Alphand, Hervé

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Figlio di un ambasciatore che rappresentò la Francia a Londra e Mosca tra le due guerre e pronipote dell’urbanista che rivoluzionò insieme con Haussmann la Parigi del Secondo impero, A. (Parigi 1907-ivi 1994) è stato uno dei più importanti grands commis francesi del Novecento, con una carriera fuori del comune per durata, varietà e importanza degli incarichi ricoperti. Fu anche il funzionario che, forse più di ogni altro nella sua generazione, avvertì la contraddizione tra l’eredità nazionale della Francia e la sua vocazione europea e si sforzò, talvolta di fronte a difficoltà insormontabili, di conciliare i suoi due modelli: Charles de Gaulle e Jean Monnet.

Entrato a ventitré anni nel corpo scelto degli ispettori delle Finanze, A. si trovò già prima della Seconda guerra mondiale a condurre delicati negoziati finanziari, in particolare con la Spagna di Franco e l’Italia fascista, che gli ultimi governi della Terza repubblica cercavano inutilmente di sottrarre all’orbita economica tedesca. Riparato a Vichy dopo la disfatta del 1940, si rese subito conto che il maresciallo Pétain stava avviando l’amministrazione francese verso una politica di collaborazione, ossia di subordinazione al Terzo reich. Inviato in missione negli Stati Uniti, ruppe con Vichy e si trasferì a Londra, presso il Comitato di liberazione del generale de Gaulle, assumendo la carica di direttore degli affari economici del governo provvisorio che conservò quando il ministero degli Esteri fu ricostituito a Parigi nel 1944. In quegli anni svolse un’azione instancabile per procurare al movimento gollista il sostegno delle banche di Wall Street e della City: un ruolo prezioso di “banchiere della Resistenza” che non gli fruttò molta riconoscenza da parte del generale, il quale preferì dimenticare quanto la “France libre” dovesse ai finanziamenti anglosassoni.

Fu durante la guerra che A. maturò una riflessione personale sul ruolo della Francia nel mondo che non poteva più rimanere, ai suoi occhi, quello di una grande potenza imperiale. Solida preparazione economica, cultura anglosassone (insolita allora nell’alta burocrazia francese) e il realismo ereditato dal padre gli permisero di capire che la Francia poteva ritrovare dopo la guerra un rango adeguato alla sua storia solo ponendosi al centro di un’Europa unita e prospera. Se ne trova l’impronta nel progetto di costituzione di un’Unione economica dell’Europa occidentale (v. Unione economica e monetaria), a cui A. lavorò sin dal 1943 sotto la guida di Jean Monnet insieme agli economisti René Mayer e Laurent Blum-Picard. Questa visione lo mise ben presto in contrasto con l’ala più retriva del movimento gollista, di cui non condivise mai né l’ideologia populista né l’atteggiamento antiamericano. L’ostracismo dei fedelissimi (v. anche Federalismo) del generale avrebbe pesato a lungo, impedendogli di diventare, come sperava, un vero e proprio consigliere del principe, quale il collega e rivale Maurice Couve de Murville. Da qui una certa amarezza, evidente nel diario che A. pubblicò dopo il suo pensionamento nel 1973 e che avrebbe potuto intitolarsi, come uno di quei classici della letteratura che tanto amava, “Grandezze e dolori di un servitore dello Stato”.

