A B C D E F G H I J K L M N O P R S T U V W X Z

Integrazione, Teorie della

image_pdfimage_print

L’integrazione europea ha suscitato un crescente interesse da parte degli studiosi. La natura delle Comunità e poi dell’Unione europea (UE), gli attori fondamentali del processo di integrazione e i probabili sbocchi del processo stesso costituiscono le questioni fondamentali affrontate dalle teorie dell’integrazione europea, che hanno coinvolto progressivamente sempre più ambiti disciplinari (v. anche Integrazione, metodo della). Le teorie dell’integrazione possono essere divise in vari modi, e l’avanzamento del processo ha portato a modifiche delle varie teorie, che saranno quindi considerate nella loro evoluzione storica, legandole a tre filoni fondamentali sempre presenti.

La scuola di pensiero confederale – o internazionalista o intergovernativa – considera i governi come gli attori fondamentali che controllano il processo di integrazione, e quindi la Comunità, poi Unione europea, come un’organizzazione internazionale che, pur divenendo sempre più sofisticata, non mette in gioco la sovranità degli Stati membri. Il filone neofunzionalista (se si considera come Funzionalismo la teoria elaborata da David Mitrany – non riguardante soltanto, né prioritariamente l’integrazione europea – diviene necessario considerare la teoria dell’integrazione europea come neofunzionalismo; tuttavia nell’uso comune e nel dibattito politico con il termine funzionalismo si intende il neofunzionalismo) considera l’integrazione europea come un processo dinamico di superamento della sovranità assoluta degli Stati che dovrebbe portare infine all’unione politica senza soluzione di continuità. La tradizione federalista (v. Federalismo) considera il processo di integrazione come la risposta incompleta alla crisi dello Stato nazionale che richiede invece la fondazione di uno Stato federale europeo, possibile solo mediante un processo costituente volto a elaborare una costituzione europea che fondi la federazione. A questi tre filoni fondamentali si aggiungono alcuni precursori teorici, non sviluppati specificamente in relazione al processo di integrazione europea, e che saranno qui solo menzionati: il transazionalismo ed il funzionalismo elaborati da Karl Deutsch e David Mitrany rispettivamente.

Il filone neofunzionalista e la tradizione federalista hanno in comune l’idea che gli Stati nazionali non siano in grado di garantire la pace, né di risolvere alcuni problemi fondamentali, ovvero di esercitare efficacemente alcune funzioni di governo, e si configurano come teorie che indicano vie diverse per garantire la pace e la soluzione di quei problemi. Inizialmente le teorie dell’integrazione avevano una componente normativa più esplicita; solo dopo il suo avvio il processo di integrazione ha potuto essere oggetto di un’indagine non speculativa e quindi meno normativa.

La scuola di pensiero confederale e la sua evoluzione

La tradizione confederale considera tradizionalmente gli Stati come il principale attore internazionale, e per questo vi si annoverano numerosi realisti. Notando che il processo di integrazione europea è stato avviato ed è proseguito in virtù di decisioni, quasi sempre unanimi, dei suoi Stati membri, i confederalisti considerano l’integrazione europea come una forma di cooperazione internazionale particolarmente sofisticata, e ritengono che pertanto gli Stati membri non cederanno la loro sovranità a organi sopranazionali e potranno al più costituire una confederazione.

Questa posizione è stata assunta politicamente da alcuni Stati, in primo luogo dalla Gran Bretagna (v. Regno Unito) in occasione del Congresso dell’Aia nel 1948 che portò alla creazione del Consiglio d’Europa, secondo i canoni tradizionali delle organizzazioni internazionali. Quando, nel 1950 la Dichiarazione Schuman (v. Piano Schuman) avviò il processo di integrazione europea, la Gran Bretagna non partecipò, perché favorevole alla cooperazione internazionale ma non all’integrazione sopranazionale. In seguito la Francia, ed in particolare il generale Charles de Gaulle, assunse questa posizione, riassunta dall’idea dell’Europa delle patrie. Si oppose quindi all’applicazione del voto a maggioranza (v. Maggioranza qualificata), previsto dai Trattati di Roma a partire dal 1° gennaio 1966, inizio della terza fase del periodo transitorio del Mercato comune (v. Comunità economica europea) – poiché la rinuncia al veto nazionale implicava appunto il superamento del potere decisionale di ultima istanza degli Stati e una negazione della loro sovranità assoluta (v. Voto all’unanimità) – portando alla “crisi della sedia vuota” nel 1966 e al successivo Compromesso di Lussemburgo.

