per la sorte dei sindacati europei prendere parte in qualche modo a tali cambiamenti al fine di guidarli e di difendere gli interessi dei lavoratori. La strategia del “consenso” auspicata da Delors parve avere parziale successo: il “dialogo sociale” sembrò istituzionalizzarsi con una crescente partecipazione di rappresentanti sindacali alle dinamiche comunitarie e, da parte sua, la CES si mostrò favorevole alle numerose iniziative assunte dalla Commissione – in particolare al progetto avanzato da Delors tra il 1988 e il 1989 per la redazione di una Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, nonché alla volontà della Commissione di far rientrare nel Trattato di Maastricht un “capitolo sociale” (v. Protocollo sulla politica sociale). Fu significativo che nel 1991 il leader sindacale italiano Emilio Gabaglio venisse nominato segretario della CES, in quanto apparteneva alla CISL, una delle organizzazioni europee che aveva sempre sostenuto con maggior forza l’obiettivo dell’unione europea. Non mancarono comunque critiche nei confronti delle scelte della CES, poiché parte delle posizioni espresse dalla Commissione finirono con l’essere in parte vanificate dall’atteggiamento di alcuni Stati membri, in particolare la Gran Bretagna guidata dai conservatori. Londra infatti rifiutò di attribuire una piena validità alla “Carta sociale”, la quale finì con il restare una semplice dichiarazione di principio; inoltre l’Inghilterra riuscì a imporre la clausola dello opting-out sul “capitolo sociale” del trattato di Maastricht. Negli stessi ambienti sindacali si sosteneva spesso che ai riconoscimenti formali conseguiti in ambito europeo non corrispondeva una reale difesa degli interessi dei lavoratori, posti in discussione dalle politiche economiche degli Stati membri e dalla ispirazione “liberista” di gran parte delle scelte compiute dalla Comunità tra la fine degli anni Ottanta e gli inizi degli anni Novanta.

Ciò nonostante, all’indomani di Maastricht la CES continuò a esprimere il proprio sostegno nei riguardi delle maggiori scelte prese dall’Unione europea e a cercare di esercitare un’influenza dall’interno sul Processo decisionale comunitario. Una valutazione positiva venne infatti espressa dalla CES in occasione della firma del Trattato di Amsterdam del 1997, che sembrava sottolineare l’interesse della UE verso temi particolarmente sentiti in ambito sociale, ad esempio quello dell’impiego o della “esclusione sociale”. Le crescenti difficoltà economiche vissute da gran parte degli Stati membri all’inizio del XXI secolo, nonché le incertezze manifestatesi in generale nel processo di integrazione, favorivano il diffondersi della sensazione in vari ambiti sindacali che i risultati conseguiti nel contesto della politica sociale europea, tali da giustificare la cooperazione fra la CES e gli organismi di Bruxelles, fossero di rilievo di gran lunga minore rispetto a quanto sperato in un primo tempo. A tale riguardo si è spesso sottolineata la scarsa incidenza dei provvedimenti normativi destinati a favorire relazioni industriali su scala europea. A ciò va aggiunta la più ampia debolezza di alcune organizzazioni sindacali europee occidentali, nonché la presenza nella CES dei nuovi sindacati dei paesi che già facevano parte dell’ex blocco orientale e che scontano ancora le conseguenze della loro inesperienza e di politiche economiche di stampo “neoliberista”, a volte applicate in maniera troppo rigida e in tempi troppo rapidi.

Sebbene la CES sia ormai un attore pienamente riconosciuto di numerose dinamiche comunitarie e continui a mantenere un atteggiamento sostanzialmente favorevole verso il processo di integrazione, non mancano al suo interno dubbi sugli esiti della strategia di dialogo perseguita negli ultimi decenni con le Istituzioni comunitarie; un’incertezza vissuta d’altronde da numerose organizzazioni sindacali nazionali a proposito del proprio ruolo in un contesto economico e sociale particolarmente complesso e difficile.

Antonio Varsori (2006)

Bibliografia

Ciampani A., La CISL tra integrazione europea e mondializzazione, Edizioni Lavoro, Roma 2000.

Degimbe J., La politique sociale européenne du Traité de Rome au Traité d’Amsterdam, ISE, Bruxelles 1997.

Dolvik, J.E., An emerging Island? ETUC, social dialogue and the Europeanisation of the trade unions in the 1990s, ETUI, Bruxelles 1999.

Gobin C., L’Europe syndicale, Editions Labor, Bruxelles 1997.

Middlemas K., Orchestrating Europe. The informal politics of European Union 1973-1995, Fontana Press, London 1995.