Anche dopo il ritiro di de Gaulle nel gennaio 1946, A. si confermò un tecnico di prim’ordine. Gli incarichi di prestigio si moltiplicarono – come la presidenza nel settembre 1947 del Comitato di cooperazione economica europea (CCEE) incaricato di negoziare l’applicazione del Piano Marshall – ma sempre accompagnati da una certa diffidenza della classe politica della Quarta repubblica. Ciò non gli impedì di portare avanti iniziative pionieristiche per la costruzione europea. Alla Conferenza di Londra del novembre 1948 sullo statuto della Ruhr perorò la causa di una gestione internazionale a tempo indeterminato delle risorse energetiche e industriali del bacino renano. A prima vista era la riproposta di un’esigenza di sicurezza francese, analoga a quella che nel 1923-25 aveva portato all’infelice decisione dell’occupazione renana e alla crescita del revanscismo nazista. Per questo inglesi e americani la bocciarono e restituirono la cosiddetta “Bizone” all’amministrazione locale, dando il via alla rinascita l’anno successivo di uno Stato tedesco, la Repubblica federale. In realtà, almeno nella visione di A., il tentativo francese obbediva a un’esigenza più ampia: quella di “comunitarizzare” la questione tedesca per eliminare alla radice il rischio di un nuovo conflitto tra Francia e Germania. Maggior successo ebbe un’altra iniziativa condotta allora da A., ossia l’offerta all’Italia e ai paesi del Benelux di un’unione doganale regionale, alla quale Roma aderì prontamente e che costituì il primo esperimento di riapertura delle frontiere europee alla libera circolazione di mano d’opera e di merci.

Gli anni successivi videro A. sempre in prima linea nella battaglia per la creazione di una Comunità europea di difesa (CED). Con Robert Schuman e René Pleven fu il principale artefice da parte francese del trattato istitutivo della CED, che, ideato sulla base del Piano Pleven, venne firmato a Parigi il 27 maggio 1952 da Schuman e dagli altri ministri degli Esteri dei sei paesi che avevano istituito l’anno prima la Comunità europea del carbone e dell’acciaio. Alla base dell’impegno di A. per la CED vi era la stessa esigenza strategica che lo aveva guidato nel tentativo di dare uno status internazionale alla Ruhr. Come scrisse nel suo diario: «Mai si potrà realizzare un’Europa federale o confederale se l’industria pesante tedesca o lo stato maggiore tedesco dominano di nuovo la Germania. Il piano Schuman e l’esercito europeo, nel rispondere a questa doppia preoccupazione, ci impongono di creare un’Europa politica» (L’étonnement d’être. Journal 1939-1973, Fayard, Paris 1977, p. 231, annotazione del 15 giugno 1952).

Enorme fu pertanto la sua delusione quando i voti congiunti di gollisti, comunisti e dei “franchi tiratori” radical-socialisti portarono dopo due anni di snervanti trattative alla bocciatura del trattato all’Assemblea nazionale nell’agosto 1954. Una visione ormai superata della sovranità nazionale aveva impedito alla Francia di mettersi alla testa di un’Europa in grado di garantire, almeno teoricamente, la propria sicurezza. L’esercito tedesco si ricostituì sotto l’egida dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (North Atlantic treaty organization, NATO) e l’occasione di una difesa europea svanì per almeno un paio di generazioni.

Nel 1950 A. fu nominato ambasciatore di Francia, il più giovane nella storia della carriera e contemporaneamente rappresentante a Londra, alle riunioni del Consiglio atlantico. Ma la sua attività professionale rallentò mentre la Quarta repubblica affondava nel marasma politico. Dopo la fine della CED, scartata l’ipotesi di dimettersi dalla carriera per entrare nel mondo bancario, A. si rassegnò a partire in “esilio” a Tokyo, allorché, grazie anche all’influenza del suo mentore Jean Monnet negli ambienti americani, fu nominato rappresentante permanente alle Nazioni Unite (1955-56) e subito dopo ambasciatore negli Stati Uniti. In tale incarico, che mantenne per quasi un decennio, fino al 1965, con tre diversi presidenti americani, A. assicurò alla diplomazia francese un’influenza superiore al peso effettivo del paese.