Il successo di de Gaulle confermò la teoria confederalista, con gli Stati al centro del processo di integrazione, e spinse a distinguere la high politics, comprendente i settori della politica estera e di difesa e immune da tendenze integrative, dalla low politics riguardante l’economia e settori tecnici in cui la logica integrativa neofunzionalista poteva manifestarsi, non toccando i pilastri della sovranità nazionale: si negava alla radice la continuità tra integrazione economica e politica al cuore della teoria neofunzionalista.

La tradizione confederalista considera gli anni Settanta come un periodo di ristagno dell’integrazione a causa del fallimento dei progetti di unificazione monetaria e del più modesto avvio dell’Unione economica e monetaria nel 1979 e della sottovalutazione strutturale dell’importanza dell’elezione diretta del Parlamento europeo nel 1979 (v. Elezioni dirette del Parlamento europeo). Concentrandosi sui governi come attori essenziali, i confederalisti danno poco peso alle iniziative della Commissione europea riguardo all’integrazione monetaria, e poi del Parlamento europeo con il progetto di Trattato di Unione europea, o Progetto Spinelli (v. Spinelli, Altiero), come fattori decisivi del cosiddetto “rilancio” dell’integrazione europea con l’Atto unico europeo del 1986. Per Alan S. Milward l’integrazione europea costituisce «il salvataggio europeo dello Stato nazionale», ovvero un quadro di cooperazione – creato da e per gli Stati nazionali, e fermamente nelle loro mani – per gestire la crescente interdipendenza. Il liberal intergovernmentalism di Andrew Moravcsik fonde elementi delle tradizioni realista e liberale delle relazioni internazionali, sostenendo che sarebbero soprattutto le preferenze delle élites al potere negli Stati membri a determinare le decisioni relative all’integrazione europea. L’affermazione nei principali paesi del pensiero neoliberale negli anni Ottanta spiegherebbe ad esempio il contenuto dell’Atto unico volto a creare un grande Mercato unico europeo. La teoria di Moravcsik si può inserire nella tradizione confederalista, perché sottovaluta l’importanza del quadro istituzionale sopranazionale europeo, e considera l’UE come un esempio particolarmente riuscito di cooperazione internazionale.

I risultati di questa diffusa prospettiva teorica dipendono dalla scelta, assai opinabile, di considerare il 1957 e la Comunità economica europea (CEE), invece della Dichiarazione Schuman del 1950, come il punto di partenza dell’analisi (v. Moravcsik, 1998), non considerando quindi il periodo 1950-1957 in cui innegabile fu l’influenza di personaggi come Jean Monnet e Altiero Spinelli, che non facevano parte dei governi nazionali. Inoltre, la teoria spiega il risultato di certi negoziati intergovernativi (v. Cooperazione intergovernativa), ma non l’avvio dei negoziati in un dato momento, in cui magari il ruolo di altri attori risulta decisivo. Ad esempio, una delle Conferenze intergovernative (CIG) che ha portato all’Atto unico, fu convocata a maggioranza con il voto contrario di alcuni paesi membri, tra cui uno importante come la Gran Bretagna, ed è difficilmente spiegabile senza fare riferimento al Progetto Spinelli, che i governi non presero formalmente in considerazione, ma cui trovarono comunque doveroso rispondere. Infine, il varo dell’Euro, e le regole connesse, implicano una limitazione della sovranità economica e monetaria degli Stati che vi fanno parte e pongono quindi nuovi problemi a questa prospettiva teorica. Lo stesso vale per l’elaborazione di una Costituzione europea. Il passaggio dai Trattati internazionali alla “Costituzione”, parola a lungo tabù, sebbene accompagnato da contenuti istituzionali ambigui, è significativo, anche in considerazione del ruolo giocato dal Parlamento europeo, dalla Commissione europea e dai parlamenti nazionali nella sua elaborazione nell’ambito della Convenzione europea che solo in parte la CIG ha potuto modificare.

La tradizione confederalista ha la sua forza nel fatto, innegabile, che in ogni fase del processo di integrazione i governi nazionali hanno giocato un ruolo decisivo, e la sua debolezza nella difficoltà a render conto degli avanzamenti del processo di integrazione. In questa tradizione il punto di partenza e il punto di arrivo sono sempre gli Stati nazionali, ed è difficile sostenere che i vari passi del processo di integrazione non intacchino mai il loro potere decisionale ultimo e quindi la loro sovranità. Più il processo di integrazione avanza e maggiori sono le difficoltà di questa tradizione teorica, che tiene poco conto dei poteri interpretativi della Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea), di Codecisione legislativa del Parlamento europeo, di determinazione della politica monetaria e di creazione di moneta della Banca centrale europea (BCE) e dell’estensione del voto a maggioranza nel Consiglio dei ministri riguardo a molte importanti politiche e nomine dell’Unione europea.

Il filone neofunzionalista

Il processo di integrazione europea ha seguito una via gradualista, e quindi il neofunzionalismo ha costituito per lungo tempo la principale teoria dell’integrazione europea, sebbene sia stata sottoposta a un’ampia critica e revisione (v. Haas, 1968). Sul piano politico, il neofunzionalismo si propone come strategia graduale per unire l’Europa. Data la difficoltà di superare la sovranità nazionale assoluta in un colpo solo, il neofunzionalismo sosteneva la necessità di integrare settori economici limitati, facilitando una convergenza di aspettative ed interessi e uno spostamento graduale del senso di lealtà dagli Stati nazionali alle autorità sopranazionali, e quindi una spinta a integrare sempre maggiori settori, spiegata attraverso il concetto di spill-over, fino all’integrazione economica e poi politica, senza soluzione di continuità.

L’interdipendenza tra i settori dell’economia e tra gli Stati europei sarebbe stata la causa della dinamica espansiva dell’integrazione, ovvero dello spill-over, che avrebbe richiesto però l’iniziativa delle istituzioni sopranazionali europee, interessate a rafforzare i propri poteri, e veri attori del processo poiché dalla loro capacità di gestire i settori integrati e di promuovere l’integrazione ad altri settori dipendeva l’avanzamento del processo. Di conseguenza le varie Comunità erano considerate come stadi di questo processo graduale, come strutture istituzionali sopranazionali atipiche, diverse sia dalle organizzazioni internazionali che dagli Stati federali.

Effettivamente, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) funse da modello per la Comunità europea di difesa (CED), il cui fallimento sembrò confermare che i settori tradizionali della sovranità statale, come la difesa, non potessero essere integrati se non dopo un lungo processo gradualistico. La successiva creazione della CEE e della Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom) fu interpretata come il frutto dello spill-over neofunzionalista, e i successi del Mercato comune come testimoni dell’efficienza dei tecnocrati comunitari. Il ruolo di Monnet, a capo dell’Alta autorità della CECA in questa prima fase del processo, confermava l’individuazione neofunzionalista degli attori del processo. Le difficoltà incontrate dalla Commissione Hallstein (v. Hallstein, Walter) nell’azione per l’approfondimento dell’integrazione, fino allo scontro con la Francia di de Gaulle che portò alla “crisi della sedia vuota” e al Compromesso di Lussemburgo, misero però in crisi l’impianto teorico neofunzionalista (v. Haas, 1968).

Emergevano i limiti del neofunzionalismo: l’impossibilità di verificarne le predizioni, mancando un quadro temporale in cui l’integrazione in un settore avrebbe dovuto produrre uno spill-over verso un altro settore; la difficoltà di spiegare gli insuccessi o i mancati avanzamenti dell’integrazione; la sottovalutazione del ruolo dei governi nel processo. Questo portò una profonda revisione del neofunzionalismo, che mise in questione il suo concetto più controverso e importante, lo spill-over, e considerava come egualmente possibili dinamiche di avanzamento o regresso dell’integrazione europea (v. Lindberg, Scheingold, 1971).