Il ritorno al potere di de Gaulle nel 1958 segnò il momento della verità per A. come per molti alti funzionari francesi. Dopo la fruttuosa collaborazione degli anni di guerra – che tuttavia non gli aveva consentito di essere inserito nell’élite dei “Compagnons de la Libération” – si era trovato negli anni Cinquanta sul fronte opposto a quello del generale, che tuonava contro l’Europa dei “mercanti”. Questi precedenti crearono tra loro un rapporto ambivalente, lungo tutto il primo decennio della Quinta repubblica. De Gaulle, consapevole delle qualità di A. e dei suoi appoggi nel mondo anglosassone, a lui tradizionalmente ostile, continuò a utilizzarlo ma senza lasciargli alcun margine d’autonomia. A. accettò di servire de Gaulle, convinto come molti che fosse l’unico uomo in grado di risollevare le sorti della Francia, ma non divenne mai un vero gollista. Troppe cose separavano i due politici, specie sui due temi che A. conosceva meglio e che gli stavano più a cuore: l’Europa e il rapporto transatlantico. Idealmente rimase legato alla concezione federalista di Monnet, personaggio che sentiva anche umanamente più vicino e al quale continuava a rivolgersi nei momenti di dubbio, mentre del generale non condivideva il gusto della grandeur e la retorica nazionalista che, specie agli occhi degli americani, gli sembravano controproducenti. Ma aveva vinto de Gaulle non Monnet, era stato lui a ridare prestigio alla Francia nel mondo, chiudendo quel contenzioso coloniale che per A. era ormai solo una palla al piede: «Siamo una piccola potenza, dai magri bilanci, che le sue risorse e il suo ingegno non possono da sole portare al primo rango. Abbiamo bisogno della volontà tenace di quest’uomo per compiere il miracolo» (ivi, p. 459).

Gollista riluttante, A. si trovò così ad apprendere l’arte del diplomatico, che deve talvolta servire un regime in cui crede poco per continuare a servire lo Stato al quale ha giurato fedeltà. Lo fece spesso con senso di frustrazione ma con straordinario successo personale. Poter contare su un accesso diretto e confidenziale ai massimi dirigenti del paese in cui si è accreditato – che è il compito essenziale, ma sempre più difficile un ambasciatore – gli permise di esercitare alla Casa Bianca un ruolo che probabilmente nessun rappresentante francese e forse europeo poté svolgere prima o dopo di lui. Il paradosso è che a Parigi A. non aveva un’influenza analoga e quasi tutti i suoi propositi di ristabilire uno stretto rapporto tra Parigi e Washington furono destinati al fallimento. Basti pensare al tentativo di convincere de Gaulle ad accettare la fornitura dei missili Polaris che Kennedy (v. Kennedy, John Fitzgerald) aveva offerto a Nassau nel dicembre 1962 a Francia e Regno Unito, in alternativa almeno parziale alla force de frappe. Ma il ruolo di A. fu importantissimo in termini di “limitazione dei danni”, in quanto evitò che su altri temi, dal Vietnam alla velleitaria Ostpolitik del generale, la reazione americana fosse ancor più negativa, specie dopo che al filo-europeo Kennedy subentrò Johnson (v. Johnson, Lyndon Baines), che lo era molto meno.

Nel 1965, de Gaulle richiamò A. a Parigi come segretario generale del Quai d’Orsay, incarico che per la prima volta fu assegnato a un diplomatico che veniva dalla specializzazione economica e non politica. Per altri sette anni, specialmente dopo l’uscita di scena del generale, con uomini a lui più congeniali come Georges Pompidou e il ministro degli Esteri Maurice Schumann, esponenti dell’ala morbida e tecnocratica del gollismo, A. rese grandi servigi alla Francia, dalla ripresa dei rapporti con la Cina al negoziato di Helsinki, non intervenendo più tuttavia sui grandi temi della costruzione comunitaria, a parte l’antico impegno per sbloccare l’entrata del Regno Unito nella CEE.

Gli ultimi vent’anni di A. furono avvolti nel più stretto riserbo. Come molti diplomatici, prigionieri felici prima, vittime poi della gabbia dorata in cui hanno vissuto e operato, passò rapidamente dal proscenio all’oblio. L’immagine che verrà conservata di lui è affidata alle pagine, talvolta magistrali, talvolta scettiche fino al cinismo, del suo diario e ai ricordi dei contemporanei che (a cominciare dall’asciutta citazione contenuta nelle memorie di de Gaulle) non hanno reso sempre giustizia al suo ingegno, alla sua laboriosità, al suo patriottismo “franco-europeo”.

Maurizio Serra (2010)