Il neofunzionalismo tornò in auge con il cosiddetto “rilancio” dell’integrazione europea degli anni Ottanta. Il progetto di Mercato unico, e poi di Unione economica e monetaria, sembravano una manifestazione tardiva dell’effetto spill-over, portando all’integrazione di tutta l’economia fino alla moneta; e il ruolo di Jacques Delors, a capo della Commissione, confermava che gli avanzamenti del processo erano legati all’efficacia di questa istituzione sopranazionale (v. Sandholtz, Zysman, 1989).

Lo scontro tra le interpretazioni neofunzionalista e intergovernativa del rilancio europeo degli anni Ottanta, che mettevano in luce alcuni aspetti del processo, mettendone in ombra altri, ha fatto dubitare molti autori dell’utilità di queste macroteorie e li ha spinti a concentrarsi su aspetti più specifici del funzionamento dell’Unione o del processo di integrazione, rinunciando a individuare una teoria complessiva in grado di fornire una spiegazione della dinamica dell’intero processo di integrazione. Si sono così aperti numerosi campi specifici di indagine per politologi, giuristi, economisti e studiosi di vari ambiti disciplinari. Pur senza fornire una teoria complessiva dell’integrazione europea tali contributi hanno accresciuto le conoscenze riguardo ad aspetti specifici dell’Unione e dell’integrazione europea, dal ruolo della Corte di giustizia a quello dei numerosi Comitati e gruppi di lavoro, dal funzionamento dei Partiti politici europei nel Parlamento allo sviluppo dallo SME (Sistema monetario europeo) all’euro.

La tradizione federalista

La tradizione federalista individua l’impegno per l’unità europea come un impegno personale dei cittadini che cerca di mobilitare effettivamente, come testimonia la creazione di movimenti federalisti in tutta Europa (v. Unione europea dei federalisti; Movimento federalista europeo). In quanto ideologia di un movimento politico, il federalismo europeo si è confrontato, spesso duramente, con la realtà del processo di integrazione, modificando i propri orientamenti teorici.

Il federalismo europeo si è sviluppato significativamente tra le due guerre mondiali e durante la Seconda guerra mondiale, anche se precursori si ritrovano già nel XVIII e nel XIX secolo. Fino alla fine del periodo transitorio del Mercato comune i federalisti europei restano fedeli alle prime elaborazioni teoriche sottolineando – oltre alla necessità di superare gli Stati nazionali privandoli della loro sovranità assoluta, al fine di garantire la pace e lo sviluppo economico, e alla federazione come forma istituzionale più idonea a garantire l’unità europea e le diversità culturali nazionali – l’esigenza di un momento costituente e quindi di un’attiva partecipazione popolare per redigere una Costituzione europea che fondasse il nuovo Stato federale europeo. I cittadini europei, ovvero il popolo federale europeo in formazione, erano per i federalisti il soggetto politico da mobilitare nel processo di integrazione, mentre i governi costituivano insieme uno strumento e un ostacolo rispetto all’avanzamento del processo.

Non è stato con il metodo costituente che ha avuto inizio il processo di integrazione europea, tuttavia all’inizio del processo i federalisti considerarono i governi più come uno strumento che come un ostacolo e valutarono positivamente le iniziative neofunzionaliste come la CECA e soprattutto la CED, cui riuscirono ad associare il progetto di Comunità politica europea (CPE), prevedendo la stesura di un Trattato Costituzione da parte di una Assemblea ad hoc, di fatto la futura Assemblea parlamentare della CED con funzione di Assemblea costituente. Dopo il fallimento della CED i federalisti considerarono i governi nazionali soprattutto come un ostacolo, e perseguirono la loro strategia costituente facendo appello direttamente ai cittadini europei con le campagne per il Congresso del popolo europeo e poi con il Censimento volontario del popolo europeo, ma la loro influenza fu assai limitata, ed errata la previsione del fallimento del Mercato comune – sebbene fosse corretta la critica che esso non avrebbe portato di per sé all’unione economica e poi politica come credevano i neofunzionalisti.

Questa fase portò a una profonda revisione del pensiero federalista, che distinse tra “integrazione negativa”, che si limitava a eliminare ostacoli e barriere, e “integrazione positiva”, che richiedeva politiche attive europee che il quadro istituzionale iniziale della CEE non permetteva, per dar conto del successo del Mercato comune e del mancato raggiungimento del mercato unico. I federalisti iniziarono a concepire l’integrazione come un processo a fisarmonica, che poteva creare più volte le condizioni per giungere alla creazione di uno Stato federale europeo senza che queste fossero necessariamente sfruttate, come ai tempi della CED (v. Albertini, Una rivoluzione…, 1999). L’integrazione non mirava a creare lo Stato federale europeo, ma poteva permetterlo; eliminando l’elemento teleologico, i federalisti poterono distinguere il processo di integrazione come potenziale fase di avvicinamento dal processo costituente, necessario al fine di giungere alla fondazione dello Stato federale europeo (v. Albertini, Nazionalismo…, 1999).

Su questa base i federalisti svilupparono un quadro interpretativo e una serie di concetti specificamente designati a comprendere il processo d’integrazione nei suoi tre aspetti: unificazione, integrazione e costruzione. Il processo aveva come significato storico l’unificazione di più Stati, e si svolgeva lungo due binari: l’integrazione economica e la costruzione di istituzioni sopranazionali. Il grado di costruzione istituzionale determinava il grado di integrazione possibile, come dimostrava l’insuccesso dell’integrazione positiva in un quadro istituzionale inadeguato, e più tardi la necessità del voto a maggioranza qualificata, ovvero del superamento dell’unanimità e dei veti nazionali, per realizzare il Mercato unico – su quest’ultima tesi concordano anche i filoni confederalista e neofunzionalista.

In secondo luogo, gli attori del processo erano diversi. Da un lato l’europeismo organizzato, ovvero i Movimenti europeistici e federalisti, che mobilitavano di volta in volta l’europeismo organizzabile nella classe politica e l’europeismo diffuso, ovvero il sostegno all’integrazione europea largamente presente nella popolazione. Il loro compito era quello di prendere l’iniziativa suggerendo i passi che potevano far procedere il processo d’integrazione di fronte alla percezione sociale diffusa di una crisi, ovvero di un problema non risolvibile dai singoli Stati nazionali. Se la percezione della crisi era forte, e l’iniziativa federalista adeguata a risolverla e capace di mobilitare un minimo di consenso, poteva emergere una leadership europea occasionale in grado di porre la proposta integrativa federalista al centro dell’agenda politica e di coagulare il consenso necessario a portarla avanti. La leadership europea occasionale poteva essere offerta da un leader politico nazionale – un primo ministro o un ministro degli esteri ad esempio – o da un’istituzione sopranazionale europea come la Commissione o il Parlamento.

I federalisti continuarono a ritenere che la fondazione di uno Stato federale europeo richiedesse una Costituzione e un momento costituente, ma – anche grazie a questo quadro interpretativo – compresero che erano necessarie tappe intermedie perché il tema del governo e della Costituzione federale entrasse nell’agenda politica. A tal fine idearono la strategia del gradualismo costituzionale, sintetizzata nello slogan “Elezione europea, moneta europea, governo europeo” che individuava i passi necessari a tal fine. Indubbiamente si è giunti all’elaborazione della prima costituzione europea, sebbene non di una costituzione federale, dopo l’elezione diretta del Parlamento europeo e la creazione dell’euro. Ed è facilmente dimostrabile dalla ricerca storiografica sia che l’influenza delle personalità e dei movimenti federalisti si è manifestata principalmente quando hanno proposto un passo integrativo in grado di risolvere il problema percepito maggiormente in quel momento, sia che essi furono i primi a proporre un determinato passo integrativo in un dato momento. Se questo porterà poi alla realizzazione di una vera federazione europea è presto per dirlo.

Conclusione

Ciascuno dei filoni qui esaminati ha avuto una propria evoluzione specifica, cercando di rispondere allo sviluppo del processo di integrazione europea, e ciascuno ha punti di forza e di debolezza. Forse è proprio sulla complementarietà degli spunti più interessanti di questi filoni che dovranno fondarsi le ulteriori riflessioni teoriche sul processo di integrazione europea. Al riguardo il quadro esplicativo fondato sui concetti di crisi, iniziativa e leadership europea occasionale elaborato nell’ultima fase della riflessione federalista è assai utile, perché incorpora nell’identificazione degli attori e della natura dell’Unione elementi delle altre teorie, come si evince da una sua rapida applicazione esemplificativa ad alcune fasi del processo di integrazione.

Per la CECA, la necessità della pacificazione franco-tedesca fornì la crisi, Monnet l’iniziativa e Robert Schuman la leadership europea occasionale. La CED fu legata alla guerra di Corea e la richiesta americana di riarmo tedesco, all’iniziativa di Monnet e alla leadership europea occasionale di René Pleven, su cui si innestò l’iniziativa di Spinelli e la leadership europea occasionale di Alcide De Gasperi per inserire l’art. 38 nel Trattato CED legandolo alla CEP e al Trattato Costituzione redatto da un’Assemblea e non da una conferenza intergovernativa. Ma il mutare dei governi in Francia fece mancare la leadership europea occasionale e portò alla caduta della CED. L’avvicinarsi del periodo transitorio del Mercato comune con il previsto passaggio al voto a maggioranza avrebbe creato una crisi ed un’occasione per il rilancio dell’integrazione politica in senso federale, ma la leadership europea occasionale che emerse con forza fu quella di de Gaulle, volta ad impedire proprio questo sviluppo (v. Albertini, Nazionalismo…, 1999). All’inizio degli anni Settanta l’inconvertibilità del dollaro e il crollo del sistema di Bretton Woods, uniti all’iniziativa federalista e alla leadership di Roy Jenkins, a capo della Commissione, misero nell’agenda il progetto di unificazione monetaria che allora fallì in parte, portando solo allo SME. Mentre la crisi economica seguita allo shock petrolifero e la crescente competizione internazionale, unite all’elezione diretta e all’iniziativa di Spinelli, portarono il Parlamento europeo a svolgere il ruolo di leadership europea occasionale, portando alla convocazione a maggioranza di una CIG e quindi all’Atto unico. Il crollo del muro di Berlino e la Riunificazione tedesca (v. anche Germania) costituirono una crisi che permise l’unificazione monetaria per creare un quadro di stabilità e legare strettamente la Germania unita all’Europa, grazie alla leadership europea occasionale fornita insieme dalla Commissione Delors e da Helmut Josef Michael Kohl e François Mitterrand.

Questo quadro teorico è complesso e flessibile. Spiega perché certi passi vengono fatti in un dato momento e non in un altro: ad esempio Monnet, presunto neofunzionalista, propose la Comunità europea di difesa all’inizio del processo perché la crisi era sul piano militare, e una proposta di integrazione economica non l’avrebbe risolta e non avrebbe quindi avuto alcuna attrattiva in quel momento per la classe politica europea. Egli individuava il ruolo di iniziativa di personalità e movimenti federalisti, ma anche quello di leadership europea occasionale svolto in tempi diversi sia da istituzioni europee che da governi nazionali – accogliendo quindi alcune affermazioni del confederalismo e del neofunzionalismo – e infine quello decisionale dei governi nazionali. In altre parole, Monnet riconosceva il ruolo dei vari attori coinvolti: i governi, le istituzioni europee, i cittadini europei e le loro espressioni organizzate, i movimenti europeisti. Riconosceva nell’UE i crescenti elementi federali – l’elezione diretta del Parlamento europeo e l’accrescimento dei suoi poteri, la Corte di giustizia, la BCE e l’euro, il voto a maggioranza qualificata nel Consiglio – accanto al perdurare di quelli intergovernativi. Il suo approccio potrebbe quindi fornire una buona base per lo sviluppo ulteriore delle teorie dell’integrazione europea.

Roberto Castaldi (2009)

Bibliografia

Albertini M., Nazionalismo e federalismo, il Mulino, Bologna 1999.

Albertini M., Una rivoluzione pacifica, l Mulino, Bologna 1999.

Haas E.B., The Uniting of Europe. Political, social and economic forces, 1950-1957, Stanford University Press, Stanford 1958.

Lindberg L.N., Scheingold S.A. (a cura di), Regional integration: theory and research, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1971.

Milward A.S., The European rescue of the nation-state, Routledge, London 1992.

Moravcsik A., The choice for Europe, University College of London Press, London 1998.

Rosamond B., Theories of European integration, MacMillan, Basingstoke-London 2000.

Sandholtz W., Zysman J., 1992: Recasting the European bargain, in “World politics”, XLII, n. 1, 1989.